MA SE I DIRITTI NATURALI SONO DELL’UOMO, QUELLI UMANI SONO DELLA NATURA?

Guardare i manifestanti che attraversano le vie del centro è sempre un’attività struggente. Mi emoziona quell’assortimento di umanità, che d’improvviso cancella competizione e differenze per cantare in coro. Forse sarebbe più efficace incrociassero le braccia, boicottassero e sabotassero i prodotti delle multinazionali da cui dipendono o facessero finta di lavorare, ma il conformismo viene indottrinato come una virtù e il risultato è che il dissenso diventa una goliardata con tè alla fine della marcia.

I diritti non si chiedono, si prendono. Essi appartengono all’individuo in quanto tale. Quando mancano è perché qualcuno se ne è appropriato e rivendicarli significa legittimare l’abuso. Solo la lotta in tutte le sue manifestazioni possibili, seppur non risolutiva, restituisce dignità all’offeso. Una reazione mai violenta per evitare che il più forte si esalti nel reprimerla, però decisa, determinata, efficace che lo danneggi dove più gli preme: il profitto.

Ancor meno vanno reclamati quando l’usurpatore è lo Stato. Ogni sua concessione è sempre un credito che prima o poi viene riscosso. Si definisce “diritto”, infatti, quel potere di agire o essere, concesso e garantito dall’ordinamento. Ovverosia non esiste finché una norma non ne consente l’esercizio. E lo consente non perché l’individuo è nu bravo guaglione, ma in cambio di un tributo. Detta in altro modo: se i diritti sono innati, per disporne bisogna pagare. Chiamano progresso il loro riconoscimento, ma è una delle varie forme di sofisticazione del mercato.

E poiché l’anarchico disprezza le logiche mercantili, se ne appropria e li esercita senza vincoli. Osservando divertito gli altri che continuano a comprare ciò che è loro per natura.

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Sarebbe un errore attribuire questo artificio mefistofelico a Hobbes, Locke e compagnia cantante. Vero che il contrattualismo ha istituzionalizzato la sovranità statale, ma la pratica del più forte che concede protezione, privilegi, potestà in cambio di proibizioni, doveri e prestazioni è vecchia come il potere. Il dominante non dominerebbe se il dominato non fosse accondiscendente. E il solo modo per renderlo tale è illuderlo che l’obbedienza gli consenta di partecipare al banchetto dell’oppressore.

Per sanare l’arbitrio già Aristotele distingueva fra un giusto “che non viene riconosciuto”, quello così detto naturale, e un giusto “che viene stabilito”, quello legale. L’uno che opera “dappertutto”1 e “in ogni tempo”2, l’altro che ordina inderogabilmente. Il filosofo riconosce per la prima volta la necessità di una giustizia altra rispetto a quella ufficiale, caratterizzata da regole comuni preesistenti, necessarie e universali, spesso non coincidenti col diritto positivo. Ẻ l’embrione del giusnaturalismo che concepisce un diritto ispirato alla giustizia e all’equità, non mutabile in base al contesto e al tempo, immediatamente percepibile anche dal singolo, la cui moralità prevalga rispetto alla norma cogente, che invece subisce le debolezze, i pregiudizi, gli interessi, i limiti della natura umana.

Il concetto verrà ripreso qualche secolo dopo. Tommaso D’Aquino lo reinterpreta affermando che esiste una legge superiore di derivazione divina che manifesta l’ordine cosmico a cui la ragione accede per capire cosa è bene e cosa è male. Un “insieme di principi etici generalissimi”, definiti da Dio con la creazione, che condizionano il legislatore nella formulazione del diritto positivo. Per cui se la legge umana corrisponde a quella naturale, cioè di Dio, è vera legge e tutti debbono rispettarla perché buona e giusta3.

Bisognerà aspettare un bel po’ prima che gli illuministi compiano una vera e propria “rivoluzione copernicana”4. Dopo Grozio, che ancora riconosceva la fonte divina, il giusnaturalismo razionalistico intriso di individualismo affranca il diritto naturale dai dogmatismi religiosi e lo restituisce alla ragione. Con l’uomo al centro del mondo e tutto che gli ruota intorno, non c’è bisogno di scomodare il trascendente. Basta la natura razionale5 di un mediocre governo.

Nasce così lo stato di diritto per cui la legge è esercizio di una funzione pubblica e diritti e doveri diventano il “il retto e il verso di una medaglia”6. Si apre l’epoca delle “costituzioni borghesi”, come Marx definisce le dichiarazioni che garantiscono nero su bianco la vita, la libertà individuale, l’autodeterminazione, il giusto processo, l’esistenza dignitosa, la salute, la libertà religiosa e di manifestazione del pensiero, il voto, eccetera. Un costituzionalismo che prolifererà fino alle varie Dichiarazioni Universali del XX secolo, la cui luce riverbera ancora oggi, quando parliamo di diritti di terza e quarta generazione perché abbiamo dimenticato quelli della prima.

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Gli ordinamenti giuridici moderni hanno quindi recepito principi e valori universali. Ma questi possono essere definiti jus naturale?

La risposta è no.

Intanto per un vizio semantico. Se parlo di diritto naturale considero che siano attinenti alla natura intesa nel suo complesso, non a specifiche peculiarità. Invece sia i principi fissati dal giusnaturalismo che quelli statuiti nelle costituzioni riguardano esclusivamente l’uomo decretando una serie di limiti a chi esercita il potere. Il proposito è sacrosanto e sancirlo è stato un merito, ma non si può sottovalutare che la natura, quella vera, intesa come complesso di molteplicità che abitano la terra, sia completamente ignorata, abbandonata alla discrezione di chi può decidere se e come sterminarla. Né si può sostenere il contrario affidandosi al generico richiamo costituzionale alla tutela dell’ambiente delle biodiversità e degli ecosistemi7. Come prova la continua, nonché impunita, attività predatoria e distruttrice perpetrata in nome del profitto o per sadico divertimento. Ne consegue pertanto che i diritti naturali sono semplicemente “diritti umani”, l’ennesimo prodotto della visione antropocentrica del mondo che permea ogni attività antropica.

Inoltre essi mutano nel tempo adattandosi al contesto sociale di riferimento. Quelli della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948 non sono gli stessi della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, ad esempio. Anche la natura è cangiante, ma rimane sempre eguale alla propria unicità. Per cui, esistessero principi generali ad essa riferibili, dovrebbero essere immutabili. Se si aggiunge che sono previsti  sotto forma di concessioni dalle costituzioni statali e che lo Stato è la più pervasiva manifestazione di dominio, si evince che sono solo l’ennesimo strumento manipolatorio con cui assoggettare il sempliciotto remissivo.

Occorre pertanto cambiare prospettiva.

Bisogna tornare all’immanente, dove umano e non umano sono indistinti e la natura è fonte di riflessione ontologica. Più precisamente lo stato di natura, quella condizione armonica in cui il primo si fonde con i suoi esseri e agisce scevro da contaminazioni. Fra la vita organizzata e Dio, entrambi costrutti artificiali attraverso cui l’uomo e la sua comunità possono dominare il non umano, si sceglie la bestia8. Ẻ rinunciando a ciò che ci illudiamo di essere che possiamo diventare ciò che siamo realmente.

Sono pertanto inutili gli approcci meccanicistici delle scienze e tutte le conoscenze acquisite che ambiscono a comprendere l’ignoto con l’unico scopo di dominarlo. La natura non è un orologio, tantomeno esiste l’orologiaio di cui parla Cartesio. Sarebbe pertanto un errore confondere la sua legge con quella fisica. Questa è una formula che rileva una conformità dei fenomeni dedotti e sperimentati. La prima è un principio supremo che pervade le cose del mondo. Esperimenti ed espressioni algebriche possono descrivere il caso, ma alla volontà si accede con il sentimento.

Capisco però che trovare persone non alessitimiche nella società del dominio non sia facile.

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Esiste una sola regola naturale: l’armonia delle cose.

La natura è l’insieme degli esseri viventi, animali, vegetali ed entità inanimate, che operano attraverso processi acquisiti, secondo un ordine che ne consente la conservazione e perpetuazione. Questa interdipendenza sviluppa una processualità infinita che, a sua volta, plasma la Volontà universale, quello spirito della terra in cui le entità confluiscono per realizzare la propria essenza.

Ogni organismo contribuisce, ma nessuno è indispensabile. Partecipa in base alle proprie attitudini, predisposizioni, abilità. E lo fa spontaneamente perché nel suo imprinting è scritto che altrimenti non sopravvivrebbe. La volontà si realizza attraverso la condivisione, quelle incessanti connessioni simbiotiche con l’alterità attraverso cui conoscere la prospettiva dell’altro, che diventa propria, entrambe costituenti il tutto.

Tale partecipazione non è indotta dalla cultura, dalla religione, dal diritto, ma perché l’essere è cosciente del giusto. I non umani non hanno bisogno di pensare e scegliere, sono guidati dalla volontà istintiva in quanto sanno cosa è bene e cosa è male ed è bene conformarsi all’ordine naturale. Mentre infatti la ragione è sempre funzionale, decido questo per guadagnare quello, animali e piante vogliono solo esistere. Attraverso i sensi, il linguaggio, la condotta sviluppano rapporti spontanei di affettività affinché il benessere personale coincida con quello dell’altro e insieme si eternizzino nell’ecosistema in cui vivono.

Un equilibrio spontaneo dove anche la violenza è funzionale: si preda o si reagisce ad essa per sopravvivere. Il lupo mangia il vitello non per dispetto, ma per conservarsi. Quando l’orso lo attacca mentre riposa non è che è invidioso perché non dorme da giorni, ma perché ha fame. Il loro istinto è il medesimo delle mandrie di antilopi che si riuniscono per difendersi dai felini, dello stormo di uccelli che si protegge dal rapace, delle piante che si scambiano informazioni per trovare i nutrienti o l’acqua o che usano gli insetti per impollinare in cambio del nettare o i volatili per spargere i semi in cambio di un luogo sicuro in cui costruire il nido.

Principio intangibile della natura è pertanto che essa permane quando gli esseri non interferiscono in questa armonia. Ogni alterazione dell’ordine causa sempre sofferenza, spaesamento, isolamento, danno. I non umani lo sanno e si adattano spontaneamente. Per l’uomo invece il progresso, la crescita, la modernità, l’utilità, ogni sciocchezza è buona per giustificare lo sterminio di una specie, l’inquinamento di un territorio, la distruzione di un ecosistema. Sana l’ossessione della propria precarietà creando falsi idoli, primo fra tutti il profitto, che ne corrompono l’autenticità indispensabile al bene comune. Ecco perché il suo massimo benessere è mantenere lo stato di disforia in cui tira avanti. Ecco perché l’unico primato di cui può vantarsi è quello di essere il più involuto fra i viventi.

La sola cura contro la corruzione della società del dominio che ha privato l’umanità della spontaneità necessaria per godere la bellezza del mondo è rinunciare alle sue perversioni e immergersi nello stato di natura. Riappropriarsi del sé in un ambiente dove ogni organismo sovrano si realizzi spontaneamente cooperando con gli altri affinché la dignità del singolo sia estasi condivisa. Ẻ nel tripudio selvaggio dei sensi, nella gioia della sopravvivenza, nell’identità col tutto, che l’essere può vivificare in eterno.

Finora l’umano non l’ha capito. Se vuole sopravvivere però dovrò imparare molto presto.

NOTE

*1 Aristotele, Etica Nicomachea.

*2 Digesta o Pandectae, 533 dc.

*3 Tommaso D’aquino, Summa Theologiae, 1265-1273.

*4 Norberto Bobbio, L’età dei diritti, Einaudi, 1990.

*5 Grozio, De iure belli ac pacis, 1625.

*6 Norberto Bobbio, ivi.

*7 La costituzione Italiana all’art 9 comma 3 afferma: La Repubblica tutela l’ambiente, le biodiversità e gli ecosistemi anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”. All’art 41 comma 2 aggiunge che l’attività economica non possa svolgersi in modo da arrecare danno all’ambiente.

*8 Per Aristotele si acquisisce dignità attraverso la vita organizzata istituzionalmente e “chi non è in grado di entrare nella comunità”, la polis, è “di conseguenza o bestia o Dio”. In Aristotele, Politica, in Opere, Laterza, 1973.

Immagine: Gatto dietro un albero di Franz Mark , 1910.