IMPROCRASTINABILE
Si dice improcrastinabile di una cosa che non può essere differita. Va fatta qui e ora, altrimenti il danno sarà talmente grave da non poter rimediare.
Ecco perché sostengo che l’anarchia sia improcrastinabile.
Per salvare sé e il mondo l’uomo non ha alternative a rifiutare la società così detta civile, abbandonare le sue deità ed edificare una realtà completamente nuova. Senza profitto e senza accumulazione, che in mancanza del primo è una guaribile ossessione, può edificare quello stato di natura in cui libertà ed eguaglianza sono pratiche ordinarie e la simbiosi con l’ambiente è principio esistenziale.
Esagero? Non credo visto che ormai stagna in luoghi putridi di vizi, menzogne e malversazioni, dove conduce esistenze talmente tossiche che ogni droga è buona pur di non pensare. Si affanna compulsivamente per soddisfare bisogni inutili e delega il resto a fantomatici esperti che si arricchiscono grazie alle sue nevrosi. Ma, soprattutto, se socializzando si trasforma nel servo fedele di cui il l’ordine ha bisogno per mantenere i privilegi, individualmente è una personalità evitante che interagisce per manipolare, sfruttare, dominare al solo scopo di conseguire un tornaconto personale. E nel tempo si è talmente perfezionato che non ha più bisogno di coartare: gli bastano le buone azioni!
Anche nello stato di natura l’uomo pensa a sé. Ma è un sé per gli altri. Il suo interesse è rivolto alla salvaguardia della vita personale e del gruppo di appartenenza e all’appagamento dei bisogni necessari per i quali basta “soddisfare la propria fame sotto una quercia, dissetarsi al primo ruscello, distendersi sotto lo stesso albero che ha fornito il pasto”1. Nonché alla conservazione, protezione e cooperazione con l’ambiente con il quale individuo e comunità sono talmente amalgamati da creare un unicum di relazioni intime, affettive e di condivisione imprescindibili al benessere collettivo.
In natura infatti non esiste accumulazione se non per assicurare la sopravvivenza. La terra dona in abbondanza. Non c’è proprietà. Non c’è profitto. Le eccedenze sono considerate inutili e se vengono prodotte si pensa a come distribuirle. Ognuno soddisfa le priorità biologiche, fisiche e mentali, e poi si dedica alla condivisione delle attività con gli altri membri del gruppo, al gioco, allo studio, all’ozio, che non è infingardaggine ma quella condizione di quiete fisica e psichica che concilia lo spirito con l’armonia circostante, alla tranquillità mentale, alla contemplazione attraverso cui partecipare al tutto.
Se la società della morte indottrina a non avere alternative affinché il cambiamento sia temuto e la soggezione accettata, il libertario che vive nello stato di natura si abbandona alla mutevolezza delle cose e in essa trova la ragione della propria esistenza.
Negato il profitto, rinuncia alle frivolezze, alle illusioni, ai sacrifici, alle vessazioni che esso impone. Con spontaneità selvaggia possiede la profondità dell’esperienza. Non ha bisogno di artifici che compensino la sua finitezza. Tantomeno ricorre a simbolismi rassicuranti. Ẻ nella spiritualità che conosce se stesso. Grazie alla contemplazione, alla percezione, alla condivisione sensuale, all’identificazione simbiotica, apprende la verità. E la verità è che ogni essere del mondo esiste per consentire la perpetuazione della vita, quella processualità inesauribile in cui perdersi dolcemente.
Un’elevazione intima che non si deve confondere con il fideismo idealistico perché le verità artefatte sono sempre “spudorate menzogne”2. Né ha a che vedere con l’ingenua immaterialità. Ad eccezione delle persone aride, infatti, chiunque possiede il senso del trascendente, cioè la percezione di una volontà o realtà superiore a quella umana. Tutto sta nel concepirla “al di là” di questo mondo oppure, come fa l’anarchico, afferrarla qui e ora attraverso l’esperienza personale. L’azione libertaria è immanente e consiste nell’instaurare relazioni simbiotiche con gli esseri del mondo. Una fusione diretta, vera, concreta. Non deve essere cercata, né deve essere agognata. Ha la dolcezza di un frutto maturo, la freschezza del vento del nord o il conforto di una chioma rigogliosa.
Sia chiaro, però, che tale metamorfosi spirituale non può essere imposta. Così fosse, infatti, si manterrebbero gerarchie che, presto o tardi, riprodurrebbero le distorsioni della società del dominio. Deve essere volontaria. Spontanea. Istintiva come lo spirito di sopravvivenza. La bellezza non è mai riferita, va vissuta personalmente. Solo così scalda il sangue, accappona la pelle e, perché no, commuove.
«Che fai, piangi?»
«Ma no… sono solo felice!»
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Non esistono soluzioni transitorie. Quelle proposte sono palliativi. Se non addirittura leve propagandistiche per arricchire chi sta provocando la catastrofe. La società del dominio è distruzione, nichilismo, alienazione, deumanizzazione e inesorabile estinzione. Non si tratta di come e perché essa avverrà, ma quando. Se l’umanità non vuole dissolversi, deve evolvere. E per evolvere deve abbandonare le fissazioni, gli inganni, le depravazioni, i pregiudizi che la schiavizzano per appropriarsi del sé e condividerlo con le molteplicità. Deve avere il coraggio del nuovo inizio e la fierezza del guerrigliero pronto a morire. Deve abbandonare la società del dominio, rappresentata dalla civilizzazione, e fuggire nella natura selvaggia. Solo in un ambiente incontaminato, privo di interessi materiali che oscurino l’istinto e in cui la volontà possa esprimersi pienamente, riuscirà a creare le infinite connessioni affettive attraverso cui partecipare al tutto. Deve diventare maestoso come un albero, libero come un uccello, empatico come un delfino, cooperante come una formica, appagato come un orso dopo che si è pappato tutto il miele. Deve diventare natura! Come peraltro già sarebbe, se non lo avessero educato che fa più figo atteggiarsi a stronzo egoista.
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Non fosse che in una società che annulla gli istinti, rinunciare ai confortevoli artifici a cui si è assuefatti può sembrare un rischio anche per il più convinto dei libertari.
Per questo in molti di loro continuano ad alzarsi la mattina per andare in fabbrica o in ufficio, consumano beni offerti dal mercato, usano la tecnologia, seguono i cliché sociali, e così via. Un adattamento che è pur sempre accettazione dell’oppressione. E così il ribelle moderato, pur essendo cosciente di sé, al sé rinuncia. Vive la condizione del dissidente, al massimo del disertore, adattandola al contesto in maniera da non subire le conseguenze dell’emarginazione, del disprezzo, della punizione. Di fatto è e sarà un incompiuto. Anche quando intraprende una lotta personale contro il sistema con azioni antagoniste oppure trova affini con i quali costituire comunità volontarie, autogestite, autonome cessando ogni contribuzione al tiranno, se compresso in una realtà corrotta, presto sarà corrotto a sua volta.
Un modello di questo affrancamento si è visto durante la pandemia allorché i governi hanno isolato la popolazione per giustificare le loro terapie criminali. Sono nati spontaneamente gruppi di cittadini che lavoravano, si assistevano, si coordinavano clandestinamente nell’interesse comune in barba alle prescrizioni. E quando è stato imposto l’inoculamento del siero sperimentale, hanno preferito la vita alla morte. Si è trattato di qualcosa di straordinario, cancellato dal ritorno alla normalità. Perché quando all’entusiasmo ribelle non si affiancano progetti di vita condivisi, la fiaccola si spenge e si fa nuovamente buio.
Un altro esempio di separazione dall’ordine costituito è la pratica del collettivismo agrario3 attraverso cui si realizza una concreta armonia fra individui e ambiente. In esso il legame inscindibile con la terra porta ad una gestione autonoma del bene comune in cui ogni famiglia partecipa senza ingerenze alle vicende dell’altra condividendo i medesimi diritti, benefici, doveri, secondo accordi liberamente definiti. Anche in questo caso, però, benché la rottura sia pratica e la complicità sia attiva, ora la soverchiante egemonia monoculturale, ora la mercificazione globalizzata tarpano le potenzialità sovvertitrici rendendo l’alternativa un mero fenomeno locale.
Stessa cosa avverrebbe se la società del dominio accogliesse alcuni principi egualitari. Supponiamo che venga garantito in maniera universale un profitto di base minimo così da rendere il lavoro non più un mezzo di sopravvivenza. Le persone che ne beneficerebbero sarebbero tutt’altro che libere. Dipenderebbero dal Potere e obbedirebbero alla sue imposizioni, quantomeno per riconoscenza. Un po’ come oggi avviene per i dipendenti pubblici, i burocrati, i funzionari, e tutti coloro che collaborano con l’oppressore per non perdere i propri privilegi. Senza considerare che la gerarchia fra chi mantiene e chi è mantenuto istituzionalizzerebbe le differenze sociali cancellando quell’ipocrisia che ogni tanto rende la democrazia più umana della tirannia.
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Se deve essere cambiamento, deve essere personale e deve consistere nell’abbandono radicale dell’ordine costituito. Quando infatti i principi libertari si insinuano in un contesto coercitivo, non è sufficiente difendersi dalle sue manipolazioni, reagire alle sue repressioni o rifiutare le sue perversioni. La sua azione prepotente e soffocante impedirà sempre di “vivere nell’armonia che è nell’opera d’arte riuscita”4.
Ecco perché arriva il momento in cui l’anarchico capisce che operare al suo interno implica esserne complici e decide con chi stare, accettando i rischi dell’insubordinazione. Ẻ allora che abbandona ciò che è stato per diventare un uomo nuovo.
Lo fa fuggendo nello stato di natura, cioè in quella realtà non antropica e autentica in cui la volontà finalmente pura si esalta nell’identificazione con i suoi elementi. Un ambiente appartato e nascosto, scevro da coercizione, superfluità, dovere, in cui abbandonarsi agli umori, agli odori, ai suoni, ai sensi. Dove contemplare e riconciliarsi. Dove la diversità attizzino la creatività istintiva. Dove non vergognarsi delle nudità. Dove sporcarsi di terra. Dove il pensiero sia fantasia suggestiva e non pragmatica sistematicità. Dove condividere l’abbondanza e il tempo libero sentendosi parte del tutto anziché appendice di un meccanismo. Dove la comunione del bisogni e dei desideri escluda padroni, crimini, tributi, divisione del lavoro, quindi disuguaglianza e gerarchie. Dove celebrare il rinnovamento e la fertilità della terra. Dove intenerirsi davanti allo sguardo struggente di un cerbiatto o meravigliarsi ai colori sgargianti di un fiore. Dove la pioggia bagna le membra, il sole scalda lo spirito, il cielo e la notte accompagnano l’avventura. Dove erigere una dimora sicura e confortevole, sostentarsi con ciò che raccoglie e caccia, vivere l’esperienza profonda della simbiosi spontanea. Dove salire sul pendio e gridare all’infinito quanto è bello essere liberi.
Non è poi così difficile. In fondo, se ci pensi bene, per milioni di anni gli esseri umani hanno vissuto da anarchici.
NOTE
*1 Jean Jacques Rousseau, Discorso sull’origine della disuguaglianza”, 1754; Henry David Thoreau, Marietti editore, 2019, scritti nel 1863.
*2 Kurt Vonnegut, parlando del Bokonismo, la religione immaginaria creata nel suo libro Ghiaccio Nove del 1963, riferendosi ad essa, ma con l’intento di estendere il concetto a tutte quelle esistenti, afferma: “tutte le verità che sto per dirvi sono spudorate menzogne”.
*3 Tipo la Comunità delle Regole di Spinale e Manez, disciplinata con legge provinciale 28.10.60 n 12 e Statuto del 1964.
*4 Federico Fellini, La dolce vita, 1960.
Immagine: Goya, il Colosso, 1808