ETA’ DELL’ORO

La famosa filosofa tedesca Lodetta Giustan affermava che la civiltà è l’evoluzione delle dinamiche sociali, politiche, religiose, antropologiche in genere determinate dalle innovazioni tecnologiche. In antitesi a questa concezione teleologica-utilitaristica, culture anche molto diverse fra loro oppongono quella che noi occidentali chiamiamo Età dell’Oro. Consiste in un tempo di prosperità e abbondanza in cui non c’è Dio, Stato, proprietà, leggi, lavoro, commercio, gli uomini vivono armonicamente senza odiarsi, sfruttarsi, competere, guerreggiare, guadagnare, condividendo la ricchezza della natura1. Poi nei vari miti accade sempre qualcosa che fa arrabbiare qualcuno, qualcun’altro comincia a dominare la terra, a guerreggiare con il vicino per appropriarsi della sua, si dà un nume che educhi dall’alto, crea un governo dispotico per mantenere l’ordine, colonizza nuove frontiere e poi la rivoluzione scientifica, l’industrializzazione, fino al progresso tecnologico dei giorni nostri giorni. Insomma, non appena la natura viene sostituita dalla civiltà, gli umani diventano gli stronzi che conosciamo.

E fra chi attende ricominci il ciclo, chi la provvidenziale redenzione, noi empirici registriamo che da quando l’uomo si è separato da essa, vivere non è più una gioia. Vero, prima indossava pelli, dimorava sotto le stelle e rischiava di essere sbranato dalle fiere. Oggi invece la civiltà concede il privilegio di trovare abiti di Versace in ogni outlet, di abitare in confortevoli monolocali con vista ciminiere, di scegliere se crepare investiti da un auto, cadere con l’aereo o di cancro per quello che respiriamo o mangiamo. Ma alla domanda se siamo felici, non sappiamo rispondere. E non lo sappiamo perché non lo siamo. Perché nonostante il progresso elargisca confort a ripetizione, ciascuno sa, e se non lo sa lo sente nel profondo del cuore, di essere una pantomima di se stesso.

La volontà che alberga in ogni essere e agisce attraverso il corpo può esprimersi per ciò che è solo in un ambiente incontaminato che non la inibisca. I non umani lo sanno e sono selvaggi. L’uomo invece, oppresso dalla ragione esaltata dalla civiltà affinché operi in funzione del profitto necessario alla sua perpetuazione, compensa la frustrazione con artifici identitari e ideologie manipolatorie che lo rendono accondiscendente. Per questo le dottrine a servizio del dominio concepiscono lo stato di natura non come una condizione evolutiva, ma come età nefasta e immorale rispetto alla quale legittimare l’ordine esistente. L’esempio più lampante è dato dall’illuminismo, i cui paradigmi fondano e influiscono ancora sulla cultura contemporanea.

Dopo la rivoluzione scientifica e la conseguente meccanizzazione industriale, era indispensabile plasmare la società in funzione del progresso tecnico. Chi deteneva il potere economico aveva bisogno di persone educate all’obbedienza, al lavoro, al consumo, quindi di un Leviatano che le plasmasse. E così i famigerati filosofi della ragione hanno stravolto il significato dello stato di natura, trasformandolo in quel mondo senza regole, caotico e pericoloso che ancora oggi suggestiona le menti degli ignoranti inducendole alla servitù volontaria in cambio di una parvenza di sicurezza. Hanno compiuto, come spesso accade quando occorre legittimare l’arbitrio, un’opera di propaganda che intorpidisse le menti e consentisse ai dominatori di perpetuare i propri privilegi.

Prima Hobbes ha affermato che quando le persone sono troppo libere e troppo uguali realizzano la “guerra di tutti contro tutti” perché “l’uomo è un divoratore di altri uomini”. Al che, per garantire l’ordine, sono costrette a stipulare un accordo in cui rinunciano ai diritti per trasferirli al Leviatano2. Con premesse diverse ma conclusioni affini, Locke ha sostenuto che nello stato di natura l’uomo è libero, eguale, riconosce i diritti innati, rispetta e fa applicare le leggi senza bisogno che qualcuno gli dica cosa fare. Poi però afferma che le persone sono volubili e parziali, per cui è necessario un Principe a cui la comunità deleghi il compito di garantire la certezza della legge3. Su queste due versioni si fonda lo stato di diritto, il sistema giuridico che disciplina la società industriale e che in tempi di tecnocrazia si è fatto più repressivo, si sa mai i robot si ribellino.

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Fortunatamente se ogni epoca ha i suoi manipolatori asserviti, ha anche i suoi eversivi. Rousseau era uno di questi. In barba alla derisione dei colleghi, egli ripristina la dignità dello stato di natura affermando che in esso l’uomo era libero, eguale, nonché buono e solidale. Viveva con semplicità e non aveva ambizioni, ma condividere l’esistenza con il creato lo rendeva felice. Poi un giorno a qualcuno è venuto lo sghiribizzo di recintare un terreno. Ha approfittato degli animali che stavano al suo interno, ha sfruttato gli affini per coltivarlo. E siccome dominare gli piaceva assai, per evitare che altri si appropriassero dei suoi beni, si è inventato il famoso contratto sociale a cui tutti erano vincolati senza aver prestato consenso. E così si è istituzionalizzata la disuguaglianza4.

Il filosofo usa questa ricostruzione per affermare due cose: la prima è che nello stato di natura l’uomo è pacifico, tollerante, collaborativo e rispetta le leggi innate in armonia con gli esseri del creato perché non esistono distorsioni che lo depravino. La seconda è che nel momento in cui qualcuno impone che la tal cosa gli appartiene e nessuno possa disporne, ovverosia quando sacralizza la proprietà, acquisisce un’autorità, cioè una posizione di privilegio, che si trasforma in potere diretto o delegato, cioè la possibilità di imporre cosa fare e cosa non fare, che poi diventa arbitrio, cioè agire nel proprio interesse soggiogando quello altrui.

L’outsider che tutti deridevano, è pertanto il primo pensatore dell’epoca moderna che in maniera laica attribuisce all’accumulazione la causa dei rapporti di forza che fondano la civiltà. Ma ciò che più affascina è che il suo stato di natura sia tutt’altro che una finzione giacché corrisponde alla condizione decritta nelle cronache dei gesuiti in cui vivevano gli indigeni dell’America colonizzati dagli europei. Ormai essi non esistono più perché sono stati sterminati in nome del progresso. Basterebbe però osservare i nativi che ancora abitano le foreste e quelli che vivono l’estremo nord del pianeta per rendersi conto che gli incivili di ogni luogo ed epoca prosperano in pace e serenità finché qualche arrogante non impone i suoi modelli per sfruttare loro e le risorse del loro territorio.

Non è casuale che l’uomo abbia vissuto per millenni in una situazione di anarchia permanente. Come insegna l’antropologia non plagiata dal mercantilismo, finché non esiste la proprietà non c’è domesticazione, competizione, nevrosi, sfruttamento, supremazia, inquinamento, giurisdizione, e quant’altro caratterizzi la predazione civilizzante. L’uomo è nomade, le relazioni prevalentemente amicali. L’economia e i commerci vengono considerati pratiche superflue perché si produce per sé e gli scambi avvengono attraverso il dono. La cooperazione è conservazione e i conflitti rappresentano rituali di perpetuazione. Ciascuno respira e pensa con la natura, gioca e interloquisce con i suoi elementi e grazie a essi si sfama in abbondanza e si cura quando necessario. La profondità dell’esperienza esalta l’individualità attraverso la dissoluzione nell’unità. L’esistenza è sicuramente un rude esercizio di sopravvivenza, ma veder sorgere il sole è una gioia e vederlo tramontare una grazia.

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Ẻ in questo stato di natura che il libertario sente il bisogno di fuggire.

Ẻ come se, ormai esasperato dal mondo che lo circonda, sprofondasse sulla poltrona vecchia a cui è tanto affezionato. Afferrasse un foglio bianco, sopra il quale tirasse una linea verticale. Da una parte scrivesse “stato di natura”, dall’altra “civiltà”. Sotto la prima aggiungesse: pace, armonia, libertà, eguaglianza, solidarietà reciprocità, abbondanza, simbiosi, spiritualità, felicità… Sotto la seconda: guerre, sopraffazione, ingiustizia, distruzione, mercificazione, violenza, industria, globalizzazione, inquinamento, morte…

Sospira senza proferire parola. E comunque cosa potrebbe dire di fronte all’evidenza? Sa solo di non voler più fingere. Vuole essere uomo!

Rifiuta la sopraffazione, l’oppressione, il dominio, la distruzione che lo nutre. Vuole gentilezza, condivisione e fratellanza. Vuole godere dei diritti innati e desidera che anche gli altri essere viventi facciano altrettanto. Vuole abbandonarsi alla spontaneità irrefrenabile. Vuole esprimere gli istinti, le passioni, le pulsioni nella sua forma più impetuosa. Vuole creare relazioni con le molteplicità attraverso cui conoscere se stesso e partecipare alla processualità del tutto. Vuole essere selvaggio che si nutre di armonia, con la quale interagire adattandosi alle sue continue trasformazioni.

Straccia il foglio. La decisione è presa. Qui e ora altrimenti sarà la catastrofe. Se non quella del pianeta, la sua.

Dopo la botta d’adrenalina, lo coglie però la tristezza.

Da solo non potrà mai cambiare le cose ed è più facile finisca il mondo piuttosto che le persone si ribellino al dominatore. L’esperienza gli ha insegnato che se anche facesse saltare in aria infrastrutture, non lavorasse e non producesse, smettesse di consumare, togliesse i soldi di banca, rubasse ai ricchi per dare ai poveri, eccetera, verrebbe il momento in cui un suo gesto, un banalissimo gesto, lo ricondurrebbe all’obbedienza.

Decide quindi di fuggire. Disertare e scappare dove non può essere trovato e dove può costruire la propria realtà.

Con nonchalance calza le scarpe, indossa la giacchetta e il cappellino. Sistema la sciarpa davanti allo specchio. «Cara vuoi venire con me?» chiede alla moglie. «Andiamo all’Ikea?» lei gli risponde. Senza replicare apre la porta dell’altra camera: «Ragazzi volete venire con me?» chiede ai figli. «Andiamo al centro commerciale?» Non la chiude nemmeno. Al cane basta uno sguardo per balzare sugli attenti. Gli carezza le orecchie e insieme escono di casa.

Cammina, cammina e cammina. Attraversa le campagne coltivate. Raggiunge la collina. Comincia a salire finché non trova un bosco. L’aria si è fatta più fresca. Il sole balugina fra le frasche. Ẻ tutto un gracidio, un fruscio, un cinguettio misterioso ma eccitante. Continua a camminare finché non si perde. In un’altra occasione si sarebbe spaventato, ora invece gli sembra piacevole non sapere da dove è venuto e come tornarci.

Ẻ quasi sera e deve trovare un riparo dove riposare perché il giorno seguente comincerà a edificare la propria esistenza in quel luogo incontaminato. Il fuoco lo riscalda, le stelle lo accompagnano e quel precotto di stramonio diluisce i pensieri, esalta i sensi, lo trasforma nelle molteplicità.

Mai era stato così libero!

L’indomani non avrà bisogno di produrre né coltivare. Niente divisione del lavoro, organizzazione gerarchica, prevaricazione. Potrà esprimersi senza conflitti e non avrà bisogno di sanare la finitudine con surrogati di felicità. Animali e piante sprizzano vitalità e l’aria è un turbinio di profumi, colori, sapori. Una molteplicità da far girare la testa. Gli è bastato incrociare uno scoiattolo, osservare una famiglia di cinghiali, sollevare lo sguardo e veder sorridere le chiome per capire che la natura provvederà a nutrirlo, a fornirgli un tetto sotto cui dormire, ad assicurargli le necessità essenziali, a condurlo nell’esperienza per essere esperienza a sua volta. Magari un giorno incontrerà un fuggitivo come lui e il giorno dopo un altro ancora e così via e insieme creeranno una comunità di umani e non umani che coesisteranno senza sopraffazione, senza obbedienza, senza umiliazione, senza violenza, ma ciascuno libero di essere se stesso insieme ad altri che lo sono già.

Chiunque voglia aggregarsi sarà il ben venuto. Si presenti però con l’umiltà della comparsa, che a renderlo attore ci pensa il creato!

Per chi è più timoroso, incerto, vile e preferisce la sicurezza dell’asservimento ai rischi della libertà, invece, non rimane che alzarsi con un lamentoso «ohioi!» dalla poltrona in cui è sprofondato, ciondolare verso la finestra, scostare la tenda e guardare il cielo. Attraversare gli strati dell’atmosfera, volare fino allo spazio interstellare e oltre i confini della galassia, perdersi nel vuoto intergalattico canticchiando: “extraterrestre portami via, voglio una stella che sia tutta mia. Extraterrestre vienimi a pigliare, voglio un pianeta su cui ricominciare…”5.

NOTE

*1 Mito descritto da Esiodo in Le Opere e i Giorni, e ripreso da numerosi autori classici come Ovidio, Metamorfosi.

*2 Hobbes, Leviatano, 1651.

*3 Locke, Trattati sul governo, 1690.

*4 J. J. Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra uomini, 1755.

*5 Eugenio Finardi, Extraterrestre, 1978.

Immagine: Jacob Hoefnagel, Orfeo incanta gli animali, 1613

IMPROCRASTINABILE

Si dice improcrastinabile di una cosa che non può essere differita. Va fatta qui e ora, altrimenti il danno sarà talmente grave da non poter rimediare.

Ecco perché sostengo che l’anarchia sia improcrastinabile.

Per salvare sé e il mondo l’uomo non ha alternative a rifiutare la società così detta civile, abbandonare le sue deità ed edificare una realtà completamente nuova. Senza profitto e senza accumulazione, che in mancanza del primo è una guaribile ossessione, può edificare quello stato di natura in cui libertà ed eguaglianza sono pratiche ordinarie e la simbiosi con l’ambiente è principio esistenziale.

Esagero? Non credo visto che ormai stagna in luoghi putridi di vizi, menzogne e malversazioni, dove conduce esistenze talmente tossiche che ogni droga è buona pur di non pensare. Si affanna compulsivamente per soddisfare bisogni inutili e delega il resto a fantomatici esperti che si arricchiscono grazie alle sue nevrosi. Ma, soprattutto, se socializzando si trasforma nel servo fedele di cui il l’ordine ha bisogno per mantenere i privilegi, individualmente è una personalità evitante che interagisce per manipolare, sfruttare, dominare al solo scopo di conseguire un tornaconto personale. E nel tempo si è talmente perfezionato che non ha più bisogno di coartare: gli bastano le buone azioni!

Anche nello stato di natura l’uomo pensa a sé. Ma è un sé per gli altri. Il suo interesse è rivolto alla salvaguardia della vita personale e del gruppo di appartenenza e all’appagamento dei bisogni necessari per i quali basta “soddisfare la propria fame sotto una quercia, dissetarsi al primo ruscello, distendersi sotto lo stesso albero che ha fornito il pasto”1. Nonché alla conservazione, protezione e cooperazione con l’ambiente con il quale individuo e comunità sono talmente amalgamati da creare un unicum di relazioni intime, affettive e di condivisione imprescindibili al benessere collettivo.

In natura infatti non esiste accumulazione se non per assicurare la sopravvivenza. La terra dona in abbondanza. Non c’è proprietà. Non c’è profitto. Le eccedenze sono considerate inutili e se vengono prodotte si pensa a come distribuirle. Ognuno soddisfa le priorità biologiche, fisiche e mentali, e poi si dedica alla condivisione delle attività con gli altri membri del gruppo, al gioco, allo studio, all’ozio, che non è infingardaggine ma quella condizione di quiete fisica e psichica che concilia lo spirito con l’armonia circostante, alla tranquillità mentale, alla contemplazione attraverso cui partecipare al tutto.

Se la società della morte indottrina a non avere alternative affinché il cambiamento sia temuto e la soggezione accettata, il libertario che vive nello stato di natura si abbandona alla mutevolezza delle cose e in essa trova la ragione della propria esistenza.

Negato il profitto, rinuncia alle frivolezze, alle illusioni, ai sacrifici, alle vessazioni che esso impone. Con spontaneità selvaggia possiede la profondità dell’esperienza. Non ha bisogno di artifici che compensino la sua finitezza. Tantomeno ricorre a simbolismi rassicuranti. Ẻ nella spiritualità che conosce se stesso. Grazie alla contemplazione, alla percezione, alla condivisione sensuale, all’identificazione simbiotica, apprende la verità. E la verità è che ogni essere del mondo esiste per consentire la perpetuazione della vita, quella processualità inesauribile in cui perdersi dolcemente.

Un’elevazione intima che non si deve confondere con il fideismo idealistico perché le verità artefatte sono sempre “spudorate menzogne”2. Né ha a che vedere con l’ingenua immaterialità. Ad eccezione delle persone aride, infatti, chiunque possiede il senso del trascendente, cioè la percezione di una volontà o realtà superiore a quella umana. Tutto sta nel concepirla “al di là” di questo mondo oppure, come fa l’anarchico, afferrarla qui e ora attraverso l’esperienza personale. L’azione libertaria è immanente e consiste nell’instaurare relazioni simbiotiche con gli esseri del mondo. Una fusione diretta, vera, concreta. Non deve essere cercata, né deve essere agognata. Ha la dolcezza di un frutto maturo, la freschezza del vento del nord o il conforto di una chioma rigogliosa.

Sia chiaro, però, che tale metamorfosi spirituale non può essere imposta. Così fosse, infatti, si manterrebbero gerarchie che, presto o tardi, riprodurrebbero le distorsioni della società del dominio. Deve essere volontaria. Spontanea. Istintiva come lo spirito di sopravvivenza. La bellezza non è mai riferita, va vissuta personalmente. Solo così scalda il sangue, accappona la pelle e, perché no, commuove.

«Che fai, piangi?»

«Ma no… sono solo felice!»

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Non esistono soluzioni transitorie. Quelle proposte sono palliativi. Se non addirittura leve propagandistiche per arricchire chi sta provocando la catastrofe. La società del dominio è distruzione, nichilismo, alienazione, deumanizzazione e inesorabile estinzione. Non si tratta di come e perché essa avverrà, ma quando. Se l’umanità non vuole dissolversi, deve evolvere. E per evolvere deve abbandonare le fissazioni, gli inganni, le depravazioni, i pregiudizi che la schiavizzano per appropriarsi del sé e condividerlo con le molteplicità. Deve avere il coraggio del nuovo inizio e la fierezza del guerrigliero pronto a morire. Deve abbandonare la società del dominio, rappresentata dalla civilizzazione, e fuggire nella natura selvaggia. Solo in un ambiente incontaminato, privo di interessi materiali che oscurino l’istinto e in cui la volontà possa esprimersi pienamente, riuscirà a creare le infinite connessioni affettive attraverso cui partecipare al tutto. Deve diventare maestoso come un albero, libero come un uccello, empatico come un delfino, cooperante come una formica, appagato come un orso dopo che si è pappato tutto il miele. Deve diventare natura! Come peraltro già sarebbe, se non lo avessero educato che fa più figo atteggiarsi a stronzo egoista.

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Non fosse che in una società che annulla gli istinti, rinunciare ai confortevoli artifici a cui si è assuefatti può sembrare un rischio anche per il più convinto dei libertari.

Per questo in molti di loro continuano ad alzarsi la mattina per andare in fabbrica o in ufficio, consumano beni offerti dal mercato, usano la tecnologia, seguono i cliché sociali, e così via. Un adattamento che è pur sempre accettazione dell’oppressione. E così il ribelle moderato, pur essendo cosciente di sé, al sé rinuncia. Vive la condizione del dissidente, al massimo del disertore, adattandola al contesto in maniera da non subire le conseguenze dell’emarginazione, del disprezzo, della punizione. Di fatto è e sarà un incompiuto. Anche quando intraprende una lotta personale contro il sistema con azioni antagoniste oppure trova affini con i quali costituire comunità volontarie, autogestite, autonome cessando ogni contribuzione al tiranno, se compresso in una realtà corrotta, presto sarà corrotto a sua volta.

Un modello di questo affrancamento si è visto durante la pandemia allorché i governi hanno isolato la popolazione per giustificare le loro terapie criminali. Sono nati spontaneamente gruppi di cittadini che lavoravano, si assistevano, si coordinavano clandestinamente nell’interesse comune in barba alle prescrizioni. E quando è stato imposto l’inoculamento del siero sperimentale, hanno preferito la vita alla morte. Si è trattato di qualcosa di straordinario, cancellato dal ritorno alla normalità. Perché quando all’entusiasmo ribelle non si affiancano progetti di vita condivisi, la fiaccola si spenge e si fa nuovamente buio.

Un altro esempio di separazione dall’ordine costituito è la pratica del collettivismo agrario3 attraverso cui si realizza una concreta armonia fra individui e ambiente. In esso il legame inscindibile con la terra porta ad una gestione autonoma del bene comune in cui ogni famiglia partecipa senza ingerenze alle vicende dell’altra condividendo i medesimi diritti, benefici, doveri, secondo accordi liberamente definiti. Anche in questo caso, però, benché la rottura sia pratica e la complicità sia attiva, ora la soverchiante egemonia monoculturale, ora la mercificazione globalizzata tarpano le potenzialità sovvertitrici rendendo l’alternativa un mero fenomeno locale.

Stessa cosa avverrebbe se la società del dominio accogliesse alcuni principi egualitari. Supponiamo che venga garantito in maniera universale un profitto di base minimo così da rendere il lavoro non più un mezzo di sopravvivenza. Le persone che ne beneficerebbero sarebbero tutt’altro che libere. Dipenderebbero dal Potere e obbedirebbero alla sue imposizioni, quantomeno per riconoscenza. Un po’ come oggi avviene per i dipendenti pubblici, i burocrati, i funzionari, e tutti coloro che collaborano con l’oppressore per non perdere i propri privilegi. Senza considerare che la gerarchia fra chi mantiene e chi è mantenuto istituzionalizzerebbe le differenze sociali cancellando quell’ipocrisia che ogni tanto rende la democrazia più umana della tirannia.

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Se deve essere cambiamento, deve essere personale e deve consistere nell’abbandono radicale dell’ordine costituito. Quando infatti i principi libertari si insinuano in un contesto coercitivo, non è sufficiente difendersi dalle sue manipolazioni, reagire alle sue repressioni o rifiutare le sue perversioni. La sua azione prepotente e soffocante impedirà sempre di “vivere nell’armonia che è nell’opera d’arte riuscita”4.

Ecco perché arriva il momento in cui l’anarchico capisce che operare al suo interno implica esserne complici e decide con chi stare, accettando i rischi dell’insubordinazione. Ẻ allora che abbandona ciò che è stato per diventare un uomo nuovo.

Lo fa fuggendo nello stato di natura, cioè in quella realtà non antropica e autentica in cui la volontà finalmente pura si esalta nell’identificazione con i suoi elementi. Un ambiente appartato e nascosto, scevro da coercizione, superfluità, dovere, in cui abbandonarsi agli umori, agli odori, ai suoni, ai sensi. Dove contemplare e riconciliarsi. Dove la diversità attizzino la creatività istintiva. Dove non vergognarsi delle nudità. Dove sporcarsi di terra. Dove il pensiero sia fantasia suggestiva e non pragmatica sistematicità. Dove condividere l’abbondanza e il tempo libero sentendosi parte del tutto anziché appendice di un meccanismo. Dove la comunione del bisogni e dei desideri escluda padroni, crimini, tributi, divisione del lavoro, quindi disuguaglianza e gerarchie. Dove celebrare il rinnovamento e la fertilità della terra. Dove intenerirsi davanti allo sguardo struggente di un cerbiatto o meravigliarsi ai colori sgargianti di un fiore. Dove la pioggia bagna le membra, il sole scalda lo spirito, il cielo e la notte accompagnano l’avventura. Dove erigere una dimora sicura e confortevole, sostentarsi con ciò che raccoglie e caccia, vivere l’esperienza profonda della simbiosi spontanea. Dove salire sul pendio e gridare all’infinito quanto è bello essere liberi.

Non è poi così difficile. In fondo, se ci pensi bene, per milioni di anni gli esseri umani hanno vissuto da anarchici.

NOTE

*1 Jean Jacques Rousseau, Discorso sull’origine della disuguaglianza”, 1754; Henry David Thoreau, Marietti editore, 2019, scritti nel 1863.

*2 Kurt Vonnegut, parlando del Bokonismo, la religione immaginaria creata nel suo libro Ghiaccio Nove del 1963, riferendosi ad essa, ma con l’intento di estendere il concetto a tutte quelle esistenti, afferma: “tutte le verità che sto per dirvi sono spudorate menzogne”.

*3 Tipo la Comunità delle Regole di Spinale e Manez, disciplinata con legge provinciale 28.10.60 n 12 e Statuto del 1964.

*4 Federico Fellini, La dolce vita, 1960.

Immagine: Goya, il Colosso, 1808