NON AVER PAURA DELLA MORTE

Se non sapessi di morire non saresti uomo. Per gli animali e le piante la fine della vita, la sofferenza in generale, sembra percepita nel momento in cui si presenta. Gli uomini invece pensano l’infinito ma non sanno definirlo se non attraverso fantasie consolatorie. Vivo per un motivo? Avrò uno scopo? Perché faccio questo o quest’altro? Perché sono così? Tante domande a cui, in realtà, niente e nessuno può rispondere. In fondo la morte è uno specchio: di fronte al quale una mattina ci sentiamo fighi, quella dopo siamo ciò che siamo.

E non è vero che il vuoto può essere sanato dalla compulsione esistenziale. Non si evita il nulla agendo nella speranza che qualcuno o qualcosa ricompensi, cercando emozioni che accendano la quotidianità, consumando affetti che mascherino la solitudine, fuggendo nella grossolana materialità. Tanto più è effimero l’oggetto di dipendenza con cui si compensa l’irrequietezza, tanto più è fugace l’illusione.

Anche se l’istinto di sopravvivenza fa dell’ipocrisia la sola strategia per andare avanti, idealizzare la vita esaltando l’individualità nel suo integralismo manieristico annebbia la visione, non dà dignità all’essere, né spiegazione del non essere. Perché non è vero che anche quando è spiacevole, anche quando è insopportabile, anche quando è deumanizzante, la vita sia sempre più consolatoria del mistero. L’illusione di possederla inebria d’eternità come appropriarsi dei beni stimola il delirio di onnipotenza. Ẻ una finzione, un prendersi in giro. La brama è un narcotico che deforma la percezione. Finito l’effetto, la voragine è più vasta di prima.

Perché vedi, i mali dell’uomo sono il profitto e l’ideologia. Già da soli sono pericolosi, insieme sono una tragedia. E la tragedia è ciò che siamo, aggravata da ciò che facciamo per dissimularla. Se non affronti l’abisso e ti arrabatti nell’ostentazione sarai sempre imperfetto. Imperfezione che è frustrazione, frustrazione che è vita sprecata.

Ognuno di noi è volontà in cerca d’identità. Ma per trovarla deve essere spontanea, libera di sprigionarsi e determinarsi. Deve godere di tutta la propria energia. Deve appropriarsi della magnificenza. La sua autonomia è una conquista, non una concessione. Deve essere niente e poi tutto per donarsi senza bisogno di ricevere.

Non conseguirai la via della gioia degradandoti nel futile tentativo di evitare, di sfidare o di irridere l’inevitabile, ma esaltandoti in ciò che esso concede, partendo dalla conoscenza del sé. Senza fughe e senza maschere. Senza finzioni. Senza sotterfugi. La volontà deve essere pura, cioè libera dall’egoismo e dalla necessità affinché l’assoluto non si riveli in fantasiose trascendenze o in volgari mediocrità conformiste, ma nell’ebrezza della fusione col reale.

Solo se assolta dai doveri, svincolata dai pregiudizi, sovrana dei sensi e della mente, affrancata dal contingente, si manifesterà in tutta la sua autorevolezza. E potrà vagare, sperimentare, perdersi e ritrovarsi, penetrare nei tessuti delle infinite entità, imitarne la forma, replicarne i movimenti, in esse autodeterminarsi e autogovernarsi fino a fondersi nella sostanza universale.

La connessione è empatia col mondo. Devi identificarti nell’altro. Devi essere l’altro. Abbandonati! Che il sé diventi un nuovo sé senza dimenticare ciò che è stato. Volontà con volontà. Complementarità infinita nella totalità indifferenziata in un continuo, inesauribile divenire.

Sarà una conquista attraverso la perdita. Rinuncerai per donarti. E quando percepirai di essere un tutt’uno con ciò che ti circonda, quando i costituenti si fonderanno nell’unicità indivisa della sostanza cangiante, sarà ebrezza inebriante. Perché la volontà si nutre di amore, il resto è superfluo artefatto.

L’illuminazione sarà grandiosa. Benché di breve durata, come tutto ciò che è tangibile. Ẻ infatti con la morte, cioè liberandosi dalla transitorietà, che la volontà torna alla materia originaria realizzando il suo definitivo perfezionamento.

Ecco perché ti dico che non ha senso temerla.

 

Immagine: Cristiforo de Predis, Morte del sole della luna e caduta delle stelle, XV secolo

L’uomo è l’unico essere….

L’uomo è l’unico essere in cerca della propria identità. Finché si illude di conseguirla col possesso ogni malvagità che lo realizza sarà accettabile.

Così disse Urtubia….

Mi è sempre stato detto che col tempo le persone diventano più conservatrici, che tutta la mia ribellione si sarebbe attenuata man mano che crescessi, come se questo fosse il senso della vita stessa. Ma nel mio caso, il tempo è finito per togliere la ragione a tutta questa banda di noiosi, accomodati, docili, conformisti e arroganti ciarlatani. Il tempo, con l’esperienza che ne deriva, l’unica cosa che è riuscito a convincermi sempre più della necessità di idee anarchiche e insegnarmi la coerenza, la realtà e l’utilità palpabile dell’anarchismo nella vita quotidiana. E più vivo e più conosco, con tutto lo spirito critico che mi ha sempre accompagnato, più lo vedo chiaramente.

-Lucio Urtubia Jimenez-

da ANTOLOGIA DI SPOON RIVER

Tratta dall’Antologia di Spoon River, libro che Pinelli aveva regalato al commissario Calabresi qualche giorno prima di morire in questura.

Che è peraltro l’epitaffio sulla sua tomba.

 

 

La macchina del Clarion di Spoon River fu distrutta

Ed io spalmato di pece e coperto di penne,

per aver pubblicato questo il giorno in cui gli Anarchici

vennero impiccati a Chicago:

 

Vidi una donna bellissima con gli occhi bendati

eretta sui gradini di un tempio di marmo.

Grandi moltitudini passavano davanti a lei,

sollevando la faccia ad implorarla.

Nella mano sinistra teneva una spada.

Brandiva quella spada, colpendo a volte un bimbo, a volte un operaio,

ora una donna che tentava sottrarsi, ora un folle.

Nella destra teneva una bilancia;

nella bilancia venivano gettati pezzi d’oro

da quelli che schivavano i colpi della spada.

Un uomo con la toga nera lesse un manoscritto:

“ella non rispetta gli uomini”.

Poi un giovanotto col berretto rosso

Balzò al suo fianco e le strappò la benda.

Ed ecco, le ciglia erano corrose

Dalle palpebre imputridite;

le pupille bruciate da un muco latteo;

la follia di un’anima morente

le era scritta sul volto.

Ma la moltitudine vide perché portava la benda.”

 

32- LA PENA

 

«Ricapitolando: lo Stato esercita il suo potere con la legge, e la polizia mantiene l’ordine. Dopo l’arresto però si pone il problema di cosa fare…»

«C’è la pena!»

«Appunto. Questo è il problema!». Spiegai: «La pena, e con essa non intendo solo la sanzione ma anche la misura cautelare che spesso ingiustamente e arbitrariamente la anticipa, e più in generale tutto il sistema giudiziario, non è altro che uno strumento di controllo e riequilibrio sociale attraverso il quale il Potere toglie di mezzo chiunque possa minarne la conservazione». Aggiunsi: «La pena è schiavitù legalizzata, fondata sulla inaccettabile laicizzazione del rapporto peccatore-sanzione. Processi ed esecuzione rappresentano il momento in cui si realizza nella maniera più sfacciata e arrogante la supremazia sull’uomo, defraudandolo del corpo e della mente. L’anarchia afferma invece che nessuno debba essere investito del potere di vita o di morte, poiché chiunque abbia un’autorità nelle proprie mani tiranneggia gli altri1. E, peraltro, siccome quell’investitura viene imposta, processi, pene, e sentenze sono sempre ingiusti».

«Ma le sentenze vanno sempre rispettate!» irruppe il PM.

«Sempre!» lo sostenne Manganello.

«E le verdure d’una volta avevano tutto un altro sapore!» replicai con un’altra frase fatta. «Come nessuno ha delegato i politici a decidere per noi, nessuno ha autorizzato i magistrati a giudicare. Entrambi sono strumenti di quella finzione chiamata Stato. Immorale non è violare la legge e fuggire la pena, ma accettare passivamente che lo Stato denigri, mortifichi, annienti l’individuo. Collaborare col male è peggio del male stesso! Afferma F.A Lange: il nome Leviatano è anche troppo appropriato per questo mostro, lo Stato, che senza nessuna superiore considerazione ordina come un dio terrestre a suo piacere la legge e la giustizia, i diritti e la proprietà, definisce perfino a suo arbitrio i concetti di bene e di male, assicurando in cambio la protezione della vita e della proprietà di chi gli si prostra dinnanzi e sacrifica al suo potere2…»

«Ma sì, facciamoci giustizia da soli!» si burlò il pubblico ministero.

«Non ho detto questo!»

«Ma l’ha pensato!»

«Neanche un po’!» dissi con una smorfia di disapprovazione. «L’autonomia è responsabilità. Gli individui devono partecipare direttamente alla costituzione e allo sviluppo della comunità, ovvero definire in maniera condivisa su quali principi essa si forgia, su quali dinamiche economiche si sviluppa, come organizzare l’autogestione, compresa l’individuazione delle condotte antisociali e i conseguenti rimedi. E la decisione non può che avvenire attraverso liberi accordi definiti collegialmente mediante decisioni consensuali» dissi. «Sugli accordi tornerò dopo. Quanto invece alla pena, condivido le parole di Alexandr Berkman quando confrontava le società primitive, in cui è opinione comune che l’individuo si facesse giustizia da solo, con quelle così dette civili, in cui si delega lo Stato a farlo al suo posto. Tale delega crea di fatto solo un’altra forma di vendetta, in cui lo Stato è il solo vendicatore legittimo della collettività. Ma si tratta sempre e chiaramente dello stesso spirito barbaro sotto altre spoglie3. Di fatto lo Stato è un vendicatore che trova giustificazione nella weberiana legittimazione legale-razionale fornita dall’ordinamento giuridico. Che è un po’ quello che prima ha detto lei», mi rivolsi al PM, «quando ha affermato che si deve obbedire alla legge perché lo dice la legge. In altre parole, lo Stato ci prende per imbecilli!»

«Ineccepibile!» tuonò Manganello.

«Che prima l’abbia detto il pubblico ministero?» chiesi.

«No, che siate imbecilli!»

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«Il sistema punitivo fa acqua da tutte le parti. Lasciando perdere le ovvie considerazioni sulle infami condizioni di vita a cui sono sottoposti i detenuti, che solo chi è in malafede o particolarmente crudele può ignorare, la pena non realizza nessuna delle funzioni per le quali viene applicata. A partire dalla funzione retributiva, chirale al principio della vendetta. Affermando che il libero arbitrio consente di scegliere fra il bene e il male, chi sceglie il male deve essere punito. Niente di nuovo: le religioni parlano così da sempre…»

«Chi sbaglia paga!» disse tronfio Pottutto.

«Paga chi? Se le rubo il portafoglio, la questione è fra me e lei. Se uccido una persona, la questione è fra me e i suoi parenti. Ogni vicenda umana ha implicazioni circoscritte agli interessi coinvolti.»

«Non sia grottesco. Sa che lo Stato è garanzia di imparzialità!»

«Tutt’altro. L’interesse della collettività è sempre e soltanto l’armonia sociale, che si ottiene unicamente attraverso la riconciliazione. Lo Stato, invece, essendo una suggestione che ha bisogno di consenso per alimentarsi segue l’umore sociale plagiato dal sistema e le proprie necessità conservative. C’è molta più civiltà nelle assemblee pubbliche inter-clan adottate dalle società policefale che nei nostri tribunali!5».

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«Altra funzione della pena è la così detta prevenzione. Si dice che l’obiettivo sia evitare che il reo compia nuovi reati, prevenzione speciale, ma anche che agli altri non venga lo sghiribizzo di imitarlo, prevenzione generale. In altri termini, si minaccia una sanzione quale conseguenza di una determinata condotta affinché nessuno la compia. Interessante questa analogia fra l’animale e l’individuo, non vi pare? E comunque se il principio fosse corretto, dato che viviamo in un epoca di iperproduzione normativa che disciplina ogni aspetto della vita umana, non ci dovrebbero essere reati. Invece la criminalità delle società civili aumenta esponenzialmente in quanto la deterrenza inibisce il vigliacco, non l’affamato, né tantomeno il disturbato. La funzione preventiva è quindi fumo sparato negli occhi. I delitti, compresi quelli per bisogno e patologici, si prevengono eliminando il dominio, la proprietà, il profitto, l’accumulazione, garantendo il minimo necessario concordato e soprattutto consentendo a ognuno di decidere responsabilmente. In una società i cui membri hanno scelto di essere liberi ed eguali non c’è interesse a delinquere

«Nel mondo dei sogni potrei anche essere Brad Pitt!» disse Manganello.

Pottutto e io lo guardammo e contemporaneamente ci scappò una risata.

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«La terza funzione è quella rieducativa, cioè la pena e le misure alternative devono educare il delinquente a reinserirsi nella società una volta scontata la sanzione.»

«Almeno su questo spero non abbia niente da ridire!»

«Assolutamente!» convenni. «Il principio è sacrosanto… Pure molto realistico!» ironizzai. «Le carceri sono posti noti per la loro accoglienza, la sensibilità dei loro operatori, le possibilità che offrono». Cambiai tono: «Le prigioni sono niente più e niente meno che lager in cui le persone vengono mandate a morire. E poiché ai carcerati non è concesso il rispetto dovuto a un essere umano, dice Kropotkin, in quei luoghi subiscono umiliazioni, violenze, torture, abusi, degradazione, giorno dopo giorno un processo di disumanizzazione al cui confronto la vendetta dei selvaggi è un gioco aggiunge Emma Goldman. Le prigioni sono monumenti alla ipocrisia e alla viltà degli uomini, decreta ancora il filosofo russo, auspicando che il primo compito della rivoluzione sia la loro abolizione. Perché, spiega: cosa possiamo fare per perfezionare il sistema penale? Niente. È impossibile perfezionare una prigione. Con l’eccezione di pochi trascurabili cambiamenti, non vi è altro da fare che distruggerla. E prosegue: Chi metterà sul piatto della bilancia da una parte i benefici attribuiti alla legge e alla punizione e dall’altra l’effetto degradante che quest’ultima ha sull’umanità; chi valuterà il torrente di depravazione riversato nella società umana dal delatore, favorito addirittura dal giudice e pagato in moneta sonante dai governi, con il pretesto che aiuta a smascherare il crimine; chi varcherà i muri di una prigione e lì vedrà come diventano gli esseri umani quando sono privati della libertà, quando sono sottoposti alla custodia di guardiani brutali, a un linguaggio volgare e crudele, a migliaia di umiliazioni concenti e strazianti, sarà d’accordo con noi sul fatto che l’intero apparato carcerario e punitivo è un’egemonia che dovrebbe essere abolita». Dopo una veloce pausa: «Benché queste considerazioni siano di oltre un secolo fa, la situazione oggi non è cambiata. Le carceri erano e saranno sempre una università del crimine!5»

«Facile criticare come fa lei» Pottutto eccepì risentito. «Sono proprio curioso di sapere come vi comportate voi anarchici!»

«Davvero le interessa?»

«Certo che no!».

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«La pena è un male necessario!» Pottutto ruggì convinto.

«”La grazia dell’orrore” direbbe il simbolista Baudelaire» rilevai sarcastico.

«Ẻ quello che ha inventato l’orribile A cerchiata?»

«Simbolista non nel senso che…» Lasciai perdere. «Lo Stato ci chiama cittadini ma ci tratta da sudditi. E lo fa avvalendosi delle Costituzioni e dei codici con cui si autolegittima in quanto è il “fine universale in sé per sé”, così Hegel lo definiva. Non fosse che quando una cosa è giusta a priori, è più facile smascherarne l’ingiustizia!»

«Cos’è uno scioglilingua?»

«Lo Stato è una finzione. Un manipolo di ricchi tira una linea su una cartina geografica, si dà un governo e impone a tutti le sue decisioni. Ecco perché la “nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà, ed un pensiero ribelle in cor ci sta”, cantava Pietro Gori4».

«La sola cosa che canta è questa!» Pottutto sventolò il capo di imputazione.

«Dice?»

«Dico. Dico!»

«Ma “se le leggi son”, dando quindi per assunto che siano inevitabili, il problema non sono loro bensì “chi pon mano ad esse”, afferma il poeta7. La legge è giusta se emanata da un’autorità legittima. Nel caso in cui non lo sia, cioè se proviene da un’autorità usurpatrice, è giusto invece opporsi. In una tirannia il capo, il re, il dux, chiunque sia, si auto-conferisce tale potere. L’illegittimità è così palese che molti dittatori la nascondono dietro l’intercessione divina, la giustizia assoluta, il bene universale o altre follie. La democrazia invece è fondata sull’assunto che il popolo conferisce al governo il potere di agire per suo conto…» Mi prendo qualche secondo. «Sa che non ricordo di aver mai delegato lo Stato a decidere per me? Ho provato a guardare nei miei appunti, a cercare nei miei diari, ma… Lei ricorda quando ha prestato il suo? E non citi il voto perché le ho già spiegato che è una finzione! La democrazia stessa è un raggiro a cui ci hanno educati a non avere alternative. Come ogni regime che sottrae agli individui il potere di autoderminarsi, nessuno l’ha scelta o confermata. Si è appropriata dell’autorità di governare, di giudicare, di obbligare come avrebbe fatto un qualsiasi usurpatore. La sua autorità è pertanto illegittima. E se è illegittima, anche le sue disposizioni lo sono e quindi…»

«A quanto pare però alla gente va bene così!»

«Alla gente va bene qualsiasi cosa pur di non pensare!» replicai risoluto. «Ma la gente non è tutti. Può essere maggioranza, ma rimane sempre la minoranza che non si fa irretire dall’inganno, né si sgomenta per le conseguenze della trasgressione».

«La metta come vuole. Chi non rispetta la legge è un delinquente!»

Non cado nella provocazione: «Nel momento in cui si rinuncia al profitto, le relazioni sono spontaneamente armoniche e di quello non c’è bisogno!» Indicai il codice. «Immagini una società senza dominio, senza proprietà, senza “teorie della disperazione”8, dove l’interesse personale si realizza attraverso la solidarietà e la reciprocità. Senza tornaconto, la punizione, la prevenzione, ma anche la rieducazione non hanno senso. Tutt’al più l’eventuale sanzione avrebbe lo scopo di riequilibrare e garantire la pace sociale. Le torna?» Con un’occhiata lo sollecitai ad aprirlo. «Lasciamo perdere il primo libro dei reati in generale. Concetti come la consumazione, le circostanze, l’imputabilità e altri sono principi di valenza universale che adesso non abbiamo tempo di esaminare».

Il PM scorse le pagine.

«Per cominciare eliminiamo le sanzioni civili e le misure di sicurezza. La definizione di pericolosità sociale è affare da manipolatori mentali e noi non conformiamo l’individuo all’interesse dominante… E così vanno via già una sessantina di articoli!»

Attesi che il PM passasse al “Libro II” del codice penale.

«In una società anarchica sarebbe altresì un controsenso parlare di delitti contro la personalità dello Stato, contro la pubblica amministrazione, contro l’amministrazione della giustizia… Figuriamoci il contro il sentimento religioso e l’ordine pubblico. Le pare?… Via altri duecentrenta articoli!»

«Sui delitti contro la fede pubblica non vorrà…?»

«Se ne potrebbe lasciare un paio sul falso materiale e sul falso ideologico. Si tratta di eventi alquanto improbabili in un contesto che rifiuta il profitto, ma non voglio sembrare radicale!»

«Mi sembra giusto!»

«Quindi via altri quarantacinque articoli!» precisai. «Sui delitti contro l’economia pubblica l’industria e il commercio… mi faccia un po’ vedere?»

Il PM girò il codice in maniera che potessi leggere.

«Distruzione di materie prime, diffusione di una malattia delle piante, rialzo e ribasso dei prezzi, manovre speculative su merci, serrata e sciopero per fini contrattuali e non», continuai a sfogliare: «E ancora serrata, boicottaggio… Via tutti perché non abbiamo economia! E sono altri trenta articoli circa».

«Sui delitti contro la moralità pubblica e il buon costume…?» mi interruppe il maresciallo.

«In un mondo di puttane, figurati se non posso andare a puttane!» esclamai divertito. «Quanto ai delitti contro la sanità di stirpe… beh, almeno hanno avuto il buon gusto di abolirli da soli!»

«Dei delitti contro la famiglia?»

«Via!»

«Delitti contro la persona?»

«Lasciamoli, dai. Non posso abrogare il codice intero!» Ci ripensai: «Quanti articoli sono?»

«Una quarantina!»

«Magari li sintetizziamo per garantire il diritto alla vita, all’incolumità e alla dignità personale!»

«Rimangono i delitti contro il patrimonio e le contravvenzioni».

«Proteggere la proprietà in una società senza proprietà non mi pare una cosa sensata. Quanto ai secondi, credo che anche il buon Rocco non ci credesse granché visto che li ha relegati in fondo al codice come banali contravvenzioni. Via!»

«Ma così non ci rimane nulla!»

«E non abbiamo sotto mano il codice di procedura penale!»

«Perché anche quello…?»

Mi lasciai andare a un’espressione meditabonda.

«Che c’è?»

«Stavo pensando…»

«Dica!»

«Pensavo… Visto che ormai il codice penale non esiste più, non è che… Sì, insomma, mi chiedevo se non sarebbe più giusto che io… Posso andare?»

Era giusto almeno provarci.

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«Gli anarchici più volte si sono interrogati su come sarebbe la pena nell’ipotetica società senza Stato e hanno offerto una molteplicità di soluzioni che, a mio giudizio, lasciano il tempo che trovano. D’altronde se a uno scienziato chiedete come sarà il mondo fra cinquanta o cento anni gira i tacchi e se ne va dandovi dei babbei perché troppe sono le incognite che impediscono di fornire proposte certe sulla società futura. L’avvenire è la sola trascendenza degli uomini senza Dio, diceva acutamente Camus e infatti…»

«Kamut come la farina?» chiese Manganello.

Lasciai perdere: «Per Emile Armand si può fare a meno di quel marchio della violenza, sotto una forma più o meno dissimulata, sotto un appellativo più o meno ipocrita, ma implicante comunque l’impiego della coercizione che è la sanzione, grazie alla esistenza di una mentalità comune, d’uno stato d’animo generale e particolare che induca il trasgressore a riconoscere volontariamente, da se stesso, la sua trasgressione e si infligga di sua spontanea volontà la punizione6».

Qualche secondo di silenzio perché assimilassero quella che sembrava più una provocazione.

«Ammetto che estrapolata dal contesto appaia una soluzione surreale. Però è più concreta di quanto si creda. Trova, infatti, riscontro in numerose comunità orizzontali il cui obiettivo non è sanzionare il reo ma reinserirlo nella comunità. Riconciliarlo con essa e con le parti danneggiate attraverso il riconoscimento della propria colpa e la richiesta di perdono. Un perdono condiviso che ne favorisce la riabilitazione.»

«Una roba tipo i pentiti?» domandò Pottutto.

«Ma qui il pentimento è sincero!» specificai. «A parte questo originale punto di vista, nel mondo anarchico prevale il concetto di sanzione diffusa. Proposta da Godwin, essa consiste nella mera disapprovazione esercitata dall’opinione pubblica. Dice il filosofo inglese che, in un contesto localizzato, ogni individuo si troverebbe in continuazione sottoposto al giudizio di tutti; e la disapprovazione dei suoi vicini, questa specie di forza coercitiva non derivata dai capricci degli uomini, ma dalla stessa forma dell’universo, lo spingerebbe inevitabilmente a correggersi, oppure a fare le valigie… Maresciallo, non c’è bisogno che scriva. Lo trova citato nei miei appunti!»

«Sto disegnando!». Mostrò uno spaventapasseri stilizzato.

«Anche Malatesta invocava il sentimento comune come espediente per risolvere il problema della criminalità: non ci sembra ci siano altre soluzioni oltre quella di affidare tali decisioni alle parti interessate, al popolo, cioè alla massa di cittadini, che si comporteranno differentemente a seconda delle circostanze e a seconda del loro grado di evoluzione sociale. Egli però si differenzia da Godwin in quanto il suo scopo è evitare un nuovo sistema di oppressione e privilegio che potrebbe formarsi nella società anarchica al sorgere del problema della criminalità.»

«Ci sta dicendo che siete favorevoli ai processi e alle esecuzioni di piazza?»

«Certo che no!». E risentito: «Sono io che non mi spiego o è lei che non capisce le mie parole?»

«Sono un pubblico ministero, non un esegeta. Se volevo fare l’esegeta mi laureavo in… dove ci si laurea per fare l’esegeta?» chiese a Manganello.

Il maresciallo arricciò la ciccia del collo, poi sicuro: «Credo in medicina… Mio fratello è andato al pronto soccorso per l’esofagite!».

Proseguii: «Personalmente rifiuto ogni forma di ingerenza nella sfera individuale. Ha ragione Orwell quando afferma che l’opinione pubblica è meno tollerante di qualsiasi sistema di leggi e l’individuo è sotto una continua pressione intesa a ottenere che si comporti e pensi esattamente come tutti gli altri. Al tempo stesso però sono convinto che la soluzione al problema della pena si trovi nella società. E qui mi riaggancio a Malatesta che esalta le pratiche che partono dal basso e si sviluppano pluralisticamente, in maniera non gerarchica e non conformista. Se le persone si uniscono in associazioni con comunanza di aspirazioni che ciascuno ha contribuito a costituire e formare, è improbabile che qualcuno possa violare le regole condivise. E anche si verificasse tale ipotesi la soluzione dovrebbe essere scritta in quelle stesse regole che ha partecipato a formare, nelle quali sono definiti i principi e le procedure.»

«Continuo a non capire!». Pottutto tolse e rimise gli occhiali nervosamente. «È stato finora a lamentarsi delle regole, perché adesso…?»

«Gli anarchici sono contrari alle regole imposte, non a quelle che ciascuno concorre a creare». Sospirai. «Che poi, se ci pensate bene, è la stessa cosa che dice Armand quando afferma che la soluzione della pena sta nel riconoscimento volontario della trasgressione e nell’inflizione volontaria della punizione!»

«Quell’Armando che ha citato prima?».

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«Nella logica del dominio chi detiene il potere considera il valore del suo interlocutore in maniera decrescente rispetto al grado di potere posseduto. Di conseguenza lo Stato, che si assurge a dominatore supremo, tratta l’individuo come un fastidio. Nella malaugurata ipotesi in cui poi quest’ultimo violi la sua volontà lo sopprime lentamente perché, oltre tutto, è pure sadico!»

«Non mi piace questo tono!» disse Pottutto.

«Vuole che abbassi la voce?» lo sferzai. «Di fronte a una condotta antisociale, lo Stato non ha dubbi: l’autore deve essere cancellato sia fisicamente confinandolo in prigione, sia mentalmente attraverso la violenza, la sopraffazione, il ricatto, l’umiliazione, la spoliazione della dignità. Lacerazioni che inevitabilmente, una volta fuori, riverserà sulla società legittimando gli abusi subiti in un circolo vizioso da cui guadagnano tutti tranne il reo. La verità è che gli individui sono una sua proprietà e come tale li tratta. È proprietario della vita, di cui ne dispone a piacimento; è proprietario della mente, indottrinandoli all’obbedienza attraverso la scuola, la morale, la manipolazione propagandistica delle molteplici istituzioni; è proprietario degli spazi e dei movimenti, definendo i confini dei primi e favorendo il controllo dei secondi grazie a sistemi sempre più sofisticati; è proprietario dei nostri beni per l’uso dei quali chiede il tributo… Insomma, si impone come padrone assoluto. Per questo assurge al ruolo di punitore consacrato che ordina supplizi come un dio vendicatore.»

«Dimenticavo che voi punite la vittima e premiate il delinquente!» intervenne Pottutto sarcastico.

«Carina!». Gli detti soddisfazione. «Assenza di proprietà, autogestione, reciprocità, redistribuzione, solidarietà, circolarità, pluralità, questo è ciò che siamo. L’anarchia non punisce, pacifica; non disciplina, armonizza. Così il diritto civile è lasciato ai liberi accordi fra le parti e quello penale corrisponde alla protezione dei diritti naturali che tutti identificano, conoscono e osservano spontaneamente. Ogni individuo è giurista e non potrebbe essere altrimenti dal momento in cui partecipa alla definizione delle regole. Le discute, le approva, le applica. Una volta definite, la pratica quotidiana ne garantisce l’osservanza. Spontaneamente!». Colto il loro scetticismo: «Se qualcuno eccepisse che le persone non sono capaci di stabilire cosa è giusto e cosa non lo è, sarebbe facile replicare che non lo sarebbero neppure nella scelta dei propri rappresentanti. Non vi pare?»

«Ho capito!» squittì Manganello. «Ha detto che sono tutti amici e si controllano a vicenda. Però non ho capito perché controllarsi a vicenda se poi ognuno fa come gli pare…». Sollevò lo sguardo sul soffitto per riflettere: «Ci sono!» esclamò. «Solo con noi fate come vi pare!»

«E perché, secondo lei?» chiesi.

«Perché avete passato un’infanzia difficile?».

++++ 

«Concludo facendo un esempio ipotetico e banale…»

«Perché banale?» mi interruppe Pottutto.

«Perché lo possiate capire!» dissi. «Esempio di come l’anarchia si rapporta nei confronti di chi, diciamo così, compie una condotta antisociale» dissi. «Prendiamo un ladro di polli qualsiasi. Nella società del dominio viene catturato e punito con sanzioni che variano in base al tempo e al luogo. Anche nella società anarchica non mancano i ladri di polli. Intanto però bisogna capire se i polli sono privati o della collettività. Nel primo caso si tratta, appunto, di un fatto privato e viene risolto come qualunque altro conflitto fra individui: le parti si accordano fra loro, oppure ricorrono a un arbitrato composto da membri da loro designati. Fossero invece della collettività procede direttamente l’assemblea. Per prima cosa si approfondisce il fatto affinché siano chiare le motivazioni, le dinamiche, eccetera. Poi l’interessato parla. Parla anche chi vuole intervenire e alla fine si decide.»

«Ho una domanda!»

«Lo lasci concludere!». Il magistrato stoppò il maresciallo. «Voglio vedere come va a finire la storiella!»

«Accertata la responsabilità, si presentano diverse opzioni: la più semplice è che siano restituiti i polli. In questo caso può essere sufficiente un semplice richiamo e la comunità definirà come aiutare il responsabile affinché non ripeta la condotta. Se, invece, li avesse già arrostiti…»

«Ospita tutti a cena?». Manganello fece la battuta.

«Concorda il risarcimento del danno per dimostrare il pentimento. Con l’accettazione della parte offesa e della collettività si ha la riconciliazione e il ripristino dell’armonia. Posto che la rifusione non è mai pecuniaria o inflittiva, si va dalla richiesta di scuse, apprezzate molto più di quello che si può immaginare quando sono sincere, alle prestazioni manuali o intellettuali, come tagliare la legna o aiutare i figli a studiare e così via.»

«Che razza di pena è?»

«Ha mai fatto studiare un bambino?» chiesi provocatoriamente.

Manganello esitò.

«E se uno è recidivo?» domandò Pottutto.

«Ovviamente dipende dalla violazione, dalla motivazione e da altri fattori. Sicuramente, però, non è un’aggravante.»

«Se è pluri-recidivo?» si ostinò il maresciallo.

«Perché non un serial killer?» mi stizzii. «Non si fonda una società sulle anomalie. E peraltro, non mi pare che lo Stato riesca a impedirle! L’efferatezza e la malvagità umana non si prevengono. Di sicuro però una società in cui l’individuo sia padrone di se stesso, viva in maniera simbiotica con la natura e si relazioni ai propri simili in modo non artificiale, non conflittuale, non competitivo e senza tornaconto, una società in cui il dominio sia sostituito dalla tolleranza, dall’altruismo, dall’equità, dalla cooperazione, dalla solidarietà, dalla condivisione, sarà sempre meno condizionante della società del dominio…»

«Sì, in un mondo sottosopra!». Pottutto non mi lasciò finire.

«Si chiama underground anche per questo!».

 

NOTE

NOTE

1 – Gerrard Winstanley, La nuova legge di giustizia, 1649.

2 –  F. A Lange citato da Maria Luisa Berneri in Viaggio attraverso Utopia, Tabor Edizioni, 1955.

3 – Aleksandr Berkman, Le prigioni e il crimine, in Anarchia e prigioni, 2014.

4 – Per un approfondimento Hermann Amborn, Il diritto anarchico dei popoli, ivi.

5 – Kropotkin, Le prigioni e la loro influenza morale sui prigionieri, ivi.

6 — Stornelli d’esilio di Pietro Gori, 1895.

7 — “Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?”- Dante, Purgatorio, XVI, 97.

8 — Thoureau, Walden, ivi.

9 – Emile Armand, Iniziazione individualista anarchica, ivi.

10 – William Godwin, Political Justice, ivi.

11 – Vernon Richards, Life and ideas: the anarchist writing of Errico Malatesta, 2015

12 – Pierre Clastres, Antropologia politica, Ombre Corte Edizioni, 2023.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi

In foto: disegno di Edgar Degas, Il Balletto, 1873

 

31 – LA POLIZIA

 

«Se il governo impone la volontà del Potere attraverso la legge, le forze dell’ordine e i magistrati ne garantiscono l’attuazione. Sui magistrati non ho molto da dire». Guardai Pottutto. «Sono burocrati e ho grande fiducia nella burocrazia, forse l’ultima speranza perché lo Stato imploda!». Poi guardai Manganello: «Il compito della polizia, invece, è di proteggere il sistema mantenendo l’ordine e la disciplina grazie alla capacità persuasiva dei lustrini e dei manganelli. Potrei dire che sono bravi tutti a farlo con la violenza, ma… Sto parlando di voi!» richiamai l’attenzione del maresciallo.

«Mi dia pure del lei!» replicò uno sguardo sfatto.

Con un’occhiata il pubblico ministero mi invitò a ignorarlo.

«A proposito delle forze dell’ordine… conoscete la Canzone di Maggio?»

«Chi è questo Maggio?». Manganello con tono inquisitorio.

«La canzone è di Fabrizio De André e s’intitola Canzone di Maggio.»

«Mica la canterà?»

«La leggiamo insieme». Indicai al PM la pila di fogli. Può trovarla nell’articolo del 1.11.23».

Gli diede una scorsa annoiata: «Sembra una poesia!»

«Come tutte le sue opere!»

Lessi:

 

Anche se il nostro maggio

Ha fatto a meno del vostro coraggio

Se la paura di guardare

Vi ha fatto chinare il mento

Se il fuoco ha risparmiato

Le vostre Millecento

Anche se voi vi credete assolti

Siete lo stesso coinvolti

 

E se vi siete detti

Non sta succedendo niente

Le fabbriche riapriranno

Arresteranno qualche studente

Convinti che fosse un gioco

A cui avremmo giocato poco

Provate pure a credervi assolti

Siete lo stesso coinvolti

 

Anche se avete chiuso

Le vostre porte sul nostro muso

La notte che le pantere

Ci mordevano il sedere

Lasciandoci in buonafede

Massacrare sui marciapiedi

Anche se ora ve ne fregate

Voi quella notte, voi c’eravate

 

E se nei vostri quartieri

Tutto è rimasto come ieri

Senza le barricate

Senza feriti, senza granate

Se avete preso per buone

Le verità della televisione

Anche se allora vi siete assolti

Siete lo stesso coinvolti

 

E se credete ora

Che tutto sia come prima

Perché avete votato ancora

La sicurezza, la disciplina

Convinti di allontanare

La paura di cambiare

Verremo ancora alle vostre porte

E grideremo ancora più forte

Per quanto voi vi crediate assolti

Siete per sempre coinvolti

Per quanto voi vi crediate assolti

Siete per sempre coinvolti. 1»

 

Appoggiai il foglio alla pila. «Beh, che ve ne pare?» chiesi.

«Un po’ lunghetta!» gorgogliò Manganello.

«Bella la rima maggio-coraggio all’inizio!» disse contrito Pottutto.

«Vi è piaciuta o no?»

«Anche Le Mille Bolle Blu di Mina, però, se non è cantata sembra una str…!2» il PM non concluse.

«La Canzone di Maggio esprime un sentimento di rabbia mista a malinconia verso tutti coloro che chinano il mento consentendo al Potere di consolidarsi. Al tempo stesso Faber non rinuncia alla speranza: voi non potete fermare il vento, dice. La sua poetica è una continua dialettica fra consapevolezza amara e slanci fiduciosi…»

«Sì, ma che c’azzecca con quello che stavamo dicendo?»

«Le canzoni di De André rappresentano la colonna sonora delle speranze represse dalla violenza dell’Autorità. Violenza con cui aggredisce i manifestanti, violenza con cui tace i ribelli, violenza con cui protegge i più forti.» E ancora rivolto a Manganello: «Non ve ne faccio una colpa. Ce l’avete nel sangue di temere la libertà degli altri. La reprimete perché ogni pensiero che essa conquista, ogni spazio in cui si diffonde, ogni cambiamento che essa agogna, è una sottrazione della vostra autorevolezza» dissi. «Ricordo d’aver letto da qualche parte, mi sembra nel libro Educazione Siberiana di Lilin3, un concetto che condivido. E cioè che vi distinguete dal resto delle persone perché siete gli unici a vivere orgogliosamente come servitori. Simultaneamente, però, questo vi impedisce di capire cosa sia la libertà e odiate chi la professa. Ciò vi crea ansia, frustrazione, stordimento, gelosia…»

«Ora vado a chiamare l’agente Sevizia, gliela faccio venire io l’ansia!» grugnì Manganello.

«Lasci perdere!» lo fermò Pottutto.

«Non mi faccio prendere in giro da un anarchico!»

«Mi perdoni maresciallo, ma queste cose le ho dette da cittadino!» precisai.

«E noi pubblici ministeri, invece, come siamo?» Pottutto protese il collo.

«Voi pubblici ministeri?»

«Noi pubblici ministeri, sì!»

«Uguali» dissi. «Senza divisa, però!»

«Vada a chiamare il suo collega!» ordinò il PM a Manganello.

«Suvvia, non fate i permalosi!» li fermai. E cercai nella pila di fogli quello che mi interessava: «La polizia detiene il monopolio della violenza, perché ridefinisce le norme della propria azione e, appellandosi alla sicurezza, accresce la propria pretesa sulla vita dei singoli. La sua sovranità violenta è tanto inafferrabile quanto spettrale». Saltai qualche riga: «Proprio perciò le sue violenze non sono anomalie, ma rivelano piuttosto il fondo oscuro di questa istituzione. Sono come istantanee che la colgono mentre acquista spazio, acquisisce poteri sui corpi, esamina e sperimenta una nuova legalità, ridefinisce i limiti del potere. Un monopolio della violenza interpretativa che ridefinisce le norme della propria azione e, appellandosi alla sicurezza, accresce la propria pretesa sulla vita dei singoli4… Non credo ci sia bisogno di ulteriori spiegazioni!»

«Ottimo» disse Manganello. «Allora non le dia!»

«Solo un pensierino della buona notte: diceva Malatesta che governo significa diritto di fare la legge e imporla a tutti con la forza. Senza forza di polizia non c’è la forza… Rifletteteci sotto le coperte!»

«Capito Manganello?». Il PM al maresciallo. «Poi domani mi fa sapere!»

«Dotto’» questi si gonfiò come un palloncino. «Ma io la notte dormo!»

 

NOTE

 

– 1 Fabrizio De André, Canzone del maggio, 1973.

– 2 Mina, Le mille bolle blu, 1961.

– 3 Nicolai Lilin, Educazione siberiana, Einaudi, 2013.

– 4 Donatella Di Cesare, Il tempo della rivolta, Bollati Boringhieri, 2020.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Disegno di Salvator Rosa, Teschio che urla, 1640

 

 

 

30 – LA LEGGE

 

«Qual è lo strumento attraverso cui lo Stato impone la sua volontà?»

«Lo chiede a noi?» domandò Manganello.

«Ma la legge, naturalmente!» dissi. «E cos’è la legge?»

«La norma!» rispose deciso Pottutto.

«Sono sinonimi!»

«La legge è legge!» gorgogliò Manganello.

«In due parole: la legge è un atto deliberato da un’autorità, elettiva o meno, che disciplina il comportamento degli uomini». Pausa. «Già così è più che sufficiente perché nessuno si debba sentire obbligato a rispettarla!».

Pottutto si contrasse come se gli fosse entrato un tafano nell’occhio.

«Esistono diversi tipi di legge: c’è la legge divina, rispettando la quale si va in Paradiso, la legge morale la cui osservanza consente la conservazione sociale, la legge della natura preesistente al diritto positivo e che disciplina le cose del mondo, la legge quale prerogativa di re e potenti, come diceva George Sorel1, di cui stiamo parlando e… e poi c’è Dredd, la legge sono io!2» chiosai per sdrammatizzare. «Un tempo le leggi erano stabilite dal monarca, dal potestà, dal signore, figure autoritarie che imponevano insindacabilmente la loro volontà. Nella società mercantile fondata sull’ipocrisia, il dominio non può essere sbattuto in faccia ai sudditi, per cui ci pensa il governo legittimato dalla farsa delle elezioni.»

«Vorrà dire il Parlamento!» mi corresse Pottutto.

«Perché il Parlamento fa ancora le leggi?»

«Così dice la Costituzione!»

«Dice. Non poteva certo immaginare che si verificasse un’emergenza la settimana!» ironizzai. «Imponendo un determinato comportamento pena la sanzione, la legge spoglia l’individuo della sua identità. Gli impedisce di decidere che tipo di persona essere e a quale mondo appartenere. Realizza quindi un’usurpazione di sovranità».

Poiché mi fissavano vuoti, cambiai tono: «Ma supponiamo che una persona si rassegni a obbedire a una volontà eteronoma per il quieto vivere e per non perdere la miseria che possiede. Se ha un minimo di dignità, quantomeno pretenderà che l’ordine derivi da un’autorità fornita di doti morali, umane, professionali, eccetera. Non dico che i politici dovrebbero essere come i guardiani descritti da Platone ne La Repubblica, ma nemmeno che primeggino per la loro avidità, ignoranza, arroganza, ambiguità, volgarità, turpitudine, immoralità… potrei proseguire all’infinito con altri gioiosi attributi! E invece, anche gli uomini migliori e più intelligenti, privi di egoismo, generosi e puri, una volta seduti in quei dannati scanni, sempre e inevitabilmente saranno corrotti dall’esercizio del potere

«Citazione?» domandò Pottutto.

«Bakunin. Ogni tanto ci vuole per colorare il concetto!» mi burlai. E aggiunsi: «Di fatto i politici sono materiale di rifiuto emesso dagli esseri viventi…»

«In che senso?»

«Sono merda!»

«Dopraho!». Pottutto schizzò sulla sedia.

«Preferisce l’espressione: deiezione del genere umano?». Corressi il tiro. «Il loro obiettivo esclusivo è conquistare e mantenere il potere. E per impadronirsene e godere dei suoi privilegi sono capaci delle più infime aberrazioni. Quindi io dovrei obbedire a questi malfattori? Certo che no. Non si può obbedire a chi si disprezza! La penso come Thoreau quando asseriva che mi costa meno, in ogni senso, incorrere nella pena prevista per la disobbedienza allo Stato di quanto mi costerebbe l’obbedienza3. Il rispetto viene dal merito, e loro non meritano il mio rispetto

«Ma la legge è la volontà dello Stato: è a lui che obbedisce!»

«Certo, certo… Oggi è lo Stato, ieri il monarca, l’altro ieri Dio e domani magari ci imporranno di venerare una ciabatta!» replicai caustico. «Detto che le sue regole possono valere, al massimo, per gli incurabili dementi, come Octave Mirbeau chiamava gli elettori, che collaborano al perpetuarsi della tirannia, in attesa della sua dissoluzione, di fronte alla legge due sono le condotte: o osservare le norme utili ai propri scopi e negare le altre…»

«Così è troppo comodo!» mi interruppe il magistrato.

«Non ho capito: lui può sfruttare me e io non posso sfruttare lui?» rilevai. «Oppure rispettarle solo quando sono giuste per non diventare complici dell’ingiustizia.»

«E stabilisce lei se sono giuste o meno?». Il PM replicò con sarcasmo.

«Ottima osservazione!» dissi. «Infatti le nego tutte. Indistintamente. Vivo come se non esistessero! Perché è giusto o non è giusto ciò che è o non è naturale. E non c’è niente di naturale quando si è obbligati a osservare un ordine che non si è contribuito a creare e che, peraltro, va contro il proprio interesse!». Aggiunsi: «Non è vero che le leggi sono le condizioni con le quali uomini indipendenti e isolati si uniscono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla, come diceva Beccaria. E vero invece che la legge ha utilizzato i sentimenti sociali dell’uomo per instillargli, con dei precetti morali che accettava, degli ordini utili alla minoranza degli sfruttatori, contro i quali recalcitrava. Essa ha pervertito il senso di giustizia, invece di svilupparlo4. È un sopruso, una violenza, una coartazione attraverso cui annientare la personalità. E illudersi che sia funzionale al bene comune è da sempliciotti buoni solo a fare danno a se stessi e agli altri.»

«L’uomo onesto rispetta sempre la legge!».

Manganello applaudì: «Bravo, non avrei potuto dirlo meglio!»

«Quindi se sono leale con gli altri, corretto, sincero, solidale, riconosco i loro diritti naturali non perché obbedisco a essa ma perché mi comporto da uomo, sono un disonesto?»

«Ahia!». Pottutto si morse un labbro.

«E poi chi stabilisce che io sia onesto se rispetto la legge?»

«Ma la legge, naturalmente!»

«La legge?»

«Anzi no, lo Stato!»

«Lo Stato?» lo incalzai. «Si rende conto di quello che sta dicendo? Si deve obbedire alla legge perché si deve. Ci avete presi per dei ritardati?»

«Si calmi Dopraho, così le viene un infarto!»

«E come posso calmarmi?»

«Ci penso io!». Pottutto ravanò nella tasca della giacca e tirò fuori una boccettina di valeriana.

«No grazie. Preferirei una canna!» lo traumatizzai. Però ripresi a parlare con tono più pacato: «Stato e legge non sono una necessità. Quando gli individui si associano per realizzare scopi condivisi in cui il bene personale si fonde con quello collettivo perché svincolato dal profitto, raggiungono spontaneamente l’armonia attraverso la sintesi delle singole volontà. Non serve altro! Senza dominio gli uomini si uniscono, si organizzano, si associano, si rimboccano le maniche per affrontare e risolvere le incognite e le difficoltà quotidiane attraverso una sinergia faccia a faccia, non competitiva, egualitaria, autonoma e responsabile. Come sempre accade quando lo Stato è assente. Pensate ai giorni che seguono una calamità naturale o una tragedia, oppure a quanto avvenne dopo l’Armistizio dell’8 settembre del 1943?»

«Nel 1943 mica ero nato!»

«Ha detto pensate!». Pottutto redarguì il maresciallo.

«Non c’era governo e non c’erano istituzioni eppure le persone tiravano avanti, i servizi funzionavano, le relazioni si solidificavano e tutti si aiutavano per garantirsi il cibo, i vestiti, le necessità primarie. Laddove non c’è accumulazione, l’obiettivo è sempre godere della vita in una società di liberi fra uguali

«E questa non è utopia?»

«Questo è essere padroni di se stessi. Ma mi ascolta o sta qui solo perché le hanno detto di starci?»

 

NOTE

 

– 1  citato in Hermann Amborn, Il diritto anarchico dei popoli senza stato, ivi.

– 2  Dredd, La legge sono io, film del 1995.

– 3  H. D. Thoreau, Disobbedienza Civile, 1849.

– 4  P. Kropotkin, La morale anarchica, ivi.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Disegno di Albrecht Durer, Giovane Lepre, 1502

 

 

29 – L’AUTORITA’ DELLO STATO

Pottutto versò la Coca nella tazza pieghevole. Sorseggiò lentamente. Chiese se ne volevo e disse che l’avrei potuta bere se insieme avessi ingoiato una Mentos. Replicai che un po’ d’acqua sarebbe stata più che sufficiente.

Piegai il bicchiere e feci canestro nel cestino. Il PM lanciò il suo e colpì la signorina Servile sulla cofana cotonata.

Ricominciai a parlare: «Come ho detto, lo Stato è uno strumento di controllo sociale. Non più il solo vista l’imperante massificazione conformista, ma rimane il più pervasivo. Uniforma le condotte con il potere legislativo, diffonde il verbo con quello esecutivo, punisce i non allineati con quello giudiziario. Ma per fare tutto questo occorre che abbia autorità, cioè che al suo imperio corrisponda l’adesione della massa. In altri termini, che essa obbedisca spontaneamente.»

«Non vorrà parlarmi ancora delle elezioni?»

«Mi riferisco a come lo Stato viene percepito dalla collettività» dissi. «La teoria del contratto sociale legalizza il suo imperio, ma le favolette suggestionano se narrano storie semplici, non se usano il linguaggio asfittico del Diritto. I contigiani asserviti hanno così sfruttato un’immagine in cui tutti potessero identificarsi e che sollecitasse i sentimenti, le fragilità, l’emotività più ingenue e infantili. Ecco che lo Stato diventa il genitore premuroso, laborioso, diligente, onesto a cui i figli, cioè i cittadini, devono rispetto, devozione, obbedienza, soggezione.»

«La famosa diligenza del buon padre di famiglia?» proruppe Manganello esaltato.

«Che c’entra? Quella è un’altra cosa!» Pottutto seguì sprezzante.

«Vi spiego cosa intendo con le parole di Randolph Bourne. Egli dice: vi è naturalmente nel sentimento verso lo Stato un vasto elemento di puro misticismo filiale. Il senso di insicurezza, il desiderio di protezione, rimandano al proprio desiderio del padre e della madre con cui sono associati i primissimi sentimenti di protezione. Non è per nulla che il proprio Stato è sempre pensato come un padre o come la Madre Patria, che la propria relazione verso di esso è concepita in termini di affetto familiare. Trattasi di un atteggiamento infantile e primitivo che rende il popolo un gruppo di bambini obbedienti, rispettosi, affidabili, pieni di quella fede ingenua nell’onniscienza e nell’onnipotenza dell’adulto che si prende cura di loro, che impone il suo dolce ma necessario comando su di loro e con il quale essi perdono la loro responsabilità e le loro angosce1

«Come si chiama questo tizio?» chiese il pubblico ministero.

«Bourne!»

«Quello che nei film scappa di continuo?2»

«Questo è Randolph. Quello era Jason!» replicai. «Un genitore giusto, onnisciente, indefettibile, onnipresente, divino, che educa, disciplina e ricompensa. Al quale dobbiamo gratitudine per la vita perché è l’unico che può toglierla, per il nutrimento perché potrebbe lasciarne ancora meno, per l’educazione perché sempre meglio indottrinati che analfabeti e per tutte le altre cose che implicano quella riverenza assoluta per cui niente fuori dallo Stato, al di sopra dello Stato, contro lo Stato. Tutto allo Stato, per lo Stato, entro lo Stato come diceva, guardate un po’, Mussolini.»

«Quanto le piacerà eccedere!». Pottutto stirò la mascella. «Però apprezzo l’immagine. Mi ha fatto pensare alla buon’anima di mio padre… A lei?» chiese a Manganello.

Il maresciallo sospirò con un’espressione da Maddalena del Tiziano3: «Il mio se n’è andato quando ero piccolo!»

«Mi dispiace» dissi sincero.

«Che ha capito?». Gli si arrossarono le guanciotte. «Non è morto. È fuggito con un trans brasiliano!».

Si arrossarono anche le mie e proseguii: «Ma anche al genitore più virtuoso può capitare un figlio disadattato. E così, nonostante l’impegno delle istituzioni, della cultura, della propaganda nel plasmare bravi cittadini per cui lo Stato è giusto e necessario e la libertà è libertà di obbedire, qualche ribelle qua e là rimane. È un fastidio che l’Autorità non può permettersi, e di fronte al quale mette in campo tutto il monopolio della forza

«Finché c’è forza c’è speranza, dice il detto!» ancora il maresciallo.

Sorrisi come si fa ai dementi e continuai: «Se i ribelli sono pochi, lo Stato li tollera per contrapporre il male che essi rappresentano al bene di cui si proclama artefice. Quando poi crescono di numero e minano la sua stabilità comincia la repressione. Senza vergogna usa tutti i mezzi possibili per dissuaderli prima, irreggimentarli poi, eliminarli se necessario. Lo Stato non è altro che un rapporto gerarchico basato su una violenza resa legittima4, diceva Max Weber. Esso impera e via la mattanza! Una violenza manifestata con leggi arbitrarie e liberticide, enfatizzata dalla brutale ferocia dei suoi mastini, conclusa, nel migliore dei casi, con la segregazione in carcere. Violenza arrogante, sadica, legalizzata e perpetrata d’intesa con la massa di vigilanti che disprezza chiunque osi affrancarsi dall’uniformità in cui si nullifica».

«Arrivi al dunque, Dopraho!»

«Non c’è un dunque, perché la prepotenza dello Stato è senza fine». Esito. «Almeno finché le persone non si renderanno conto che esso è una tirannia autolegittimata creata per negare l’individualità».

Sospirai.

Sospirarono anche Pottutto e Manganello e non sembrava per solidarietà.

Non so se per solidarietà o per frustrazione.

«Il che probabilmente non avverrà mai. L’uomo possiede infatti la non invidiabile predisposizione a tollerare, se non sopportare ogni forma di ingiustizia pur di andare a dormire tranquillo e con le chiavi di casa sotto il cuscino. Eppure basterebbe un po’ di sano raziocinio per capire che quel padre è malvagio, violento, sfruttatore, perverso e pervertito, e di amor proprio per fuggire dalle sue grinfie e ricominciare daccapo. Lo Stato è il male assoluto perché niente come la sua tirannia annienta l’individualità. Arbitrariamente si impadronisce della sovranità personale attraverso le istituzioni politiche, legislative, giudiziarie, militari, finanziarie, ecc…, per le quali sono sottratte al popolo la gerenza dei propri affari, la direzione della propria condotta, la cura della propria sicurezza affidandole ad alcuni che, o per usurpazione o per delegazione, si trovano investiti del diritto di far le leggi su tutto e per tutti e di costringere il popolo a rispettarle, servendosi all’uopo della forza di tutti 5».

Pottutto accese la sigaretta. Ne offrì una al maresciallo e insieme soffiarono verso di me.

Mi fecero tenerezza. Erano proprio due bambinoni!

 

NOTE

– 1 Randolph Bourne, La guerra è la salute dello Stato, citato in La società senza Stato a cura di Nicola Ianniello.

– 2 Jason Bourne è il protagonista dell’omonima saga cinematografica spy interpretata da Matt Damon.

– 3 Tiziano Vecellio, Maddalena penitente, 1533.

– 4 Citato in Hermann Amborn, Il diritto anarchico dei popoli senza stato, ivi.

– 5 Errico Malatesta, L’anarchia, ivi.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

In foto Egon Schiele, La madre morta