ETA’ DELL’ORO

La famosa filosofa tedesca Lodetta Giustan affermava che la civiltà è l’evoluzione delle dinamiche sociali, politiche, religiose, antropologiche in genere determinate dalle innovazioni tecnologiche. In antitesi a questa concezione teleologica-utilitaristica, culture anche molto diverse fra loro oppongono quella che noi occidentali chiamiamo Età dell’Oro. Consiste in un tempo di prosperità e abbondanza in cui non c’è Dio, Stato, proprietà, leggi, lavoro, commercio, gli uomini vivono armonicamente senza odiarsi, sfruttarsi, competere, guerreggiare, guadagnare, condividendo la ricchezza della natura1. Poi nei vari miti accade sempre qualcosa che fa arrabbiare qualcuno, qualcun’altro comincia a dominare la terra, a guerreggiare con il vicino per appropriarsi della sua, si dà un nume che educhi dall’alto, crea un governo dispotico per mantenere l’ordine, colonizza nuove frontiere e poi la rivoluzione scientifica, l’industrializzazione, fino al progresso tecnologico dei giorni nostri giorni. Insomma, non appena la natura viene sostituita dalla civiltà, gli umani diventano gli stronzi che conosciamo.

E fra chi attende ricominci il ciclo, chi la provvidenziale redenzione, noi empirici registriamo che da quando l’uomo si è separato da essa, vivere non è più una gioia. Vero, prima indossava pelli, dimorava sotto le stelle e rischiava di essere sbranato dalle fiere. Oggi invece la civiltà concede il privilegio di trovare abiti di Versace in ogni outlet, di abitare in confortevoli monolocali con vista ciminiere, di scegliere se crepare investiti da un auto, cadere con l’aereo o di cancro per quello che respiriamo o mangiamo. Ma alla domanda se siamo felici, non sappiamo rispondere. E non lo sappiamo perché non lo siamo. Perché nonostante il progresso elargisca confort a ripetizione, ciascuno sa, e se non lo sa lo sente nel profondo del cuore, di essere una pantomima di se stesso.

La volontà che alberga in ogni essere e agisce attraverso il corpo può esprimersi per ciò che è solo in un ambiente incontaminato che non la inibisca. I non umani lo sanno e sono selvaggi. L’uomo invece, oppresso dalla ragione esaltata dalla civiltà affinché operi in funzione del profitto necessario alla sua perpetuazione, compensa la frustrazione con artifici identitari e ideologie manipolatorie che lo rendono accondiscendente. Per questo le dottrine a servizio del dominio concepiscono lo stato di natura non come una condizione evolutiva, ma come età nefasta e immorale rispetto alla quale legittimare l’ordine esistente. L’esempio più lampante è dato dall’illuminismo, i cui paradigmi fondano e influiscono ancora sulla cultura contemporanea.

Dopo la rivoluzione scientifica e la conseguente meccanizzazione industriale, era indispensabile plasmare la società in funzione del progresso tecnico. Chi deteneva il potere economico aveva bisogno di persone educate all’obbedienza, al lavoro, al consumo, quindi di un Leviatano che le plasmasse. E così i famigerati filosofi della ragione hanno stravolto il significato dello stato di natura, trasformandolo in quel mondo senza regole, caotico e pericoloso che ancora oggi suggestiona le menti degli ignoranti inducendole alla servitù volontaria in cambio di una parvenza di sicurezza. Hanno compiuto, come spesso accade quando occorre legittimare l’arbitrio, un’opera di propaganda che intorpidisse le menti e consentisse ai dominatori di perpetuare i propri privilegi.

Prima Hobbes ha affermato che quando le persone sono troppo libere e troppo uguali realizzano la “guerra di tutti contro tutti” perché “l’uomo è un divoratore di altri uomini”. Al che, per garantire l’ordine, sono costrette a stipulare un accordo in cui rinunciano ai diritti per trasferirli al Leviatano2. Con premesse diverse ma conclusioni affini, Locke ha sostenuto che nello stato di natura l’uomo è libero, eguale, riconosce i diritti innati, rispetta e fa applicare le leggi senza bisogno che qualcuno gli dica cosa fare. Poi però afferma che le persone sono volubili e parziali, per cui è necessario un Principe a cui la comunità deleghi il compito di garantire la certezza della legge3. Su queste due versioni si fonda lo stato di diritto, il sistema giuridico che disciplina la società industriale e che in tempi di tecnocrazia si è fatto più repressivo, si sa mai i robot si ribellino.

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Fortunatamente se ogni epoca ha i suoi manipolatori asserviti, ha anche i suoi eversivi. Rousseau era uno di questi. In barba alla derisione dei colleghi, egli ripristina la dignità dello stato di natura affermando che in esso l’uomo era libero, eguale, nonché buono e solidale. Viveva con semplicità e non aveva ambizioni, ma condividere l’esistenza con il creato lo rendeva felice. Poi un giorno a qualcuno è venuto lo sghiribizzo di recintare un terreno. Ha approfittato degli animali che stavano al suo interno, ha sfruttato gli affini per coltivarlo. E siccome dominare gli piaceva assai, per evitare che altri si appropriassero dei suoi beni, si è inventato il famoso contratto sociale a cui tutti erano vincolati senza aver prestato consenso. E così si è istituzionalizzata la disuguaglianza4.

Il filosofo usa questa ricostruzione per affermare due cose: la prima è che nello stato di natura l’uomo è pacifico, tollerante, collaborativo e rispetta le leggi innate in armonia con gli esseri del creato perché non esistono distorsioni che lo depravino. La seconda è che nel momento in cui qualcuno impone che la tal cosa gli appartiene e nessuno possa disporne, ovverosia quando sacralizza la proprietà, acquisisce un’autorità, cioè una posizione di privilegio, che si trasforma in potere diretto o delegato, cioè la possibilità di imporre cosa fare e cosa non fare, che poi diventa arbitrio, cioè agire nel proprio interesse soggiogando quello altrui.

L’outsider che tutti deridevano, è pertanto il primo pensatore dell’epoca moderna che in maniera laica attribuisce all’accumulazione la causa dei rapporti di forza che fondano la civiltà. Ma ciò che più affascina è che il suo stato di natura sia tutt’altro che una finzione giacché corrisponde alla condizione decritta nelle cronache dei gesuiti in cui vivevano gli indigeni dell’America colonizzati dagli europei. Ormai essi non esistono più perché sono stati sterminati in nome del progresso. Basterebbe però osservare i nativi che ancora abitano le foreste e quelli che vivono l’estremo nord del pianeta per rendersi conto che gli incivili di ogni luogo ed epoca prosperano in pace e serenità finché qualche arrogante non impone i suoi modelli per sfruttare loro e le risorse del loro territorio.

Non è casuale che l’uomo abbia vissuto per millenni in una situazione di anarchia permanente. Come insegna l’antropologia non plagiata dal mercantilismo, finché non esiste la proprietà non c’è domesticazione, competizione, nevrosi, sfruttamento, supremazia, inquinamento, giurisdizione, e quant’altro caratterizzi la predazione civilizzante. L’uomo è nomade, le relazioni prevalentemente amicali. L’economia e i commerci vengono considerati pratiche superflue perché si produce per sé e gli scambi avvengono attraverso il dono. La cooperazione è conservazione e i conflitti rappresentano rituali di perpetuazione. Ciascuno respira e pensa con la natura, gioca e interloquisce con i suoi elementi e grazie a essi si sfama in abbondanza e si cura quando necessario. La profondità dell’esperienza esalta l’individualità attraverso la dissoluzione nell’unità. L’esistenza è sicuramente un rude esercizio di sopravvivenza, ma veder sorgere il sole è una gioia e vederlo tramontare una grazia.

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Ẻ in questo stato di natura che il libertario sente il bisogno di fuggire.

Ẻ come se, ormai esasperato dal mondo che lo circonda, sprofondasse sulla poltrona vecchia a cui è tanto affezionato. Afferrasse un foglio bianco, sopra il quale tirasse una linea verticale. Da una parte scrivesse “stato di natura”, dall’altra “civiltà”. Sotto la prima aggiungesse: pace, armonia, libertà, eguaglianza, solidarietà reciprocità, abbondanza, simbiosi, spiritualità, felicità… Sotto la seconda: guerre, sopraffazione, ingiustizia, distruzione, mercificazione, violenza, industria, globalizzazione, inquinamento, morte…

Sospira senza proferire parola. E comunque cosa potrebbe dire di fronte all’evidenza? Sa solo di non voler più fingere. Vuole essere uomo!

Rifiuta la sopraffazione, l’oppressione, il dominio, la distruzione che lo nutre. Vuole gentilezza, condivisione e fratellanza. Vuole godere dei diritti innati e desidera che anche gli altri essere viventi facciano altrettanto. Vuole abbandonarsi alla spontaneità irrefrenabile. Vuole esprimere gli istinti, le passioni, le pulsioni nella sua forma più impetuosa. Vuole creare relazioni con le molteplicità attraverso cui conoscere se stesso e partecipare alla processualità del tutto. Vuole essere selvaggio che si nutre di armonia, con la quale interagire adattandosi alle sue continue trasformazioni.

Straccia il foglio. La decisione è presa. Qui e ora altrimenti sarà la catastrofe. Se non quella del pianeta, la sua.

Dopo la botta d’adrenalina, lo coglie però la tristezza.

Da solo non potrà mai cambiare le cose ed è più facile finisca il mondo piuttosto che le persone si ribellino al dominatore. L’esperienza gli ha insegnato che se anche facesse saltare in aria infrastrutture, non lavorasse e non producesse, smettesse di consumare, togliesse i soldi di banca, rubasse ai ricchi per dare ai poveri, eccetera, verrebbe il momento in cui un suo gesto, un banalissimo gesto, lo ricondurrebbe all’obbedienza.

Decide quindi di fuggire. Disertare e scappare dove non può essere trovato e dove può costruire la propria realtà.

Con nonchalance calza le scarpe, indossa la giacchetta e il cappellino. Sistema la sciarpa davanti allo specchio. «Cara vuoi venire con me?» chiede alla moglie. «Andiamo all’Ikea?» lei gli risponde. Senza replicare apre la porta dell’altra camera: «Ragazzi volete venire con me?» chiede ai figli. «Andiamo al centro commerciale?» Non la chiude nemmeno. Al cane basta uno sguardo per balzare sugli attenti. Gli carezza le orecchie e insieme escono di casa.

Cammina, cammina e cammina. Attraversa le campagne coltivate. Raggiunge la collina. Comincia a salire finché non trova un bosco. L’aria si è fatta più fresca. Il sole balugina fra le frasche. Ẻ tutto un gracidio, un fruscio, un cinguettio misterioso ma eccitante. Continua a camminare finché non si perde. In un’altra occasione si sarebbe spaventato, ora invece gli sembra piacevole non sapere da dove è venuto e come tornarci.

Ẻ quasi sera e deve trovare un riparo dove riposare perché il giorno seguente comincerà a edificare la propria esistenza in quel luogo incontaminato. Il fuoco lo riscalda, le stelle lo accompagnano e quel precotto di stramonio diluisce i pensieri, esalta i sensi, lo trasforma nelle molteplicità.

Mai era stato così libero!

L’indomani non avrà bisogno di produrre né coltivare. Niente divisione del lavoro, organizzazione gerarchica, prevaricazione. Potrà esprimersi senza conflitti e non avrà bisogno di sanare la finitudine con surrogati di felicità. Animali e piante sprizzano vitalità e l’aria è un turbinio di profumi, colori, sapori. Una molteplicità da far girare la testa. Gli è bastato incrociare uno scoiattolo, osservare una famiglia di cinghiali, sollevare lo sguardo e veder sorridere le chiome per capire che la natura provvederà a nutrirlo, a fornirgli un tetto sotto cui dormire, ad assicurargli le necessità essenziali, a condurlo nell’esperienza per essere esperienza a sua volta. Magari un giorno incontrerà un fuggitivo come lui e il giorno dopo un altro ancora e così via e insieme creeranno una comunità di umani e non umani che coesisteranno senza sopraffazione, senza obbedienza, senza umiliazione, senza violenza, ma ciascuno libero di essere se stesso insieme ad altri che lo sono già.

Chiunque voglia aggregarsi sarà il ben venuto. Si presenti però con l’umiltà della comparsa, che a renderlo attore ci pensa il creato!

Per chi è più timoroso, incerto, vile e preferisce la sicurezza dell’asservimento ai rischi della libertà, invece, non rimane che alzarsi con un lamentoso «ohioi!» dalla poltrona in cui è sprofondato, ciondolare verso la finestra, scostare la tenda e guardare il cielo. Attraversare gli strati dell’atmosfera, volare fino allo spazio interstellare e oltre i confini della galassia, perdersi nel vuoto intergalattico canticchiando: “extraterrestre portami via, voglio una stella che sia tutta mia. Extraterrestre vienimi a pigliare, voglio un pianeta su cui ricominciare…”5.

NOTE

*1 Mito descritto da Esiodo in Le Opere e i Giorni, e ripreso da numerosi autori classici come Ovidio, Metamorfosi.

*2 Hobbes, Leviatano, 1651.

*3 Locke, Trattati sul governo, 1690.

*4 J. J. Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra uomini, 1755.

*5 Eugenio Finardi, Extraterrestre, 1978.

Immagine: Jacob Hoefnagel, Orfeo incanta gli animali, 1613