DARE UN GIUDIZIO

Spesso mi chiedo se esiste una relazione fra arte e anarchia.

Non tanto come l’essere ribelli possa favorire la produzione artistica. Questo mi sembra scontato, come dimostrano gli infiniti casi di coloro che, una volta arricchitisi o assuefatti al sistema, senza animus sovvertitore perdono la vena creativa. Quanto al fruitore che si immerge nell’opera vivendo un’esperienza estatica assimilabile a quella provata dal libertario nel momento in cui si identifica con gli esseri che lo circondano e si fonde con la realtà per partecipare all’unità universale.

La risposta è sempre positiva perché entrambe sono esperienze identitarie che consentono di percepire e, per alcuni fortunati, vivere la cosa in sé. Il più grande prodigio che l’individuo possa conoscere e a cui possa partecipare. L’unico che merita di essere raccontato.

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Si dice: “penso quindi sono”. Una volta credevo fosse una delle tante perle di saggezza di mia nonna, poi al liceo ho scoperto che Cartesio l’aveva affermato quattro secoli prima. Ho impiegato anni per riprendermi dalla delusione.

Il filosofo asseriva che, mettendo in dubbio qualsiasi affermazione, si può arrivare a massime vere o false. «Ehi prof, ma uno più uno fa sempre due!» una volta un suo allievo lo sorprese. «Fa due?» egli ripeté sospeso. «Fammi pensare un po’…!» Ordinò al valletto di portargli un pallottoliere. Spostò una pallina. Spostò quella accanto. Le fissò così a lungo che un altro studente: «Ma questo ci è o ci fa?» borbottò. Il maestro sollevò la testa e saettò il suo sguardo da genio: «Ci sono!» tuonò. Poi andò via lasciando sbigottiti i presenti.

Questa è la genesi mai raccontata della massima con cui Cartesio esprime la coscienza che l’uomo ha di se stesso quale soggetto pensante. Da quel momento l’umanità ha appreso due cose: la prima è che il pensiero è volontà, la seconda è che esistono tante volontà quante le personalità.

A dire il vero, ce n’è anche una terza, ovverosia che non tutte le personalità sono uguali. Infatti quelle dei due studenti zelanti hanno dovuto abbandonare matematica e iscriversi a scienze politiche.

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Il pensiero è quindi quell’attività psichica mediante la quale l’essere prende coscienza di sé e del mondo. Alla fase cogitante segue il giudizio, attraverso cui si manifesta. Tanti giudizi quante sono le persone. Ma se in natura la contraddizione diventa identità in quanto le soggettività si equivalgono nell’identità unitaria, i giudizi sono diversi perché diverse sono le storie di chi li esprime.

Prendi la reazione dell’osservatore di fronte a un’opera d’arte. Che so, il Campo di grano con corvi di Van Gogh. Egli può soffermare l’attenzione sul contrasto cromatico fra il giallo vitale e il cobalto tenebroso. Altri sullo stormo di corvi che si leva cupo o sul cielo agitato o sui sentieri serpeggianti. Qualcuno può cogliere il ritmo vorticoso delle pennellate con le quali il pittore proietta la sua sofferenza sulla realtà circostante. Qualcun altro può spingersi oltre condizionato dalla suggestione dell’orecchio mutilato. Insomma, ad ogni punto di osservazione corrisponde un’interpretazione della volontà cristallizzata nell’opera, che poi si manifesterà con un giudizio.

Ma se esistono infinite volontà che esprimono altrettanti giudizi, è possibile stabilire se uno è migliore degli altri?

Mi spiace deluderti, ma la risposta è sì. E per non farti perdere tempo, dico subito che dipende dalla credibilità di chi lo manifesta.

Credibile è ciò che ha la capacità di ottenere credito, cioè ispirare fiducia, come recita il dizionario.

Nella società un’affermazione è tale quando chi la esprime possiede autorità riconosciuta da tutti. Può essere acquisita per merito, ad esempio lo scienziato capisce di scienza più dell’uomo comune. Ẻ quando la mischia con l’economia che va in confusione! Può essere del leader che impone le sue regole ai sottomessi. Può essere dell’autocrate, come il prete, il governo, le istituzioni sociali o chiunque detenga il dominio in virtù dell’aurea sacrale che si è autoconferito. In ogni caso essa è la prerogativa di una élite a cui corrisponde l’accettazione o l’obbedienza uniforme della massa.

Considera l’affermazione anarchica “il governo è sempre tiranno”. Pur essendo una frase vera, viene pronunciata da soggetti che la manipolazione mediatica definisce non credibili. Con la conseguenza che anch’essa non lo è. Al contrario, se un giudizio falso come “gli anarchici vogliono il caos” o “gli anarchici sono dei criminali” viene reso da un’autorità apparentemente credibile, e poiché niente lo è di più di chi se l’è autoconferita, come per magia diventa apodittico. Il Potere conosce questo meccanismo e fa quello che gli pare!

Scendendo più in basso, invece, la credibilità dipende dal carisma determinato dal rango, dalla professione svolta, dalle attitudini personali, dalla conoscenza, dalla sensibilità e da altri attributi. Sono però filtri soggettivi che sottolineano l’autorità del dichiarante senza tuttavia rilevare alcunché sulla effettiva conoscenza della realtà esaminata e giudicata. Quindi sulla veridicità della sua affermazione.

Ne consegue che giudicare il giudicante per il suo retaggio è come scommettere l’intera posta su Golia solo perché è grosso. E poiché la credibilità di un giudizio non può dipendere dalle ragioni per cui chi lo manifesta sembri o meno degno di fiducia, occorre scavare oltre la superficialità. Ma per farlo, bisogna cambiare la prospettiva: non soffermarsi sugli attributi del referente, bensì concentrarsi sull’esperienza che ha vissuto. Ovverosia valutare quanto sia stato in grado di affrancarsi da ciò che è per immergersi nella realtà che deve essere giudicata per quello che è.

L’uomo è pertanto credibile quando la sua esperienza è onesta. Quando cioè le competenze, i condizionamenti sociali, gli interessi e gli orientamenti personali e tutto ciò che preconfeziona la coscienza e contamina il sé lasciano il posto alla spontaneità. Soltanto una volontà libera può accedere alla verità creando relazioni affettive, simpatetiche, empatiche con gli elementi che la vivificano, diventano loro sostanza, poi essenza universale. Terminata l’ebrezza, condividerla è una necessità amorosa non meno inebriante.

Come capire questa sincerità? Facile. Perché la verità è sempre nei silenzi.

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Il rapporto con l’arte spiega il concetto meglio di altri esempi.

L’opera artistica rappresenta la visione della realtà secondo il suo autore. Ma è anche il luogo in cui si incontra con quella del fruitore.

Il posto è misterioso, in alcuni casi impenetrabile come una selva. Difficile orientarsi e le conoscenze apprese ai tempi in cui si era Giovani Marmotte producono il solo risultato di girare intorno più e più volte. O ci si abbandona allo sconforto e si comincia a tirare calci agli alberi col rischio che una pina cada in testa, oppure ci si lascia andare affinché la natura possa guidarci.

Allo stesso modo, di fronte alla creazione dell’artista, bisogna abdicare le presunzioni, i pregiudizi, le conoscenze e donarsi ad essa. Solo facendone parte si può comprenderla. L’attore deve essere libero di abitare l’opera. Vivere la dimensione altra per trasformarsi in volontà nuova. Ma perché si realizzi questa dissoluzione e ricomposizione, come lo sciamano che dilata i confini percettibili immergendosi nel sogno, la volontà deve abbandonarsi alla casualità dell’istinto. Volare con le note, fluire fra le pennellate, formarsi e sformarsi plasticamente, accarezzata dal suono delle parole o partecipe dell’azione. Ed è allora, quando entra nell’opera e interagisce con i suoi elementi, quando il vecchio sé è trasformato in un sé semioticamente nuovo, che l’esperienza s’illumina d’immenso. Improvvisamente il mistero diventa comprensibile, il sogno reale. Tutto ha un senso. Ecco l’idea. Rivelata dalla improvvisa connessione di volontà, quella dell’autore e quella dell’attore, che esplode nell’ebrezza estatica dell’identità. Sarà poi compito della ragione conservare e donare al mondo questa possanza attraverso il giudizio. Giudizio che sarà sempre vero perché chi lo esprime avrà compreso l’essenza che la anima grazie all’esperienza che lo ha reso creatore.

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In questi termini, la credibilità di chi vive un’opera d’arte è la medesima dell’individuo che si unisce alla natura per diventare il tutto.

Anche in questo caso egli è puro. Solo dopo che si è liberato dai pregiudizi che pervertono la volontà, potrà perdersi e ritrovarsi. Anche in questo caso l’esperienza sensoriale, se protratta e compiuta con affettuosa contemplazione, provoca un acquietamento che schiarisce il pensiero, rallenta e calma le pulsioni, sfuma e poi cancella intorno, induce alla dissociazione con la quale la volontà passa dal corpo agente a quello osservato, toccato, gustato, odorato, trasformandosi lentamente ma inesorabilmente in volontà dell’animale, della pianta, del fenomeno naturale, dell’oggetto inanimato. In quella corporeità nuova ma così reale prova istinti, sentimenti, emozioni, pensieri non umani, che trasformano la coscienza di sé in un nuovo sé. Una fusione che è identità spirituale e materiale. E quando questa trasposizione viene reiterata con infinite entità, scatena una connessione simbiotica universale in cui la coscienza tangibile della cosa in sé, la volontà del creato in divenire, esplode in tutta la sua rivelazione.

Non c’è niente di mistico in questi processi. Basta cercare, trovare e fare propria la bellezza. E poi esaltarsi nell’estasi. L’idea dell’artista e la volontà naturale sono verità che il sensibile e l’intellegibile individuano e vivono grazie all’esperienza trans-dimensionale, che è tanto più reale, tanto più viva, tanto più credibile, quanto il sé riesce a donarsi alle molteplicità e condividere con esse il tutto.

In fondo, cos’è la natura se non la più meravigliosa opera d’arte?

 

in foto Emile Nolde, Girasoli rossi e gialli, 1920.