VIOLENTO SARAI TU!

Siamo materia e materia torneremo, una volta qualcuno ha detto. Ma siamo anche coscienza in quanto dentro di noi scorre un soffio vitale che ci rende consapevoli della presenza nel mondo. Una consapevolezza che, in barba all’antropocentrismo utilitaristico, appartiene sia agli umani che ai non umani, agli esseri animati e ai non animati, come sanno coloro che posseggono la capacità di connettersi con la natura. E come la scienza smentisce per continuare a depredarla impunemente.

Materia e soffio vitale si plasmano nei corpi dando vita alla sostanza: il sé. Sé cosciente. Sé agente. La volontà. Infinite seità identiche nella reciproca differenza, che si armonizzano interagendo per partecipare al tutto. Questo equilibrio delle molteplicità è l’armonia naturale.

Che non significa che le specie vivono in pace e amore, benché quando il leone sente l’odore della gazzella, la ama così tanto che la mangerebbe. Significa, invece, che la vita è un incessante simbiosi in cui ogni entità dipende dalle altre e, a sua volta, agisce su di loro realizzando insieme il divenire universale. Ecco perché la cooperazione, non il dominio, consente la sopravvivenza e l’evoluzione. Così è per tutti gli esseri viventi e così sarebbe per l’uomo se si donasse alla natura.

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Ma per donarsi alla natura bisogna essere puri. Superare l’inquietudine della finitudine non con artifici che creano disarmonia, ma abbandonandosi alla casualità che caratterizza il divenire. Invece, l’uomo desidera la luna come l’imperatore Caligola1 e ora si inventa la morale per sfruttare il senso di colpa, ora crea il governo per sottomettere i sudditi, ora escogita un rango per asservire l’inferiore, ora assoggetta l’ambiente. Sempre domina per sedurre l’eternità. In fondo aveva ragione Demostene in quella che è forse la sua citazione più famosa: nulla è più facile che illudersi, perché ciò che ogni uomo desidera, crede anche che sia vero.

Se però nelle relazioni con il prossimo l’arroganza può essere sufficiente per obliare la precarietà, con la natura non funziona. Pur addomesticandola, avvelenandola, distruggendola, essa dimostra sempre la propria superiorità, consolidando l’inferiorità antropica. E non intendo soltanto le impressionanti manifestazioni di forza di cui continuamente dà sfoggio, che l’uomo definisce calamità perché lo umiliano. Basta infatti osservare l’erbetta che cresce fra le crepe dell’asfalto per comprendere quanto la sua potenza vitale sia manifestazione incontrovertibile di supremazia. E di fronte a tanta maestosità il superbo soffre e si vendica. Se Lucifero, carico di risentimento e rabbia perché cacciato dal regno dei cieli a causa della sua protervia, promette dolore e sofferenza, l’umano distrugge, brutalizza, minaccia con inesorabile fervore quel regno naturare da cui ormai è escluso. A nulla vale la lacrima che nascondono dietro il braccio per ciò che poteva essere e forse non sarà mai2.

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Ovviamente non tutte le persone hanno il coraggio dell’insolente rivalsa, La maggior parte si limita a non capacitarsi del motivo per cui se il lupo mangia l’agnello o l’edera parassita asfissia gli alberi, il più evoluto del pianeta non possa distruggerlo.  

Sia chiaro, la violenza è un fenomeno naturale, l’uomo è solo il più malvagio a realizzarla. Quella praticata dai non umani infatti non soddisfa alcuna bizzarria poiché è funzionale alla sopravvivenza. Il predatore vuole sostentarsi e i maschi si scontrano per copulare o per il territorio. Quando gli animali non hanno fame, non cacciano. Se non devono accoppiarsi non si azzuffano. Solo se intimoriti aggrediscono. Stessa cosa vale nel mondo vegetale: il punteruolo rosso, ad esempio, non attacca le palme perché lo infastidisce il ciuffo di foglie che orna la cima della pianta, ma perché è un parassita che di essa si nutre.

Che si tratti di cibarsi, riprodursi o semplicemente reagire a un pericolo, in natura la violenza perpetua la volontà. Al contrario, l’uomo la perpetra per soddisfare i capricci. In fondo rispetto ai mammiferi, ai primati, agli uccelli, agli anfibi eccetera è un bambinone che ha solo quattro milioni di anni!

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La differenza fra il non umano e l’umano non è quindi l’intelligenza, ma la violenza. Questi è infatti l’unico essere che la pratica anche se non è necessaria.

Quando l’uomo freccia un cinghiale, il suo atto è dominante, ma consente la conservazione propria o del gruppo di appartenenza. Così come se uccide il felino che sta per attaccarlo. In entrambi i casi essa è tollerata dalla natura. La vita dell’uno vale l’altra e vinca il migliore. Quando invece  si barda come un marine per esporre un trofeo sulla parete oppure ricorre agli allevamenti di massa o all’agricoltura intensiva per soddisfare il mercato, quando tortura gli animali per i sadici esperimenti scientifici oppure devasta e inquina l’ambiente, nega l’alterità e danneggia l’armonia universale.

In natura infatti ogni organismo è volontà agente e le infinite volontà si connettono continuamente per condividere il divenire. Nel momento in cui questa dinamica viene pregiudicata o interrotta seguono alterazioni che inibiscono o negano la possibilità del singolo di realizzarsi in esso. Cionondimeno l’uomo devasta, distrugge, stermina senza pietà. E lo fa in nome del profitto, la più efficace trappola mentale che definisce la moralità delle condotte in base ai benefici che ne derivano.

Pensa a qualunque nefandezza compiuta e vedrai che quello è sempre la causa. Profitto che genera accumulazione. Accumulazione che produce autorità. Autorità che diventa potere e ineluttabilmente delirio di onnipotenza che si manifesta in arbitrio. L’industrializzazione, la scienza, la tecnologia, la civilizzazione in generale, altro non sono che metodi violenti per acquisire potere, in cui un manipolo di delinquenti genera privilegi esclusivi approfittando della remissività della massa, illusa che basti essere complici per poterlo conseguire.

Gli animali e le piante accumulano per necessità, non per il piacere di essere più autorevoli, e ogni entità sta bene quando, soddisfatti i bisogni primari, gode di ciò che la natura offre. L’uomo no, non si accontenta. Come Odisseo ha bisogno di esplorare nuovi mondi. Non importa se la sua ciurma viene divorata da Polifemo, trasformata in maiali dalla maga Circe o impazzisce al canto delle sirene. Il lieto fine è il ritorno a Itaca, la materialità che sana l’irrequietezza che lo perseguita.

Di fatto l’umano è vittima di un autoinganno dove tutti sono manipolati e manipolatori. Una massa di pericolosi psicopatici! Ma la cura esiste ed è la vita selvatica, attraverso cui realizzare se stessi nell’armonia universale. Tornare a quell’Eden che i folli rinnegano, dove l’identità delle sostanza è eterna felicità.

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La civiltà è come un banchetto dove chi prima arriva spera di prendere il cosciotto più grosso, ma tutti seguono le regole del padrone di casa che ha già il piatto pieno.

Nascosto dietro le tende, protetto dall’ombra, c’è l’anarchico. Non gozzoviglia al tavolo dei signori. Disprezza la loro falsa magnanimità. Sa che la loro opulenza è immorale e compiacerli significa essere correi delle loro nefandezze. Non ha bisogno di ingozzarsi, stordirsi, sorridere, ammiccare, sottomettersi per illudersi di essere felice. Semplicemente lo è perché possiede già tutto. Per questo se ne sta lì, in attesa del momento giusto per rovesciare i vassoi.

Certo, poi deve scappare per evitare la ritorsione e non sarà libero finché non costruirà la propria realtà indipendente. Ma potrà sempre trovare rifugio nelle comunità clandestine che disertano l’imperio dell’oppressore, attraverso cui eroderlo lentamente e collaborare con le altre per disgregarlo definitivamente. Oppure potrà fuggire e creare realtà affrancate dalle perversioni del profitto, aliene agli echi della socializzazione conformista, nascoste dalla morsa delle molteplici articolazioni del dominio, dove la spontaneità è scelta incondizionata, la fratellanza è benessere condiviso, la pluralità è esaltazione dell’individualità, la cooperazione è complicità creativa e la partecipazione alla natura è una festa.

E non avrà bisogno di violenza, a meno che non assuma le forme della rivolta contro un atto ingiusto, cioè contro natura, perché l’armonia sarà il suo nutrimento e la pluralità il riflesso della propria essenza. Tantomeno porterà rancore verso chi rifiuta tale bellezza. Avrà compassione del servo e un affettuoso disprezzo del suo soverchiatore, ormai ricordi di una brutta esperienza. Nelle narrazioni intorno al fuoco l’uno è il poveretto che si illude di realizzare le proprie potenzialità dimostrando di essere lo schiavo migliore, l’altro la metafora del frutto marcio che prima o poi cade diventando cibo per vermi.

Che la violenza rimanga ai civilizzati. E si scannino fra loro!

NOTE

*1 Albert Camus, Caligola, opera teatrale del 1939.

*2 Alexandre Cabanel, L’angelo caduto, 1868.

Immagine: Alexadre Cabanel, L’angelo caduto, 1868

 

LAVORO? NO, GRAZIE

C’è un momento della vita in cui si diventa adulti. Non è il primo pelo sotto le ascelle o il primo bacetto con la lingua, né la prima volta che si schianta l’auto del babbo col foglio rosa. Ẻ quando cessano gli obblighi scolastici e si entra nel mondo del lavoro. Ẻ lì che colui che fino al giorno prima era un ragazzo, improvvisamente diventa uomo e… e finalmente può essere sfruttato dal sistema.

Il lavoro è la ripetizione di una determinata prestazione manuale o intellettuale per un tempo indefinito. Ogni giorno il netturbino svuota la campana di vetro alle cinque di mattina. Il medico prescrive ricette ai pazienti perché non ritornino. L’avvocato smista caffè per difendere il cliente, il magistrato li beve, ma quello del pubblico ministero è sempre più buono. L’impiegato perfeziona le tecniche di origami. L’operaio osserva il passaggio della trama ricordando malinconicamente le dita perse. E così via. Se alla routine narcotizzante aggiungiamo che è una costrizione in quanto la società del dominio non offre alternative per sopravvivere e che è sempre disciplinato da altri, siano essi il padrone, il capo o i clienti, davvero pochi sono i fortunati che vanno a lavorare senza sperare che l’autobus non sfondi il guard rail.  

Certo, una soluzione ci sarebbe, pure abbastanza anticonformista: darsi al crimine. Ma oggi con tutta questa tecnologia è un casino anche delinquere!

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Di fatto lavorare è una pratica immorale e innaturale. Immorale perché implica essere sfruttati e sfruttare, perché la vita non può consistere nell’arricchire altri o nella rincorsa delirante alla materialità, perché in epoca di industrializzazione provoca direttamente o indirettamente danni ambientali. Senza considerare che il lavoro, qualunque esso sia e comunque venga svolto, sottrae tempo ed energie che altrimenti potrebbero essere destinati allo svolgimento di attività piacevoli, agli affetti, alla contemplazione della natura, al gioco e all’amore. E poiché viene svolto tutti i giorni, tutti gli anni finché si è troppo vecchi per godere l’esistenza, se non si ha rispetto per se stessi, non si può averlo degli altri.

Ẻ invece innaturale perché nonostante l’umano faccia lo sborone, è uno dei tanti organismi del creato. Dove non esiste subordinazione e il sacrificio e l’impegno sono funzionali alla vita, non alla superfluità che la nega. I non umani predano per nutrirsi, lottano per la sopravvivenza, cooperano per difendersi ed evolvere, dopo di che si esaltano abbandonandosi all’armonia che li circonda. Al contrario l’uomo, benché si narri di un tempo in cui giocare con i fratelli animali e interagire con le amiche piante lo esaltasse, crea finzioni malefiche perché incapace di cogliere la bellezza circostante. Difficile provare se tale deficienza logico-emotiva sia dovuta a un difetto congenito o se durante l’evoluzione abbia subito un trauma che lo ha traviato. Di certo le sue aspirazioni e le sue condotte non hanno niente a che vedere con la bellezza di questo mondo. Sarà mica che l’estinzione del Cretaceo, anziché da un asteroide, è stata provocata dallo schianto di una navicella spaziale occupata da questa specie malvagia?

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Se lavorare è immorale e innaturale, allora perché si lavora?

Come sempre quando mi pongo queste domande, anziché cercare nei libri, interrogo le persone. Diversamente da Socrate, però, attraverso il dialogo non aiuto il mio interlocutore a “partorire la verità”1 in maniera spontanea. Mi limito ad ascoltare. Spesso trattenendo la risata.

Finito l’esperimento, le risposte più gettonate sono state le seguenti:

   A-Medaglia di legno a: “il lavoro permette di realizzare le proprie potenzialità”.

Ovverosia, siccome l’uomo possiede capacità che altrimenti non saprebbe utilizzare, le riversa nella sola attività che, volente o nolente, è costretto a compiere. Alienati.

   B-Al terzo posto si piazza: “gli uomini hanno bisogno di uno scopo”.

Si tratta di individui privi di interessi e consapevolezza di sé, che per pigrizia, timore, indolenza, si rifugiano nell’obbedienza. Sono come gli agorafobici che si nascondono nella gabbia domestica. Patologici.

   C-Sul secondo gradino del podio si piazza: “si lavora per il bene della società”.

I sostenitori di questa teoria asseriscono che se nessuno lavorasse, sarebbe il caos perché scemerebbe la coesione, la condivisione dell’interesse pubblico e la partecipazione alla stessa organizzazione sociale. Non ci sarebbe sviluppo e progresso e, ecco l’inevitabile chiusura apocalittica: «Sarebbe l’anarchia!». «Tipo quella dei vostri neuroni?» avrei tanto voluto replicare.

Il lavoro è pertanto un dovere. E come tutti i doveri, va adempiuto. Chissà perché però essi vengono sempre stabiliti da chi pretende che altri li assolvano!

Quando l’umanità estinguerà il debito morale con l’autorità e ciascuno potrà decidere per se stesso, l’interazione non sarà coercitiva ma partecipativa. E il lavoro un malinconico ricordo di chi dovrà trovare un nuovo modo per sfruttare il prossimo. Integralisti.

   D-The winner is: “si lavora per soldi”.

Il lavoro è un mezzo, il denaro un fine. Fine che serve per realizzare il benessere personale. Ma il benessere è il soddisfacimento dei bisogni, che possono essere primari o secondari. E quando ho domandato a quali si riferissero, le risposte sono state nell’ordine: spese domestiche, tecnologia, mezzi di trasporto, viaggi e via discorrendo. «E il mangiare?» Ho chiesto. «Quello ce lo consegna a casa il pachistano!» hanno risposto. Pragmatici.

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Dall’esperimento risulta pertanto che il lavoro viene percepito sia come uno strumento di sviluppo personale, poiché accresce l’autostima intorpidita dai vincoli collettivi o svilita dall’inettitudine, sia sociale, in quanto non conviene rimanere ai margini dei processi di potere.

Nessuno degli intervistati invece ha fatto riferimento alle necessità essenziali. Eppure fra loro erano presenti soggetti non abbienti. Perché? Ci sono tre tipi di povertà: quella imprevista e provocata da fenomeni naturali, come la siccità, o casuale, tipo la carestia; quella indotta dal colonizzatore che sfrutta manodopera e risorse del suolo occupato, vedi il terzo mondo; quella dei paesi colonizzanti, che si manifesta quando non vengono soddisfatti gli standard definiti da chi mantiene e accresce i propri privilegi. In questo contesto, i bisogni primari e quelli secondari diventano un tutt’uno per cui il pasto non può essere frugale ma luculliano, la scarpa non è sufficiente calzi bene ma deve essere firmata, la vacanza non è il salutare ozio ma fare zumba in un resort sperduto chissà dove. E così via. Chi può permettersi di uniformarsi a questi modelli imposti dal mercato è in, chi no è out perché non contribuisce al suo sviluppo. Certo, in un sistema così fluido ogni tanto qualcuno scala i processi di potere, ma in cambio di quanti altri che invece li discendono?

Quindi che fare?

Supponiamo che Tizio sia stato licenziato. Siccome ha cinquant’anni non riesce a trovare un altro impiego. Presto la sua vita da modesta diventa squallida perché nella società civilizzata non si fa niente senza pagare e non si paga se non si lavora. Arrivato il giorno in cui non può comprarsi da mangiare, divorato dalla fame ruba un grappolo di banane al fruttivendolo. Questi lo vede, chiama le forze dell’ordine e lo arrestano. Ripresosi dalla degenza in ospedale, finisce in prigione. Se invece il nostro amico scegliesse di vivere in un ambiente de-civilizzato in cui il profitto non è indispensabile per la sopravvivenza, potrebbe cogliere dall’albero il grappolo di banane oppure il vicino potrebbe donargliene una cassa. Nello stato di natura, unica alternativa possibile alla società del dominio in quanto le soluzioni intermedie presentano sempre forme di potere, non solo si ha coscienza dei bisogni primari perché il sé non è contraffatto dalla artificiosità, ma i modi per soddisfarli sono infiniti. Più difficile assolvere quelli artificiali, dato che non esistono.

Per cambiare bisogna però avere il coraggio di abiurare la civiltà e la creatività per realizzare la propria personalità. Uno slancio che richiede di ignorare la propaganda, rinunciare al superfluo e alla sofisticazione e, soprattutto, abbandonare lo staus quo per crearne uno nuovo. Cosa di fatto impossibile per la maggior parte delle persone. Perché se il capitalismo ha un merito è quello di aver perfezionato tecniche di ingegneria sociale che hanno aggraziato il giogo. Un tempo il lavoratore era costretto a obbedire pena la frusta. In democrazia invece ciascuno può scegliere se essere deriso, disprezzato, isolato finché qualche teppistello gli dà fuoco, oppure socializzarsi producendo e consumando nell’interesse suo e della collettività. Chi partecipa è un bravo cittadino, chi non lavora è un debosciato, un fancazzista, un nullafacente, un accidioso, un sociopatico che non è degno di beneficiare dello straordinario privilegio offertogli dalla civiltà di essere servo di se stesso. E poiché a nessuno piace sentirsi un reietto, visto peraltro che la schiavitù dei bisogni almeno dà un senso alla vita, il lavoro diventa cardine su cui si fonda la società del dominio e strumento di controllo sociale.

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Il progresso è irreversibile e gli illusi che provano a cambiarlo al suo interno o vengono assorbiti diventando complici a loro volta, tipo i vari movimenti antagonisti che la politica ha annichilito, o producono effetti più dannosi della causa, vedi le politiche ambientaliste che ipocritamente fanno gli interessi del capitale. Una volta intrappolati nella sua rete, è come se le persone accettassero l’inevitabile sorte con gaudiosa rassegnazione.

Poi ci sono i ribelli che si oppongono al sopruso. Scioperano, boicottano, sabotano, manifestano per sostituire il regime con un altro. Perché se anche fossero concessi maggiori diritti, in un sistema servile sarebbero sempre servi di qualcuno. La disuguaglianza è infatti endemica alla società del dominio in quanto il progresso ha bisogno che l’individuo sia egoista, indifferente, competitivo, prevaricatore. L’unica possibilità di affrancamento è non farne parte. Negare i suoi principi, le dinamiche, le manifestazioni e fuggire dalle sue grinfie. Nonostante i tentativi, molti rimangono nella rete. Ogni tanto però qualcuno riesce a liberarsi e costruire realtà volontarie, senza profitto, biosimbiotiche e autarchiche.

Volontarietà significa che ciascuno è libero di scegliere cosa fare, con chi stare, come determinarsi. Non è assenza di ordine, ma possibilità di definirlo personalmente. Chi rifiuta la civiltà, desidera vivere nella natura selvaggia. Deve quindi appropriarsi di un luogo incontaminato dove poter essere se stesso. E poiché gli Stati hanno ormai occupato ogni spazio disponibile, deve difenderlo a ogni costo. Quando poi la violenza dei mastini diventa intollerabile, ne trova un altro. Libertà è anche la soddisfazione di eludere l’arroganza del tiranno.

Assenza di profitto significa invece sovvertire l’ideale civilizzante per cui ogni condotta sia funzionale a interessi artificiali, il primo dei quali è il denaro. Finché scopo dell’azione è l’utile, la volontà è contaminata. Quando invece si concede genuinamente all’armonia è libera. Libera di fondersi con l’ambiente per identificarsi nella cosa in sé. Questa è la biosimbiosi attraverso cui l’individuo raggiungere la felicità.

Infine l’autarchia, ovverosia l’autosufficienza data dall’unione con l’ecosistema, fondamentale affinché non si crei un’autogestione di tipo mercantile. Nello stato di natura ciò che la terra produce è sufficiente al soddisfacimento dei bisogni materiali e spirituali. L’uomo accetta i suoi doni e se indispensabile, produce senza modificare e poi divide le rimanenze. E così raccoglie, caccia, pesca, edifica, si difende e lavora non perché qualcuno gliel’ha imposto ma perché condivide le regole e gli obiettivi della comunità a cui appartiene. Che non è solo il gruppo di persone con cui spartisce il territorio, ma l’intera biocenosi.

In questa meravigliosa epifania non si è condannati a far salire il macigno sul monte per vederlo cadere a pochi passi dalla cima, così da godere della fatica di ricominciare2. Il lavoro è solo un passatempo qualsiasi. In fondo, hai mai visto uno scimpanzé che timbra il cartellino? Un faggio che consegna le pizze o un acero che costruisce grattacieli? Anche le formiche non seguono mica le scie dei feromoni lasciate dalle compagne perché sono laboriose come vogliono farci credere, ma perché non vedono l’ora di uscire dal nido e godersi l’aria fresca!

NOTE

*1 Platone, Teeteto.

*2 Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, 1942.

Immagine: Antonio Cifronti, Il ciabattino, 1720.

LA GRANDE BELLEZZA

Parlare di bellezza è difficile perché non esiste una definizione assoluta. E non esiste in quanto ognuno ha la presunzione di avere la propria. A ragione, peraltro. Perché quando mi emoziono innanzi a un’immagine, una melodia o un ricordo struggente, quell’esplosione di sentimenti è mia, solo mia, ed è una delle poche cose che posticipa il proposito di farla finita.

Tutti credono di conoscere il significato, ad esempio, di parole come libertà o eguaglianza, ma quando chiedi loro di applicarle scoppiano le guerre! Questo perché certi concetti oltre che astratti in quanto non conoscibili attraverso la realtà, o meglio, apofatici rispetto ad essa, sono anche iperonimi, cioè comprendono più significati. Quello di bellezza non è da meno e come sempre in queste circostanze meglio affidarsi all’empirica. L’esperienza personale può sembrare un parametro banale, ma cosa non lo è in una realtà peritura?

Primo caso. Osservo il Gruppo del Sassolungo e mi emoziono. Qui è semplice: la maestosità delle Dolomiti sprigiona l’immensa potenza della natura innanzi alla quale anche l’animo più arido percepisce la propria finitezza.

Secondo caso. Quando guardo C’era una Volta in America la storia irrisolta di Noodles e dei suoi compagni commuove sempre. Il motivo è evidente: “i veri paradisi sono i paradisi che si sono perduti” diceva quel mattacchione di Proust riferendosi alla nostalgia di ciò che è stato, poteva essere e non sarà più.

Terzo caso. Ascolto una musica di Chopin e la sua capacità di cogliere le venature degli stati d’animo tocca l’anima. Facile anche questa: era semplicemente un genio e come tutti i geni aveva dimestichezza con la cosa in sé.

Potrei proseguire ma ogni ulteriore esempio confermerebbe che la bellezza è un ménage a trois: l’attore interagisce con l’oggetto, quando improvvisamente appare l’emozione che si diverte col primo. Primo che apprezza assai consapevole che quel momento di autenticità sia precluso dall’ordinario, dove la realtà si impone e annienta la personalità asservendola alla morale e alla funzionalità socializzante.

Si può pertanto definire bellezza ciò che consente alla volontà di percepire l’infinito a cui appartiene e di provare al contempo un senso di languido spaesamento dovuto al desiderio, quasi un bisogno, di congiungersi a esso. Ẻ l’attimo precedente l’estasi dell’unione, che può compiersi esaltando la volontà oppure svanire immalinconendola. Detto diversamente, è la qualità che il soggetto coglie nell’oggetto grazie alla quale la propria identità può fondersi con esso acquisendo coscienza del sé quale parte del tutto in divenire. Una rivelazione potente che esplode nell’emozione, l’espressione più sincera della soggettività.

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Ogni entità è volontà che reagisce agli stimoli interni ed esterni in maniera fisiologica e cognitiva. Un animale gioisce, soffre, gode consapevolmente esattamente come l’umano. Idem le piante, benché la scienza lo neghi perché la ragione non comprende il sensibile. Quanto agli oggetti inanimati, vero che sembrano morti, sapessi però quanto calore c’è sotto la loro scorza dura! La realtà è quindi costituita da infinite volontà interagenti, ognuna diversa dall’altra. E siccome il processo simbiotico è soggettivo, non può essere uniformato né concettualmente né concretamente. Di sicuro però vale il principio dell’hic et nunc: occorre che il referente sia un determinato oggetto, quello e non un altro; occorre che nel momento in cui il soggetto si relaziona ad esso, la volontà sia sensibile alle sue qualità.

Ẻ evidente che il mare da Capoliveri non è come la pozza che si forma intorno al tombino quando piove. Quindi è indubbio che alcune cose siano oggettivamente più belle di altre. Se però quando osservo il panorama non sono ispirato o sono distratto, mi lascia indifferente. Così come può lasciare indifferente chi non possiede la capacità o non riesce a coglierne la maestosità. Ecco perché la bellezza, oltre ad essere provocata, è casuale, istantanea e sempre personale.

Difficile capire se sia una virtù dell’oggetto a cui l’attore si abbandona, oppure se sia “negli occhi di chi guarda”, come diceva mia nonna. Ẻ la storia dell’uovo e della gallina. Chi è nato prima? Ancora una volta al dubbio soccorre l’esperienza: se per me è bello, anzi è un capolavoro, Il deserto dei Tartari di Buzzati, per mio nipote è un testo noioso perché non ci sono sparatorie o sesso sadomaso. Sono giovani, che ci vuoi fare! Se per me è bello il film Schindler’s List, qualcun altro invece lo detesta perché brucerebbe gli ebrei, oppure lo ama perché si indentifica in Amon Goth. Sono razzisti. Vorresti, ma mica li puoi eliminare! Indipendentemente dalle caratteristiche di ciò che provoca il turbamento quindi, se l’agente non possiede l’attitudine, se non percepisce la sostanza, se la volontà non si indentifica nella sua essenza, non c’è emozione, non c’è bellezza.

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Nonostante queste ovvietà, l’estetica, quella dottrina che studia il fenomeno artistico, si è spesso concentrata sul referente definendo una serie di criteri variabili nel tempo e nel luogo attraverso cui assolutizzarla in maniera da non subire l’ingannevole sensibilità dell’osservatore. Superando il gusto autoreferenziale l’oggettivizzazione prende peraltro due piccioni con una fava: da un lato l’individuo non si autodetermina ma si affida a chi gli dice cosa e come pensare e per cosa e come emozionarsi, quindi lo controlla. Dall’altra si crea una pletora di esperti che non basterebbero i campi di pomodori del meridione per farli lavorare tutti.

Per questi professionisti del concetto un corpo, un’azione, un’immagine è bella quando si conforma a parametri definiti. E così la condotta deve uniformarsi a principi morali condivisi, vedi chi salva il suicida afferrandolo alla sprovvista perché togliersi la vita è considerato moralmente riprovevole -Capitasse a me lo denuncerei per violenza privata!-; l’opera pittorica deve possedere armonia, simmetria, prospettiva, il giusto chiaroscuro, eccetera; quella musicale deve considerare la frequenza, il ritmo, la metrica, la sinergia fra voce e andamento e così via; quella cinematografica deve rispettare canoni fotografici, narrativi, interpretativi, registici e bla bla bla. In questo modo il bello non è più una miccia sensuale che rischia di deflagrare nelle mani dell’inetto, ma viene ingabbiato nel giudizio, assimilato a un calcolo matematico, adattato a uno schema prefissato affinché gli impulsi siano prevedibili.  

Eppure mi innamoro di una ragazza non perché ne ho misurato la simmetria degli zigomi, sezionato le labbra o soppesato le dimensioni delle poppe. Non credo comunque avrebbe molto appeal approcciarla con il metro da sarto o la bilancia! Mi innamoro perché guardandola negli occhi il pensiero svanisce, la fantasia si inebria di immagini e sensazioni vivaci e la mia volontà si scioglie nella sua. Il mio non è un giudizio, ma un sentimento spontaneo e irrazionale. Quello stesso che a volte mi fa commuovere, trepidare, eccitare.

La ragione non potrà mai conoscere il bello perché è sempre contaminata. Anche quando si vanta di essere disinteressata, è interessata a dimostrare la propria integrità. Predefinirlo significa manipolare l’individualità subordinandola a criteri mutevoli. Al massimo può interpretarlo o rappresentarlo. Al contrario invece l’istinto è quella attitudine che consente di cogliere le sfaccettature del mondo trasformandole in propellente della volontà. Certo, anche i sensi possono essere educati. Se vivo in un contesto che esalta l’armonia delle forme, probabilmente sarò propenso a preferire Leonardo a Kandinskij. Però il primo lo giudico in base alle sensazioni artefatte stimolate dalla ragione, nel secondo mi immergo e frullo fra i suoi elementi come una pallina nel flipper. Dove sarò più felice?

Per mediare fra queste posizioni antinomiche la cultura mercificante fa leva sulla maggioranza. Se opinione comune dice che la Gioconda è bella, deve essere bella per tutti. A parte che quel ritratto mi è sempre stato antipatico perché la tipa sembra tirarsela un po’ troppo, il conformismo favorisce le vendite ma porta alla mediocrità. La società civilizzata che su esso si fonda è la prova dell’annichilimento umano e la sua fiducia nel progresso è impegno a ad annullare i pochi sprazzi di genuinità rimasti. E non potrebbe essere altrimenti quando si impedisce all’essere di manifestarsi per quello che è. Limitare le potenzialità della volontà significa uccidere l’individualità. La ragione non accede al bello, ma lo distrugge. Diversamente, la volontà pura può coglierlo perché è desiderio di vita pulsante che si manifesta attraverso l’istinto.

Non la devi immaginare come uno spiritello che guida il corpo, giacché è impercettibile e indefinibile. Ẻ in tutti gli organismi e nell’unità costituita dai medesimi. Ẻ impulso primigenio di conservazione e perpetuazione insito in ogni entità. Il suo unico scopo è fondersi nel tutto, la cosa in sé, a cui appartiene ontologicamente, quella processualità in divenire delle molteplicità a cui si unisce sviluppando connessioni simbiotiche con l’alterità.

Generalmente questo processo si compie attraverso l’interazione fra organismi. Ma può avvenire anche quando la singola volontà percepisce la grande bellezza attraverso una figurazione della sua unità. Ẻ il caso del panorama mozzafiato. Mentre il soggetto lo osserva, la volontà avverte la vitalità degli elementi che la costituiscono, coglie le infinite connessioni che la animano, si indentifica nelle loro trasformazioni, e diviene essa stessa. Ovviamente l’interdipendenza non è reale, ma rilevarne la possanza la eternizza a sua volta, seppur fugacemente. E così il nostro amico vibra tutto emozionato!

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“La bellezza salverà il mondo” dice Dostoevskij ne L’idiota. “Quale bellezza salverà il mondo?” chiede il giovane Ippolit al principe Miskin2. La risposta che dà lo scrittore russo è l’affrancamento dalla tragedia della realtà cupa, enigmatica, violenta da cui il protagonista cerca di emergere.

Ẻ un inizio, ma non è sufficiente. La semplice fuga è fine a se stessa. Occorre creare le condizioni affinché la volontà possa perpetuare la vita, non esaltare la morte celebrata dalla società del dominio. In fondo che ci vuole, basta essere ciò che si è: natura. La bellezza non è pertanto il vero aristotelico o l’idea platonica che diventa corpo, non è la perfezione divina o l’armonia delle forme, non è mai definita in funzione di un giudizio, né è astratta, ma è lo stato di natura. Quel luogo incorrotto in cui il pathos di Dionisio reifica ciò che Apollo ha negato. Solo in questo ambiente incontaminato infatti la volontà è libera di identificarsi nell’unità, fra esseri che fanno altrettanto con l’obbiettivo condiviso di partecipare al divenire eterno.

Lo so, sembra impossibile che l’umano possa abbandonare le perversioni della civilizzazione per fuggire e ridefinirsi nella natura. Eppure ogni tanto palesa quelle attitudini selvagge che, se coltivate, eviterebbero la fine. Sono attimi fugaci, ma così intensi che talvolta rendono quel bipede spelacchiato quasi bello. Parlo delle occasioni in cui si monda dal torbido e si dona, collabora e ama disinteressatamente, allorché ogni suo impulso diventa sincero, l’esperienza una scoperta, il gesto solidale. Philia, eros, agape3 si combinano magicamente fondendosi nella stessa sostanza.

Forse pecco di ingenua fiducia. Di sicuro però, senza questo slancio evolutivo verso l’autenticità, l’umanità non ha più ragione d’essere. Ẻ un peso per se stessa e un danno per le infinite specie che vogliono vivere. Estinguersi a causa di un meteorite sarebbe triste ma accettabile. Per colpa della stupidità dell’essere più involuto sulla terra sarebbe deprimente. E anche un po’ umiliante.

NOTE

*1 Agostino, Soliloqui, 1,3

*2 Dostoevskij, L’Idiota, 1869.

*3 Per i classici greci la Philia è l’amicizia, l’Eros è il desiderio romantico, l’Agape è l’amore spirituale.

Immagine: William Turner, Glauco e Scilla, 1841

DECIDERE DI ABBANDONARE LA CIVILTA’ PER LO STATO DI NATURA NON E’ UNO SCHERZO

Quando parlo di stato di natura le obbiezioni di solito sono di quattro tipi:

C’è il possibilista con riserva per cui: «Ma come posso lasciare la famiglia?» Con la variante: «Ma dove vado?» oppure «Ma come faccio a…?» «Come fai cosa?» «Come faccio. Punto!» chiude stizzito la questione. C’è il pratico: «Ma nel tuo stato di natura come si campa?» «La natura dà tutto quello che serve!» «Tutto, tutto?» «Tutto!» «Anche internet?». C’è l’interessato che ora fa il fatalista: «Capisco cosa vuoi dire, ma questo è il mondo!» «Il tuo, non il mio!» «E che vorresti fare, distruggerlo?» «Ma solo per ricostruire!». C’è il negazionista che, se morigerato: «Ẻ impossibile!» Se verace: «Per me sei fuori di testa!» Vorrei rispondergli che non è vero, ma se sono anarchico, forse un pochino a-normale lo sono davvero.

Pur con le proprie specificità ognuno di loro concepisce l’ordine esistente come unica alternativa possibile. Che siano scettici, complici o remissivi, non comprendono il cambiamento perché temono di perdere la miseria che dà un senso alle loro vite. Preferiscono adattarsi alla realtà e lamentarsi è il massimo del loro dissenso. Ma non li biasimo. Dopo tutto, anche i microcefali vogliono solo sopravvivere! Certo, sarebbe preferibile evitassero la presunzione del giusto e non impedissero di perseguire la felicità a chi non ha intenzione di arrecare loro alcun tipo di danno, ma fra tante specie perfette, ci stava che la natura ne creasse una che non lo fosse.

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Le persone sono abituate a ragionare per certezze e quando vengono meno le inventano. Al contrario il libertario sana il dubbio con l’esperienza. Non ha paura di negare l’ordine esistente. Lo scardina, lo erode, lo elude per creare il proprio. Non gli basta rifiutare il conformismo, la socializzazione, l’economia, il governo, il dominio. Deve distruggere per rifondare, con la consapevolezza che la vita è un continuo sperimentare, sbagliare, rimediare.

Se una volta infatti l’obbiettivo era il “gran giorno” in cui dalla rivoluzione sarebbe sorta un’umanità libera ed eguale, la violenza sadica dei mastini, l’assuefazione conformista della massa e soprattutto l’involuzione umana provocata dalla tecnicizzazione, hanno portato a concepire un’anarchia che si spoglia dalle miserie del servo consenziente senza bisogno di vestire quelle del guerrigliero intransigente. Oggi l’anarchico è consapevole che la dittatura della crescita economica, l’etica della competizione, la catalessi uniformante sono irreversibili. Il civilizzato è ormai separato dalla natura, quindi spogliato della sua essenza. Ne ignora ritmi e cicli, ne disprezza le manifestazioni, ne deturpa la bellezza, preda e distrugge per sentirsi migliore. Siamo all’assurdo che la teme e prova a dominarla. Non ci riesce e la stermina. Con la complicità di chi preferisce illudersi che, prima o poi, una mano provvidenziale eviti la catastrofe emendando le responsabilità.

Riappropriarsi del creato, un mondo vivente in cui l’assoluta diversità caratterizza l’individualità, è pertanto l’unica opzione possibile: la naturalizzazione dell’umano è il presupposto della sua evoluzione.

Il primo passo è negare il profitto quale causa di qualunque devianza e respingere ciò che lo alimenta. Esso è la più maligna delle illusioni perché giustifica ogni arbitrio. Una volta eliminato, spariscono gli artifici manipolatori che lo perpetuano: dallo Stato che lo protegge alla religione per cui è grazia divina, dall’economia che lo diffonde alla morale che lo legittima.

Il secondo è abbandonare la civiltà per immergersi nella natura selvaggia. Solo un rapporto diretto, sincero, paritario con i suoi elementi, consente all’individuo di conoscere ed essere padrone di se stesso, volontà pura agente, e trovare in essa la propria perfezione. Perché quando la volontà è disinteressata, quindi libera, attraverso le infinite relazioni partecipa alla processualità indivisa con l’unico scopo di realizzare la propria potenzialità. Una scelta che è volontaria perché non imposta, spontanea perché non determinata, ugualitaria perché ogni soggetto contribuisce per quelle che sono le sue attitudini, armonica perché condiviso è l’interesse di garantirne la perpetuazione. Una simbiosi incessante che rende il singolo universale e l’universale singolo, eternandosi reciprocamente.

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Per capire cosa intendo con l’espressione stato di natura, immagina di trovarti in una città qualsiasi. Non occorre sia New York o Singapore. Va benissimo qualunque strada o piazza di uno dei nostri quartieri. Ovunque palazzi, cemento, auto sfreccianti e parcheggiate in doppia e terza fila, persone che zampettano frettolose, altre che grugniscono al cellulare, manutentori che trapano l’asfalto, operai che fanno i trapezisti sui ponteggi. Ops, ne è caduto uno! L’aria puzza di rancido ed così pesante che non riesci a respirare. La testa scoppia per il frastuono dei clacson, delle grida umane, del rombo dei motori, della sirena delle ambulanze…

Chiudi gli occhi e concentrati sul respiro. Annulla intorno fluttuando insieme a lui. Una, due, dieci volte… Non ho detto che devi addormentarti!

Adesso riaprili!

Il cielo è terso, la luce è nitida e l’odore di erba pizzica il naso. Intorno vedi terra rigogliosa e fiori e animali che pascolano liberi. C’è pure un boschetto che si inerpica sulla collina. Ti volti e il ruscello è così trasparente che quasi ti butteresti dentro. Vicino ci sono alcune capanne, da cui il fumo di un falò ascende ipnotico…

Benvenuto nello stato di natura, dove ciò che conosci, ciò che la civilizzazione ha imposto come giusto e inopinabile, per magia sparisce per lasciare il posto alla natura selvaggia. Niente è contaminato, colonizzato, addomesticato. Non troverai un grattacielo o una fabbrica. Non ci sono auto, né cemento, tantomeno infrastrutture, tecnologia, internet, lavoro, commercio, ma solo animali che vagabondano, piante rigogliose, terra fertile e l’aria riempie i polmoni inebriando i pensieri di ossigeno. Le persone si riuniscono in gruppi nomadi che ora stanno sulla rive, domani le trovi sul monte, dopodomani stanziano sulla vicina scogliera. Raccolgono, cacciano e pescano. Le eccedenze vengono divise equamente perché ciascuno possa praticare la profondità dell’esperienza. Non hanno bisogno di sofisticazioni e artifici, si realizzano dissolvendosi nella biocenosi. Quando invece stazionano in un luogo per più tempo, coltivano rispettando la fertilità del suolo e godendo della spontaneità dei suoi prodotti. E se incontrano altri gruppi nomadi, mangiano e bevono davanti al fuoco, poi glorificano tanta magnificenza. Non si guerreggia e non si compete giacché non esiste accumulazione e ciò che è mio è tuo non perché lo impone qualcuno, ma perché sono felice di aiutarti e so che faresti la stessa cosa con me. Intanto i bambini giocano con l’ambiente sperimentando pericoli e potenzialità per affrontare le sfide future, circondati da animali da cortile che zampettano in spazi aperti perché il loro benessere vale quello dell’uomo e quello delle altre specie. Quelli selvatici osservano incuriositi. Vorrebbero partecipare, ma sono ancora diffidenti. Mentre gli alberi inondano l’aria di un profumo, ma di un profumo che… Ah no, sono i nostri amici che si stanno divertendo!

La natura non dissimula, né ha bisogno di doveri o perversioni. Ẻ pratica, empirica, corporea, sensuale, spontanea. Sviluppa rapporti affettivi che appassionano la volontà. Ẻ vero, a volte sembra crudele e spietata. Ma la minaccia non sarà mai come nella società del dominio, dove i predatori violentano, abusano, coartano per il mediocre profitto. In natura si preda per sopravvivere, non per riempire il salvadanaio. E quando le esistenze si equiparano, la lotta è leale e la casualità dell’esisto perpetua comunque il ciclo della vita.

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Per creare lo stato di natura due sono le possibilità: o si sceglie di edificarlo nella società del dominio, oppure si nega l’ordine costituito e si fugge dove esso esiste già eludendo la repressione dei suoi aguzzini.

Consideriamo la prima ipotesi. L’anarchico che risiede nella società del dominio prova a mediare con esso, ma ne viene sempre soggiogato. Vive in ambienti opprimenti, ottempera le sue regole, almeno quelle che non può fare a meno di trasgredire, è condizionato dalla sua morale mercanteggiante. E siccome la miseria del barbone non è auspicabile, deve lavorare. Per cui ogni giorno suona la sveglia, ingurgita frettolosamente una pastina confezionata con del caffè liofilizzato, prende l’auto per andare nell’ufficio di un qualunque palazzo della zona industriale, un bel loculo di due metri per uno con vista sul cesso comune che nessuno pulisce da anni. Qui trascorre ore interminabili con l’unico intermezzo del pranzo. Finito il turno, dopo un tempo eterno passato a bestemmiare nel traffico, finalmente si fionda sul divano per scolare tutta la birra che ha in frigo in maniera da dimenticare che è così tutti i giorni, tutto l’anno, tutta la vita e ormai è troppo esausto per rimediare a tanta idiozia. Ora, mi dici come il nostro eroe può trovare tempo e voglia di edificare un mondo alternativo?

Supponiamo invece che abbia ricevuto un’eredità da un misterioso zio d’America o abbia vinto la lotteria per cui non è costretto a lavorare. Vivere la natura rimanendo nella società del dominio implica però non interagire con la sua selvaticità, bensì creare un surrogato che si adatti all’ambiente civilizzato, quello urbano. E siccome il nostro campione abita in un appartamento al quarto piano, tempesta ogni angolo della casa di palme, felci, calathee, dracaene, sanseverie, orchidee, bonsai e altro. Compra anche un maialino, due galline e un cane. L’entusiasmo è alto e trascorre le giornate ad innaffiare le piante, dare da mangiare e pulire gli escrementi degli animali. Quando però invita a cena la morosa, per non sembrare pazzo trasferisce tutto in terrazza e chiude le serrande. La serata va alla grande, ma il giorno dopo il povero maialino è assiderato e le galline sono volate via. Una si è schiantata contro il muso di un autobus, l’altra si è impigliata nei cavi elettrici che passano sotto il balcone. Al cane non è andata meglio poiché si è infilato nel compattatore del camion dell’immondizia dopo essersi lanciato per recuperare quella che stava arrostendo. Distrutto nell’anima, il nostro prode sfoga la disforia con i video di shuffle dance, ignorando che le piante stanno seccando una dopo l’altra. E così finisce la sua esperienza con la natura.

Morale: non si può creare lo stato di natura rimanendo nella società del dominio.

L’anarchico deve dire basta e ricominciare altrove. Deve abbandonare la casa in cui abita, gli amici del calcetto, il lavoro che tanta soddisfazione dava ai suoi creditori, il chiasso della città, ma anche le abitudini, gli affetti ostacolanti, i confort e le suggestioni della vita civilizzata. Deve cercare un luogo incontaminato in cui di essa non ci sia traccia. Solo l’individuo che interagisce in un ambiente in cui è se stesso può sentirsi uomo!

Ma dove può andare se la società del dominio ha colonizzato ogni spazio disponibile sulla terra?

Scartata la possibilità di addentrarsi nell’oceano in cerca di un’isola deserta a causa della scarsa confidenza con gli squali, opta per la montagna. Fra le Alpi e Appennini scegli le prime perché sono più lontane e non c’è il rischio che qualcuno venga a bussare. Per non lasciare tracce medita di raggiungerle a piedi. Studiata la cartina ci ripensa e arriva in treno in un paesino dal nome impronunciabile. Si inerpica sulla prima montagna e bivacca in un bosco, che abbandonerà presto perché non sopporta gli schiamazzi dei turisti che passano da un sentiero attiguo. Cammina e cammina finché non trova un luogo inaccessibile dove può costruire la sua prima dimora da anarchico e appropriarsi della vita selvaggia che desiderava. Passano i giorni, passano i mesi ed è sempre più un elemento della natura. Unità fra infinite unità. Adesso è un uomo libero fuso con la realtà attraverso le connessioni con le sue molteplicità. Non è solo vivo, è felice. Perché cos’è la felicità se non la volontà che scopre la sua universalità?

E quando lo desta il ronzio di un drone, anziché reagire, la civiltà è sempre molto efficiente se deve reprimere, fugge insieme ai compagni che condividono la sua esperienza sovversiva. E se ne andranno ogni volta che il dominio proverà a inibire la loro libertà. In questo modo non solo eviteranno l’oppressore, ma la comunità crescerà, si moltiplicherà e i ribelli saranno così numerosi, forti e uniti che il Potere preferirà lasciarli perdere e accontentarsi di vessare chi del giogo non può fare a meno.

In conclusione: nella società del dominio la felicità è un rischio che le persone preferiscono evitare. Ẻ più comodo inseguire il profitto, assuefarsi alle sofisticazioni, osservare remissivamente le regole garanti l’ordine costituito, delegare la responsabilità per scaricare i sensi di colpa, alienarsi in pratiche socializzanti e così via. Di contro, per realizzare lo stato di natura bisogna rinunciare alla materialità, abbandonare la civiltà, vivere l’unità del creato. Ciò implica creatività, sacrificio e dedizione, soprattutto all’inizio quando spaventa lasciare l’apatica confortevolezza del vecchio mondo. La scelta è fra tirare avanti senza uno scopo o trovarlo dando dignità alla propria esistenza divenendone protagonisti. E se per molti la felicità è un’impresa troppo faticosa, per gli anarchici tornare alla natura è invece una cosa spontanea. Naturale, direi.

immagine: Albrecht Duret , La grande zolla, 1503.

COSCIENZA DELLE PIANTE O INGNORANZA UMANA?

In più di un’occasione ho affermato che il primato umano è un’invenzione della società del dominio in virtù del quale essa si arroga il potere di sfruttare e distruggere per soddisfare i propri interessi senza sensi di colpa.

Una volta la legittimazione dell’arbitrio era metafisica. Dio ha creato il mondo poi gli uomini, dopodiché ha detto: “riempite la terra, soggiogatela e dominate i pesci del mare e sugli uccelli del cielo e su ogni essere vivente che striscia sulla terra”1 affinché lo governassero come bravi amministratori2. Ogni tanto c’era qualche ribelle come San Francesco che ribaltava il tavolo sostenendo che la natura è “nostra sorella madre” che “ci sostiene e ci governa”3, ma ormai la frittata era fatta. L’uomo aveva asservito l’ambiente alle sue necessità, i viventi ai suoi servigi, i propri simili alle sue meschinità. E quando la teologia non ha retto l’urto delle innovazioni scientifiche, l’antropocentrismo utilitaristico è diventato il principio ispiratore di ogni pratica umana: dal Big Bang sono nati gli atomi, poi le galassie, le stelle e i pianeti e quattro miliardi di anni fa circa il primo organismo da cui discende anche l’individuo, l’essere più efficiente, produttivo e performante della terra. Hanno omesso il più obbediente perché non faceva figo.

Che il primato fosse merito di caratteristiche biologiche come lo sviluppo encefalico o la stazione eretta, del linguaggio del sé narrativo o della capacità di pensiero astratto, dell’attitudine ad associarsi con intenzionalità condivisa o dell’abilità a sfruttare la cultura cumulativa, con la teoria evoluzionistica il narcisismo antropocentrico era salvo. E pure apodittico, perché spogliato della metafisica e della teoretica, si affidava all’infallibilità del metodo scientifico. Una credibilità conquistata sul campo grazie alla prodigiosa capacità di trasmettere il sapere provvisorio come assoluto, di dissimulare i profitti come interesse pubblico e di elargire progresso in cambio di qualche cavia. Un rapporto costi-benefici che i signori non potevano ignorare e i sempliciotti dovevano assecondare perché quello sanno fare.

Oggi la scienza afferma che l’uomo è il numero uno in quanto l’evoluzione lo ha reso l’essere più intelligente. Sancendo una dicotomia insanabile con il sensibile, la ragione diventa verità a cui sottomettere il resto. L’unicità sta nel pensiero. Un privilegio di cui gli animali non dispongono perché per obbedire hanno bisogno della frusta. Quanto alle piante, sono talmente refrattarie che bisogna abbatterle. E se il cogito ha sempre ragione, i crimini che giustifica sono sempre giusti.

Mettere le sue facoltà a disposizione del bene infatti sembrava patetico, meglio utilizzarle per raffinare la violenza. Non quella spontanea e tollerata in natura perché funzionale alla sopravvivenza, bensì quella razionale, che concepisce la realtà come mezzo per un fine. Che porta alla sopraffazione fisica e psicologica, all’annullamento dell’alterità per appropriarsi della sua sovranità e trarne vantaggio. E così si è passati dall’industrializzazione alla tecnicizzazione globalizzata, dalle volgari catene al più raffinato allevamento intensivo, dall’emancipazione alla catastrofe in un batter di ciglio!

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Se l’intelligenza umana lascia qualche perplessità, non ci sono dubbi su quella degli altri esseri viventi.

La prova? Semplice, non agiscono per profitto, non accumulano banalità, ma vogliono vivere.

Il batterio Escherichia coli decodifica gli impulsi adattando il proprio metabolismo all’ambiente esterno. Gli elefanti posseggono un’eccezionale memoria. Le formiche sono socialmente organizzate. Le piante sono dotate di sensi, si riproducono, si difendono, cooperano, interagiscono, hanno simpatie e antipatie, posseggono coscienza dell’ambiente e dell’alterità. E poiché non credo che queste capacità siano attivate da un tizio in una cabina di pilotaggio tipo Haran Banjo nel Daitarn III, il monopolio umano dell’intelletto è una farsa. Di sicuro l’uomo è capace di realizzare grattacieli, ponti, monumenti, opere d’arte, bombardieri tascabili, mentre gli altri viventi no. Ma attribuire queste doti a una presunta superiorità distorce l’evoluzione e la reinterpreta dal suo esclusivo punto di vista. Anche il mio cane vede il mondo dalla sua prospettiva, ma non pretende di essere migliore di me!

Questo pregiudizio culturale ignora l’evidenza empirica per la quale ogni essere possiede specifici bisogni e funzioni e si è evoluto per soddisfarli nella maniera più efficiente possibile. Ne consegue che l’umano rappresenta solo una delle infinite forme di vita possibili, che si è sviluppata e si svilupperà né più né meno, né meglio né peggio, bensì adeguatamente alle sue necessità biologiche.

A dispetto di questa evidenza però, l’uomo continua a guardarsi alla specchio e canticchiare: «Oh, come sono bello! Oh, come sono intelligente!» Ignorando che visto da una formica, una farfalla, un faggio o una trota è nient’altro che un essere stupido, limitato, violento, un fastidio di cui gli altri esseri farebbero volentieri a meno.

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Ho detto che l’evoluzione è ancora in corso.

Peraltro, come la storia dimostra, ciò che oggi sembra verità, domani sarà motivo di ludibrio.

Sappiamo infatti che il cervello è costituito da strutture e nervi che comunicano attraverso le sinapsi. Controlla i pensieri, la memoria, il linguaggio, i movimenti, gli organi. Parliamo invece delle sue potenzialità con ipotesi e suggestioni.

La teoria dell’intelligenza multipla4, ad esempio, lascia pensare che l’uomo disponga di potenzialità ignote che gli consentirebbero di realizzare attività allo stato inimmaginabili o di concepire realtà inspiegabili. Prendi il multiverso5, cioè la possibilità che esistano altri universi fuori dal nostro spazio-tempo che si sovrappongono fra loro. Se un domani venisse sperimentato che il principio vale anche per il tangibile, ovverosia che esso è costituito da dimensioni parallele non comunicanti e contraddistinte da peculiari dinamiche al loro interno, e se venisse verificato che la mente è in grado di percepirle, di identificarle, di viverle, ciò che adesso viene considerata superstizione diverrebbe realtà. Penso all’attività sciamanica che, guarda un po’, viene praticata dai nativi di tutto il mondo che abitano lo stato di natura, quell’ambiente puro dove l’istinto, il sensibile, non il pensiero, definiscono la conoscenza.

L’intelletto è un paraocchi che nasconde la verità. Però consente alla carrozza di andare dove vuole il cocchiere. Esso opera attraverso processi analitici-teleologici in cui l’azione è funzionale a un fine. Fine che è sempre il profitto. E finché esso determina le scelte, l’umano sarà un alienato che trova autostima nel distruggere per realizzarlo.

Potrà tornare ad essere padrone di sé solo quando l’istinto prevarrà e agirà spontaneamente come accade per i non umani. Se in loro esso prevale sul giudizio non è perché sono inferiori, ma perché sanno, lo hanno capito molto prima di noi, che fondendosi nell’armonia naturale, cooperando nella meravigliosa biocenosi che è il mondo, realizzano il benessere universale. Soltanto chi rinuncia, scelta razionale, ai desideri effimeri e si unisce, azione spontanea, al tutto può essere davvero felice.

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Oltre all’argomento evoluzionista, umanisti, scienziati e altri burloni ancora asseriscono che l’uomo sia l’unico essere vivente dotato di anima. I nostalgici sono fantastici. Cade un regime e persuadono i rivoluzionari a ripristinarlo con forme diverse!

Con il termine anima si considera quella forza vitale insita in ogni essere vivente sede di sentimenti, pensieri, coscienza, che si esprime attraverso il corpo. Il platonismo, la cristianità e il razionalismo la concepiscono come qualcosa di immateriale che aspira all’intellegibile, si tratti di idee o Dio. Ignorano però che ogni organismo è volontà di vivere cosciente e agente. Ovviamente si tratta di coscienza e azione funzionali alla perpetuazione della vita, per cui adattata alle specifiche peculiarità fisiologiche.

Gli animali si dimostrano consapevoli di sé, del mondo, delle interazioni in virtù della sensibilità, affettività, docilità, collaborazione. Altrettanto vale per le piante, la cui reattività, adattabilità, interconnettività non sarebbe possibile se il loro anelito di vita ignorasse le sfaccettature del sé e dell’alterità. Se i reazionari negano che gli uni e gli altri posseggano autocoscienza è per continuare a soggiogarli ed evitare che altri esperti sottraggano loro il potere acquisito. Le loro argomentazioni astratte e i loro esperimenti manipolati sono fuffa! Cionondimeno la collettività pende dalle loro labbra e continua a considerare le piante insensibili, inanimate, inutili, mero ornamento. Più fortunati sono gli animali, con i quali negli ultimi anni il rapporto si è addolcito limitandosi allo sterminio di quelli da profitto.

Ha ragione Stefano Mancuso: se l’uomo incontrasse un extraterrestre probabilmente non saprebbe riconoscerlo6. Associa infatti l’intelletto all’esistenza del cervello e siccome i vegetali ne sono privi, non sono intelligenti.

Ma essi sono organismi differenti, decentralizzati, senza organi, che risolvono i bisogni attraverso strutture diffuse, distribuite nel corpo così da risolvere problemi, soddisfare bisogni, preservare la vita per quelle che sono le loro peculiarità. La loro attività è olistica, non riduzionista. Operano orizzontalmente creando connessioni reticolari. Comunicano, si riproducono, si manifestano, quindi sono dotati di sensi e intelligenza come qualunque altro essere vivente. La loro volontà possiede un io narrativo, si chiami coscienza o come si preferisce, che si replica nelle infinite semiosi, che è tangibile in quanto effettuano scelte in base alla necessità e che è morale giacché hanno acquisito che cooperare fra loro nel divenire armonico perpetua la vita.

Insomma, oltre a essere più tolleranti, collaborative e, mi permetto, belle degli umani, le piante sono più efficienti, performanti e produttive. Poiché però sono anche indispensabili all’esistenza, sarà mica che l’uomo le soverchia oltre che per interesse, per affermare la propria autostima?

Capire come reagire a queste perversioni culturali non è facile. Soprattutto in una società orgogliosa di sacrificare il bello al superfluo.

Forse bisognerebbe partire dai bambini, che hanno ancora la mente inviolata.

Il primo giorno di scuola il maestro dovrebbe entrare in classe, fare l’appello, invitarli ad aprire il sussidiario finché non trovano le pagine che parlano dell’Umanesimo. Lasciati alla loro creatività, disegnerebbero gli occhiali, i baffi, il moccico che ciondola dal naso e un pisello elefantiaco all’Uomo vitruviano7 di Leonardo. «Ben fatto!» poi dovrebbe gratificarli.

Dissacrare l’umano quale “misura del mondo” non cambierà le cose, ma un bel vaffa alla cultura antropocentrica sarebbe sicuramente un ottimo inizio.

NOTE

*1 Genesi 1,28.

*2 Luca 19,12; Matteo 24,45.

*3 San Francesco, Cantico delle creature, composto intorno al 1224.

*4 La teoria delle intelligenze multiple è formulata da Howard Gadner e ricomprende l’intelligenza linguistica, musicale, logico-matematica, cinestetica, interpersonale, intrapersonale.

*5 Proposto per la prima volta da Hugh Everett nel 1957.

*6 Stefano Mancuso, Fitopolis la città vivente, Laterza, 2023

*7 Disegno realizzato da Leonardo da Vinci intorno al 1490 e conservato presso la Galleria dell’Accademia a Venezia.

Immagine: Egon Schiele, Quattro alberi, 1917,

MA SE I DIRITTI NATURALI SONO DELL’UOMO, QUELLI UMANI SONO DELLA NATURA?

Guardare i manifestanti che attraversano le vie del centro è sempre un’attività struggente. Mi emoziona quell’assortimento di umanità, che d’improvviso cancella competizione e differenze per cantare in coro. Forse sarebbe più efficace incrociassero le braccia, boicottassero e sabotassero i prodotti delle multinazionali da cui dipendono o facessero finta di lavorare, ma il conformismo viene indottrinato come una virtù e il risultato è che il dissenso diventa una goliardata con tè alla fine della marcia.

I diritti non si chiedono, si prendono. Essi appartengono all’individuo in quanto tale. Quando mancano è perché qualcuno se ne è appropriato e rivendicarli significa legittimare l’abuso. Solo la lotta in tutte le sue manifestazioni possibili, seppur non risolutiva, restituisce dignità all’offeso. Una reazione mai violenta per evitare che il più forte si esalti nel reprimerla, però decisa, determinata, efficace che lo danneggi dove più gli preme: il profitto.

Ancor meno vanno reclamati quando l’usurpatore è lo Stato. Ogni sua concessione è sempre un credito che prima o poi viene riscosso. Si definisce “diritto”, infatti, quel potere di agire o essere, concesso e garantito dall’ordinamento. Ovverosia non esiste finché una norma non ne consente l’esercizio. E lo consente non perché l’individuo è nu bravo guaglione, ma in cambio di un tributo. Detta in altro modo: se i diritti sono innati, per disporne bisogna pagare. Chiamano progresso il loro riconoscimento, ma è una delle varie forme di sofisticazione del mercato.

E poiché l’anarchico disprezza le logiche mercantili, se ne appropria e li esercita senza vincoli. Osservando divertito gli altri che continuano a comprare ciò che è loro per natura.

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Sarebbe un errore attribuire questo artificio mefistofelico a Hobbes, Locke e compagnia cantante. Vero che il contrattualismo ha istituzionalizzato la sovranità statale, ma la pratica del più forte che concede protezione, privilegi, potestà in cambio di proibizioni, doveri e prestazioni è vecchia come il potere. Il dominante non dominerebbe se il dominato non fosse accondiscendente. E il solo modo per renderlo tale è illuderlo che l’obbedienza gli consenta di partecipare al banchetto dell’oppressore.

Per sanare l’arbitrio già Aristotele distingueva fra un giusto “che non viene riconosciuto”, quello così detto naturale, e un giusto “che viene stabilito”, quello legale. L’uno che opera “dappertutto”1 e “in ogni tempo”2, l’altro che ordina inderogabilmente. Il filosofo riconosce per la prima volta la necessità di una giustizia altra rispetto a quella ufficiale, caratterizzata da regole comuni preesistenti, necessarie e universali, spesso non coincidenti col diritto positivo. Ẻ l’embrione del giusnaturalismo che concepisce un diritto ispirato alla giustizia e all’equità, non mutabile in base al contesto e al tempo, immediatamente percepibile anche dal singolo, la cui moralità prevalga rispetto alla norma cogente, che invece subisce le debolezze, i pregiudizi, gli interessi, i limiti della natura umana.

Il concetto verrà ripreso qualche secolo dopo. Tommaso D’Aquino lo reinterpreta affermando che esiste una legge superiore di derivazione divina che manifesta l’ordine cosmico a cui la ragione accede per capire cosa è bene e cosa è male. Un “insieme di principi etici generalissimi”, definiti da Dio con la creazione, che condizionano il legislatore nella formulazione del diritto positivo. Per cui se la legge umana corrisponde a quella naturale, cioè di Dio, è vera legge e tutti debbono rispettarla perché buona e giusta3.

Bisognerà aspettare un bel po’ prima che gli illuministi compiano una vera e propria “rivoluzione copernicana”4. Dopo Grozio, che ancora riconosceva la fonte divina, il giusnaturalismo razionalistico intriso di individualismo affranca il diritto naturale dai dogmatismi religiosi e lo restituisce alla ragione. Con l’uomo al centro del mondo e tutto che gli ruota intorno, non c’è bisogno di scomodare il trascendente. Basta la natura razionale5 di un mediocre governo.

Nasce così lo stato di diritto per cui la legge è esercizio di una funzione pubblica e diritti e doveri diventano il “il retto e il verso di una medaglia”6. Si apre l’epoca delle “costituzioni borghesi”, come Marx definisce le dichiarazioni che garantiscono nero su bianco la vita, la libertà individuale, l’autodeterminazione, il giusto processo, l’esistenza dignitosa, la salute, la libertà religiosa e di manifestazione del pensiero, il voto, eccetera. Un costituzionalismo che prolifererà fino alle varie Dichiarazioni Universali del XX secolo, la cui luce riverbera ancora oggi, quando parliamo di diritti di terza e quarta generazione perché abbiamo dimenticato quelli della prima.

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Gli ordinamenti giuridici moderni hanno quindi recepito principi e valori universali. Ma questi possono essere definiti jus naturale?

La risposta è no.

Intanto per un vizio semantico. Se parlo di diritto naturale considero che siano attinenti alla natura intesa nel suo complesso, non a specifiche peculiarità. Invece sia i principi fissati dal giusnaturalismo che quelli statuiti nelle costituzioni riguardano esclusivamente l’uomo decretando una serie di limiti a chi esercita il potere. Il proposito è sacrosanto e sancirlo è stato un merito, ma non si può sottovalutare che la natura, quella vera, intesa come complesso di molteplicità che abitano la terra, sia completamente ignorata, abbandonata alla discrezione di chi può decidere se e come sterminarla. Né si può sostenere il contrario affidandosi al generico richiamo costituzionale alla tutela dell’ambiente delle biodiversità e degli ecosistemi7. Come prova la continua, nonché impunita, attività predatoria e distruttrice perpetrata in nome del profitto o per sadico divertimento. Ne consegue pertanto che i diritti naturali sono semplicemente “diritti umani”, l’ennesimo prodotto della visione antropocentrica del mondo che permea ogni attività antropica.

Inoltre essi mutano nel tempo adattandosi al contesto sociale di riferimento. Quelli della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 non sono gli stessi della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, ad esempio. Anche la natura è cangiante, ma rimane sempre eguale alla propria unicità. Per cui, esistessero principi generali ad essa riferibili, dovrebbero essere immutabili. Se si aggiunge che sono previsti  sotto forma di concessioni dalle costituzioni statali e che lo Stato è la più pervasiva manifestazione di dominio, si evince che sono solo l’ennesimo strumento manipolatorio con cui assoggettare il sempliciotto remissivo.

Occorre pertanto cambiare prospettiva.

Bisogna tornare all’immanente, dove umano e non umano sono indistinti e la natura è fonte di riflessione ontologica. Più precisamente lo stato di natura, quella condizione armonica in cui il primo si fonde con i suoi esseri e agisce scevro da contaminazioni. Fra la vita organizzata e Dio, entrambi costrutti artificiali attraverso cui l’uomo e la sua comunità possono dominare il non umano, si sceglie la bestia8. Ẻ rinunciando a ciò che ci illudiamo di essere che possiamo diventare ciò che siamo realmente.

Sono pertanto inutili gli approcci meccanicistici delle scienze e tutte le conoscenze acquisite che ambiscono a comprendere l’ignoto con l’unico scopo di dominarlo. La natura non è un orologio, tantomeno esiste l’orologiaio di cui parla Cartesio. Sarebbe pertanto un errore confondere la sua legge con quella fisica. Questa è una formula che rileva una conformità dei fenomeni dedotti e sperimentati. La prima è un principio supremo che pervade le cose del mondo. Esperimenti ed espressioni algebriche possono descrivere il caso, ma alla volontà si accede con il sentimento.

Capisco però che trovare persone non alessitimiche nella società del dominio non sia facile.

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Esiste una sola regola naturale: l’armonia delle cose.

La natura è l’insieme degli esseri viventi, animali, vegetali ed entità inanimate, che operano attraverso processi acquisiti, secondo un ordine che ne consente la conservazione e perpetuazione. Questa interdipendenza sviluppa una processualità infinita che, a sua volta, plasma la Volontà universale, quello spirito della terra in cui le entità confluiscono per realizzare la propria essenza.

Ogni organismo contribuisce, ma nessuno è indispensabile. Partecipa in base alle proprie attitudini, predisposizioni, abilità. E lo fa spontaneamente perché nel suo imprinting è scritto che altrimenti non sopravvivrebbe. La volontà si realizza attraverso la condivisione, quelle incessanti connessioni simbiotiche con l’alterità attraverso cui conoscere la prospettiva dell’altro, che diventa propria, entrambe costituenti il tutto.

Tale partecipazione non è indotta dalla cultura, dalla religione, dal diritto, ma perché l’essere è cosciente del giusto. I non umani non hanno bisogno di pensare e scegliere, sono guidati dalla volontà istintiva in quanto sanno cosa è bene e cosa è male ed è bene conformarsi all’ordine naturale. Mentre infatti la ragione è sempre funzionale, decido questo per guadagnare quello, animali e piante vogliono solo esistere. Attraverso i sensi, il linguaggio, la condotta sviluppano rapporti spontanei di affettività affinché il benessere personale coincida con quello dell’altro e insieme si eternizzino nell’ecosistema in cui vivono.

Un equilibrio spontaneo dove anche la violenza è funzionale: si preda o si reagisce ad essa per sopravvivere. Il lupo mangia il vitello non per dispetto, ma per conservarsi. Quando l’orso lo attacca mentre riposa non è che è invidioso perché non dorme da giorni, ma perché ha fame. Il loro istinto è il medesimo delle mandrie di antilopi che si riuniscono per difendersi dai felini, dello stormo di uccelli che si protegge dal rapace, delle piante che si scambiano informazioni per trovare i nutrienti o l’acqua o che usano gli insetti per impollinare in cambio del nettare o i volatili per spargere i semi in cambio di un luogo sicuro in cui costruire il nido.

Principio intangibile della natura è pertanto che essa permane quando gli esseri non interferiscono in questa armonia. Ogni alterazione dell’ordine causa sempre sofferenza, spaesamento, isolamento, danno. I non umani lo sanno e si adattano spontaneamente. Per l’uomo invece il progresso, la crescita, la modernità, l’utilità, ogni sciocchezza è buona per giustificare lo sterminio di una specie, l’inquinamento di un territorio, la distruzione di un ecosistema. Sana l’ossessione della propria precarietà creando falsi idoli, primo fra tutti il profitto, che ne corrompono l’autenticità indispensabile al bene comune. Ecco perché il suo massimo benessere è mantenere lo stato di disforia in cui tira avanti. Ecco perché l’unico primato di cui può vantarsi è quello di essere il più involuto fra i viventi.

La sola cura contro la corruzione della società del dominio che ha privato l’umanità della spontaneità necessaria per godere la bellezza del mondo è rinunciare alle sue perversioni e immergersi nello stato di natura. Riappropriarsi del sé in un ambiente dove ogni organismo sovrano si realizzi spontaneamente cooperando con gli altri affinché la dignità del singolo sia estasi condivisa. Ẻ nel tripudio selvaggio dei sensi, nella gioia della sopravvivenza, nell’identità col tutto, che l’essere può vivificare in eterno.

Finora l’umano non l’ha capito. Se vuole sopravvivere però dovrò imparare molto presto.

NOTE

*1 Aristotele, Etica Nicomachea.

*2 Digesta o Pandectae, 533 dc.

*3 Tommaso D’aquino, Summa Theologiae, 1265-1273.

*4 Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, 1990.

*5 Grozio, De iure belli ac pacis, 1625.

*6 Norberto Bobbio, ivi.

*7 La costituzione Italiana all’art 9 comma 3 afferma: La Repubblica tutela l’ambiente, le biodiversità e gli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. All’art 41 comma 2 aggiunge che l’attività economica non possa svolgersi in modo da arrecare danno all’ambiente.

*8 Per Aristotele si acquisisce dignità attraverso la vita organizzata istituzionalmente e “chi non è in grado di entrare nella comunità”, la polis, è “di conseguenza o bestia o Dio”. In Aristotele, Politica, in Opere, Laterza, 1973.

Immagine: Gatto dietro un albero di Franz Mark , 1910.