48 – COMUNITÀ, GLI ACCORDI – segue
«Sul federalismo non ho altro da aggiungere!» dissi.
«Sento i colleghi per sapere a che punto è l’agente Sevizia?» propose Manganello.
«Splendido!». Il PM si eccitò. E a me: «Sarà bello fare l’alba insieme!».
Il maresciallo recuperò il telefono di servizio: «Pronto collega? Buona sera a lei, agente Sventro. Può dirmi com’è messo Sevizia?… So anch’io che è alto, grosso e fa paura. Intendevo a che punto è col cinese?… Ottimo!». Si rivolse a noi col pollice sollevato. «Gli riferisca che lo attendiamo trepidanti!». Riattaccò. «Sta arrivando. Contento?», a me.
«Ho la ciccia di gallina!». Mostrai l’avambraccio. «Posso prima finire il discorso sulla comunità?»
«Ancora?»
«Se vuole parlo di scissione nucleare… Allora la scissione nucleare è quel processo di disintegrazione in cui nuclei di uranio o torio vengono bombardati con neuroni e…»
«Non faccia il simpatico e prosegua con l’anarchia!»
Lo assecondai: «Diceva Comte che una società può essere statica se mantiene l’ordine attraverso leggi di organizzazione, come nelle nostre democrazie dove col pretesto della sicurezza il Potere disciplina la massa, oppure dinamica, quando invece si fonda sul progresso1… Ma cos’è il progresso?»
«Lasci stare gli indovinelli!»
«È diventare animali seduti che contemplano lo schermo?2 Oppure lavorare da mattina a sera per comprare l’auto nuova? Magari la distruzione degli ecosistemi per una vita più confortevole? O, perché no, radere al suolo un continente dopo aver premuto un bottone…?»
«Ne ha ancora per molto?»
«Direi un paio… quella sofisticatissima invenzione medica praticabile solo a chi può permettersela? O forse la nuova scoperta eugenetica che migliorerà la razza?… Chissà!»
«A me piace quella del radere al suolo!» gorgheggiò Manganello.
«In senso generico con progresso si intende qualunque miglioramento della vita. Ma se per lei può essere tale un’invenzione tecnologica che garantisce confort più sofisticati o maggiori guadagni, io posso disapprovarla o declinarla perché mi turba, mi danneggia, la ritengo immorale o inutile».
«Non la seguo!»
«Le faccio un esempio. Supponiamo che domani le sue funzioni siano svolte dall’intelligenza artificiale. Io finirei in gattabuia senza un processo, lei dovrebbe trovarsi un altro lavoro». E con un risolino sarcastico: «Chi ci restituirebbe il piacere di questo momento?»
«E il divertimento deve ancora cominciare!» puntualizzò il maresciallo.
«È impossibile che accada!» tuonò il pubblico ministero.
«È impossibile finché qualcuno riterrà utile il fattore umano. Ma quando esso non sarà più una variabile accettabile, vuoi vedere che…?»
«Nessuno potrà mai sostituire le forze dell’ordine!» controbatté Manganello.
Dopo un attimo di esitazione: «Ha ragione» convenni. «Le barzellette sui robot non fanno ridere!». Proseguii: «Se invece al termine progresso diamo un significato relativo, esso comprende tutto ciò che favorisce lo sviluppo del benessere personale. Non fosse che, ogni volta in cui l’uomo agisce in termini egoistici, diventa uno sterminatore». Sospirai. «Entrambe le definizioni, quindi, sono errate perché sbagliato è l’antefatto, ovvero lo scopo che il progresso dovrebbe perseguire. Finché esso corrisponde all’utile, inevitabilmente si identifica nel profitto e prende la forma di beni, la cui conquista legittima condotte predatrici e causa sfruttamento e sofferenza». Li fissai risoluto: «Progresso è solo ciò che consente all’individuo di realizzare se stesso, cioè la propria essenza naturale. E poiché l’essenza naturale è quella di entità che si sviluppa in un’immensa armonia, una pulsazione3, la natura, corrisponde ai pensieri, alle intuizioni, alle azioni e così via attraverso i quali è possibile unirsi a essa partecipando alle continue trasformazioni dei suoi elementi. Ne consegue che progresso è dire no. Dire no alle imposizioni, alle sofisticazioni, alle futilità, alle depravazioni, alle regole prescritte e non, al dominio rapace in generale, per realizzarsi come persona che fa parte del tutto».
«Che in concreto vorrebbe dire?»
«Vuol dire che il profitto ha due significati: uno mercantile in cui la manipolazione delle menti allontana le persone da ciò che sono. L’altro è coscienza di sé e compimento della propria personalità, che si realizza spogliandosi dall’egotismo e vivendo la completa immersione nella processualità naturale, la cui infinita bellezza è fonte dell’unica, vera felicità».
«Non mi sembra una spiegazione molto concreta!»
«Prenda il lavoro. Tutti dobbiamo lavorare per vivere. Ma una cosa è produrre per soddisfare necessità fisiche e morali essenziali, indispensabili al conseguimento e al mantenimento di un’esistenza connessa, quindi armonica, con la natura, quindi con la propria essenza. Altra è sgobbare per adattarsi alle istanze collettive. O, peggio ancora, sottomettersi alle regole, ai ritmi, agli obiettivi pretesi da chi sfrutta per un proprio interesse. In questo caso, o soddisfa la trascendenza di chi non ha fede o è semplicemente schiavitù. Solo un’attività indipendente praticata in costante contatto con la natura e che garantisca il minimo necessario consente di conoscere se stessi e di realizzare la propria personalità…»
«Chi non lavora, però, non contribuisce alla sua cara comunità!». Pottutto mi interruppe.
«Dipende cosa intende per comunità!»
«Se non lo sa lei che sono cinque ore che ne parla!»
«Finora ho detto che la comunità, la piccola comunità, è l’unico modo per garantire autonomia, orizzontalità e solidarietà. Ma ciò è possibile quando il singolo contribuisce a definirla personalmente. Quando invece essa è quell’insieme di persone in cui l’individuo viene forzatamente assorbito costringendolo a obbedire a prescrizioni che non ha deliberato e che realizzano interessi che non gli appartengono, diventa una prigione da cui deve solo evadere».
«Se l’aggiusta sempre come gli pare!»
«La comunità è uno straordinario luogo di esaltazione della personalità se e solo se è volontariamente scelta, organizzata e partecipata. Cioè l’individuo contribuisce direttamente a ogni fase del suo sviluppo. E questo avviene attraverso accordi liberamente costituiti per la necessità di compiere le aspirazioni degli uomini civili senza l’ingerenza dell’autorità4, realizzando quella forma speciale dell’amicizia basata sulla comunione di idee… col vivere senza opprimere, senza calpestare le aspirazioni o i sentimenti di chicchessia, senza dominare o sfruttare, ma da esseri liberi che resistono con ogni loro forza alla tirannia dell’uno come all’assorbimento delle moltitudini5, in cui sostituire all’odio l’amore, alla concorrenza la solidarietà, alla ricerca esclusiva del proprio benessere la cooperazione fraterna per il benessere di tutti… allo scopo di fornire a tutti gli esseri umani i mezzi per raggiungere il massimo benessere possibile, li massimo possibile sviluppo morale e materiale6. In sintesi, la comunità volontaria, solidale, pluralista e orizzontale in cui le persone si accordano senza determinazioni esterne è l’unico luogo in cui si realizza l’eguale libertà».
Li fissai entusiasta per l’arringa.
Mi replicarono due sguardi atarassici.
«Anch’io credo molto nella volontà, sa?» il magistrato ruppe il silenzio.
«In che senso?»
«Credo sia arrivato il momento che trovi la volontà di fare qualche nome!»
«No!»
«Per favore!»
«No!»
«Porca puttana, Dopraho. Non voglio fare il pubblico ministero in questa cazzo di città per tutta la vita!»
«Ah no? E dove le piacerebbe andare?»
Ci pensò: «A Milano, magari!»
«C’è la nebbia!»
«Ma ci sono anche le televisioni!»
«Vuole un’ospitata da Fazio?»
«Da Fazio?». Rifletté. «Mi andrebbe bene anche da Del Debbio!»
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«Niente è più elettrizzante di uomini liberi che si uniscono per preservare la loro libertà» ripresi a parlare. «Disciplinano dal basso i rapporti e li mutano al variare delle esigenze. Possono cambiare i bisogni, può trasformarsi il contesto e chiunque può chiedere di aggiornarli. Sono sempre modificabili in quanto prodotto della sperimentazione quotidiana. L’uomo comune teme il caos e crea gabbie che legittimano poteri soverchianti. L’anarchico diviene continuamente perché non teme l’esperienza». Per recuperare la loro attenzione: «Sapete cosa diceva Jefferson?» chiesi.
«Chi, George Jefferson?» frinì Manganello. «Ẻ il protagonista della mia sit-com preferita!7» farfugliò allo sguardo minaccioso del pubblico ministero.
«Parlo di Thomas Jefferson, il terzo presidente degli Stati Uniti. Egli affermava che l’immutabilità delle Costituzioni ostacola lo sviluppo umano. Ecco perché, a suo dire, devono estinguersi naturalmente insieme a coloro che le hanno emanate8 per essere sostituite periodicamente da convenzioni più moderne. Allo stesso modo, per gli anarchici gli accordi ora ci sono ora non ci sono più. In qualunque momento possono essere revocati, sostituiti e rescissi. Uno può dire non ho più voglia! e abbandonare senza conseguenze e, soprattutto, senza motivazione… Vi sembra strano? Eppure, anche Bauman sottolineava che l’interesse personale può conciliarsi con quello della comunità se essa è altrettanto facile da smantellare di quanto sia stato costruirla; se essa è flessibile, sempre e soltanto a tempo e durare finché conviene; se il legame di fedeltà creatosi non deve mai ostacolare, né tantomeno precludere, ulteriori e diverse scelte9… Una stretta di mano e amici come prima. Così fanno le persone perbene!»
Ebbi la sensazione che Pottutto si trattenesse dal ridere: «Non mi pare di aver detto una cosa divertente!» dissi.
Gli si arrossarono le basette: «Pensavo alla faccia che farebbe Persecuzio se gli stringessi la mano e gli dicessi che me ne vado!»
«Non le converrebbe. Là fuori si fatica!» ironizzai. «Abbandonare la comunità non è una fuga ma una scelta. E in una società fondata sulla condivisione e che non conosce profitto, tutti si rallegrano quando qualcuno si offre a nuove relazioni, opportunità, necessità. Parafrasando Armand, la reciprocità che li ha uniti fino a quel momento, benché esaurita, non può lasciar spazio alla diffidenza e al rancore».
Pottutto fissò l’orologio che aveva appoggiato sul tavolo.
«Sevizia se l’è presa un po’ troppo comoda con questo cinese!» inframezzò Manganello.
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«Parla di armonia come se il mondo fosse un paradiso. Ma cosa accade se le persone non rispettano gli accordi? Siete uomini anche voi, no?» chiese il magistrato.
«Osservazione interessante!»
«Grazie!»
«Se avessi cominciato a parlare ora!» chiosai caustico. «Quando nella società del dominio le parti non rispettano un accordo, la causa è sempre un tornaconto personale. Ma se la comunità anarchica si fonda su una sintesi volontaristica in cui ciascuno compie l’interesse personale realizzando quello comune e viceversa, mi dice chi può danneggiare chi? Già che c’è, mi informa anche del perché? E visto che è sul pezzo, mi spiega pure come?»
«Ha capito cosa voglio dire!»
«Ne abbiamo già parlato!» controbattei esausto. «Quando do a lei ciò che mi ha chiesto e lei da a me ciò che le ho chiesto, non siamo entrambi contenti?»
«Per questo non c’è bisogno di essere anarchici!»
«Ma in una società in cui tutti ambiscono al profitto, l’accordo diventa strumento di competizione, non di armonia. Quando invece i membri hanno scelto di non accumulare e di vivere nell’interesse reciproco, nessuno prevale perché lo scambio soddisfa le parti paritariamente. E se, per ipotesi, qualcuno viola gli accordi, la comunità interviene per conciliare attraverso un confronto collettivo in cui il trasgressore riconosce il proprio errore, se ne assume la responsabilità, chiede perdono, risarcisce eventualmente il maltolto, i compagni accettano e si ripristina la pace sociale. Ecco perché la parola non è mai una sentenza, bensì una raccomandazione a cui l’interessato può scegliere se conformarsi o meno».
«Continuo a non vedere il senso!»
«Perché continua a guardare con occhi bendati!» rilevai. «È talmente intriso della mentalità del dominio che le risulta impossibile concepire le relazioni in termini di armonia e spontaneità. Dal suo punto di vista, come a ogni azione coincide un tornaconto, a ogni violazione corrisponde una sanzione che sollevi la collettività dalle proprie responsabilità. Per gli anarchici, invece, la tolleranza, al pari della solidarietà, del pluralismo e della volontarietà è un principio fondamentale per lo sviluppo del gruppo». Sospirai di nuovo. «La verità è che siete così terrorizzati dall’idea di decidere con la vostra testa, che non tollerate chi, invece, esalta la personalità» rilevai increspando il tono di voce. «Per voi lo Stato deve ingiungere e il suddito obbedire, Dio prescrivere e il fedele obbedire, il capo ordinare e il subordinato obbedire, il marito imporre e la moglie obbedire, il padre intimare e il figlio obbedire, il mercato forzare e il consumatore obbedire… anche rincoglionire, direi!»
«Ora basta!»
«Le dà fastidio, eh?»
«No, gli elenchi mi mettono ansia!». Pottutto batté la mano sul tavolo. Poi mi fissò algido: «Ormai sono ore che l’ascolto e sa cosa le dico?»
«Prego!»
S’impettì per darsi un tono: «Le dico che la realtà non cambia e non cambierà mai. Il suo mondo fatto di siamo tutti amici e fratelli, viva la pace, la libertà e l’eguaglianza, abbasso il potere cattivo e così via sono tutte stronzate!» sentenziò solenne.
«Dice?»
«L’ho appena detto!». E con un cenno affettato della mano mi sollecitò a proseguire.
Sollevai le spalle: «Io invece dico che ho finito!». Incrociai le braccia.
«Si è offeso perché ho detto la verità?» reagì algido Pottutto.
«Non per ripetermi, ma la superficialità non mi offende mai. Mi intristisce!».
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«Non può aver finito?». Pottutto si strappò gli ultimi ciuffetti rimasti sul mento. «Io decido quando ha finito!». Guardò Manganello in cerca di ausilio.
«Lui decide quando ha finito!» grugnì il fido compagno di ventura tamponandogli l’arterite col fazzoletto umidiccio.
«Spiace, ma ho proprio…»
«Via, non faccia il capriccioso!» disse il PM adesso più accondiscendente.
«Abbiamo ancora l’udienza preliminare, gli interrogatori in carcere, il processo… non mancherà l’occasione!» chiarii assertivo. «Per essere la prima volta che ci incontriamo, mi pare comunque d’aver parlato abbastanza!»
«Eh no!»
«Forse ha ragione!». Riflettei. «Dovrei approfondire come si sviluppa l’autogestione, come si articola l’organizzazione delle comuni, come si conciliano i diversi interessi, il lavoro e il rapporto con la natura…»
«E i nomi?»
«Per una volta sia piuma portata dal vento!» risposi fra il serio e il faceto. «Per il momento dovrà accontentarsi di sapere che esiste il luogo che non esiste10 in cui si può rendere possibile l’apparentemente impossibile11».
Avvampò come lava incandescente ma non replicò a causa dell’improvviso squillo del telefono.
E poiché nessuno sembrava voler rispondere: «Posso?» chiesi di farlo io.
Per un paio di trilli i miei interlocutori si fissarono indecisi. Poi il magistrato mi porse la cornetta. Ma il filo era troppo corto, così lo invitai a invertire i posti. Percorsi il lato del tavolo vicino alla signorina Servile, lui quello opposto come se temesse di infettarsi passandomi accanto. E quando sedetti sulla sua poltrona: «Pronto?» proferii imitandone il tono impostato.
«Pottutto?» gracidò la voce dall’altro lato del telefono.
«Buona sera dottor Persecuzio!» riconobbi il procuratore capo. «Ancora sveglio a quest’ora?… L’interrogatorio è andato alla grande! L’anarchico ha impiegato un po’ di tempo a sciogliersi ma dopo ha fatto così tanti nomi che pare l’elenco del telefono!». Tappai la cornetta perché non mi sentisse ridere. «Manca solo il giro con Sevizia, dopodiché lo spediamo al fresco… Certo, riferirò al maresciallo che questa volta non gli para il culo!… Come dice? Ne parlano i giornali? Pure la televisione? Splendido!». Con la mano di nuovo sulla cornetta: «Pure famosi vi ho fatto diventare!» rivolto ai miei aguzzini. «Mi vuole premiare?» chiesi sorpreso. «Troppo gentile! Ho fatto solo il mio dovere. Anche se quel posticino da sostituto procuratore a Milano di cui parlava… Ha attaccato!».
Riappesi la cornetta. Tolsi i piedi dalla scrivania e: «Milano l’aspetta!» informai Pottutto.
Dalla commozione quasi si mise a piangere.
«Di me ha detto nulla?» domandò Manganello.
«Che doveva dire?»
«Mi piacerebbe diventare Ministro della Guerra!12» miagolò.
«Perché non capo dei vigiles romani?» ribatté Pottutto biasimevole.
Ma anziché replicare, il maresciallo schizzò in piedi e saltellò come una palla da basket verso il bagno.
«Mi sa che l’emozione gli ha giocato un brutto scherzo!». Il pubblico ministero lo giustificò. «È davvero un bambinone!»
Per un po’ giocammo a nascondino con gli sguardi. Poi ruppi l’imbarazzo: «È stato un piacere essere interrogato da lei!»
«Ne sono convinto, visti i risultati!» replicò amaro. «Se non vuole fare i nomi, mi dica dov’è che… Mi consenta almeno un sequestro!» insistette. «Le regalo il poster di Rocky da appendere in cella!»
«Ce l’ho!»
«Le metto la parabola!»
«Non guardo la televisione!»
«Le farò avere doppia razione di bistecca tutti i giorni!»
«Sono mica anemico!»
«Potrà entrare nel coro dei Sodomiti!»
«Non ho il coraggio di chiederle cosa sia!»
«E se prometto di farle incontrare i familiari una volta al mese?»
«Troppo buono!»
«Accordo fatto?».
Non gli strinsi la mano perché bussarono alla porta.
«Dev’essere Sevizia!» esclamò entusiasta. «Manganello, è arrivato Sevizia!» starnazzò verso il bagno.
Appena dopo lo strozzato: «Due minuti!» del maresciallo, la porta si aprì prepotentemente facendo volare la Sfinge che stava davanti. Non si frantumò in mille pezzi solo perché la signorina Servile fece da materasso.
Testa glabra, squadrata, due fessure al posto degli occhi, naso veemente sopra labbra turgide, zigomi come pietre di Stonehenge, mascella che sembrava una trebbiatrice, corpo taurino compresso in una tutina di nailon color giallo impreziosita da schizzi ancora freschi di sangue cinese. In una mano impugnava un trapano, nell’altra delle tenaglie. Avanzò facendo tremare il pavimento.
Pottutto accolse Sevizia con un sorriso spavaldo e uno: «Splendido!», d’ammirazione. Questi rispose guardandosi intorno con l’espressione di chi soffre di antropofobia e si trova in una stanza troppo affollata.
Le leggende sul suo conto non gli rendevano merito: era così spaventoso che una folata gelida di terrore mi fece tremare. Istintivamente mi coprii con la giacca che il pubblico ministero aveva lasciato sullo schienale della poltrona. Non so perché ma manipolai la pallina di pongo. Addirittura, calzai i suoi occhiali. In un impeto di esaltazione finsi perfino di prendere appunti. E quando Sevizia oscillò ancora lo sguardo dal PM a me, ebbi un’illuminazione: assentii un deciso. «Fammi vedere di cosa sei capace!», con un solerte movimento delle sopracciglia.
Tutto avvenne molto velocemente.
Il mostro fissò il magistrato, che strisciò la sedia all’indietro.
Emise alcuni fonemi d’oltretomba, a cui il PM balbettò un titubante: «Come è andato con il cinese?»
Gli si avvicinò prepotentemente inducendolo a uno strozzato: «Maresciallo, le spiace venire?».
E quando ruggì come il leopardo di Ligabue13, nel silenzio si udì prima la voce remota di Manganello che diceva: «Ho quasi finito!», poi lo sfrigolio dello sguardo elettrico di Sevizia che cercava conferma nel mio e immobilizzava quello di Pottutto, accortosi troppo tardi di essere nel posto sbagliato, la sedia di metallo in cui stanno gli interrogati, al momento sbagliato, quando il finto pubblico ministero, cioè il sottoscritto, aveva convinto l’aguzzino a non distrarsi dalla trans agonistica.
Distolsi l’attenzione da quella scena raccapricciante.
La violenza non era mai stata il mio forte. Ma la perspicacia sì. Appena il bruto lo rovesciò a terra infilandogli il trapano in bocca, in punta dei piedi mi avvicinai alla porta. Me ne andai senza salutare per non rovinare il momento.
NOTE
– 1 Auguste Comte, Sistema di politica positiva, 1851.
– 2 Cristopher Lash, Contro la cultura di massa, 2007. Nel testo la sua frase è al singolare.
– 3 Aldo Leopold, Pensare come una montagna, Piano B edizioni, 1949.
– 4 P. Kropotkin, Voce Anarchismo in Encyclopaedia Britannica, 1905.
– 5 Emile Armand, Vivere l’anarchia, ivi.
– 6 E. Malatesta, L’anarchia. Il nostro programma, 2013.
– 7 I Jefferson, sitcom televisiva proiettata negli anni ’80.
– 8 Thomas Jefferson enuncia il suo principio in una lettera del 1776 a James Madison.
– 9 Z. Bauman, Voglia di comunità, 2001.
– 10 Tomaso Moro, Utopia. De optimo reipubblicae statu, 1516
– 11 Amedeo Bertolo, Anarchici e orgogliosi di esserlo, ivi.
– 12 Il Ministero della Guerra venne istituito da Cavour nel 1861. Dal 1947 è stato sostituito dal Ministero della Difesa.
– 13 Antonio Ligabue, 1899-1965, Il leopardo assalito da un serpente, 1955.
Immagine: John Martin, Pandemonium, 1841
Editing a cura di Costanza Ghezzi