DECIDERE DI ABBANDONARE LA CIVILTA’ PER LO STATO DI NATURA NON E’ UNO SCHERZO

Quando parlo di stato di natura le obbiezioni di solito sono di quattro tipi:

C’è il possibilista con riserva per cui: «Ma come posso lasciare la famiglia?» Con la variante: «Ma dove vado?» oppure «Ma come faccio a…?» «Come fai cosa?» «Come faccio. Punto!» chiude stizzito la questione. C’è il pratico: «Ma nel tuo stato di natura come si campa?» «La natura dà tutto quello che serve!» «Tutto, tutto?» «Tutto!» «Anche internet?». C’è l’interessato che ora fa il fatalista: «Capisco cosa vuoi dire, ma questo è il mondo!» «Il tuo, non il mio!» «E che vorresti fare, distruggerlo?» «Ma solo per ricostruire!». C’è il negazionista che, se morigerato: «Ẻ impossibile!» Se verace: «Per me sei fuori di testa!» Vorrei rispondergli che non è vero, ma se sono anarchico, forse un pochino a-normale lo sono davvero.

Pur con le proprie specificità ognuno di loro concepisce l’ordine esistente come unica alternativa possibile. Che siano scettici, complici o remissivi, non comprendono il cambiamento perché temono di perdere la miseria che dà un senso alle loro vite. Preferiscono adattarsi alla realtà e lamentarsi è il massimo del loro dissenso. Ma non li biasimo. Dopo tutto, anche i microcefali vogliono solo sopravvivere! Certo, sarebbe preferibile evitassero la presunzione del giusto e non impedissero di perseguire la felicità a chi non ha intenzione di arrecare loro alcun tipo di danno, ma fra tante specie perfette, ci stava che la natura ne creasse una che non lo fosse.

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Le persone sono abituate a ragionare per certezze e quando vengono meno le inventano. Al contrario il libertario sana il dubbio con l’esperienza. Non ha paura di negare l’ordine esistente. Lo scardina, lo erode, lo elude per creare il proprio. Non gli basta rifiutare il conformismo, la socializzazione, l’economia, il governo, il dominio. Deve distruggere per rifondare, con la consapevolezza che la vita è un continuo sperimentare, sbagliare, rimediare.

Se una volta infatti l’obbiettivo era il “gran giorno” in cui dalla rivoluzione sarebbe sorta un’umanità libera ed eguale, la violenza sadica dei mastini, l’assuefazione conformista della massa e soprattutto l’involuzione umana provocata dalla tecnicizzazione, hanno portato a concepire un’anarchia che si spoglia dalle miserie del servo consenziente senza bisogno di vestire quelle del guerrigliero intransigente. Oggi l’anarchico è consapevole che la dittatura della crescita economica, l’etica della competizione, la catalessi uniformante sono irreversibili. Il civilizzato è ormai separato dalla natura, quindi spogliato della sua essenza. Ne ignora ritmi e cicli, ne disprezza le manifestazioni, ne deturpa la bellezza, preda e distrugge per sentirsi migliore. Siamo all’assurdo che la teme e prova a dominarla. Non ci riesce e la stermina. Con la complicità di chi preferisce illudersi che, prima o poi, una mano provvidenziale eviti la catastrofe emendando le responsabilità.

Riappropriarsi del creato, un mondo vivente in cui l’assoluta diversità caratterizza l’individualità, è pertanto l’unica opzione possibile: la naturalizzazione dell’umano è il presupposto della sua evoluzione.

Il primo passo è negare il profitto quale causa di qualunque devianza e respingere ciò che lo alimenta. Esso è la più maligna delle illusioni perché giustifica ogni arbitrio. Una volta eliminato, spariscono gli artifici manipolatori che lo perpetuano: dallo Stato che lo protegge alla religione per cui è grazia divina, dall’economia che lo diffonde alla morale che lo legittima.

Il secondo è abbandonare la civiltà per immergersi nella natura selvaggia. Solo un rapporto diretto, sincero, paritario con i suoi elementi, consente all’individuo di conoscere ed essere padrone di se stesso, volontà pura agente, e trovare in essa la propria perfezione. Perché quando la volontà è disinteressata, quindi libera, attraverso le infinite relazioni partecipa alla processualità indivisa con l’unico scopo di realizzare la propria potenzialità. Una scelta che è volontaria perché non imposta, spontanea perché non determinata, ugualitaria perché ogni soggetto contribuisce per quelle che sono le sue attitudini, armonica perché condiviso è l’interesse di garantirne la perpetuazione. Una simbiosi incessante che rende il singolo universale e l’universale singolo, eternandosi reciprocamente.

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Per capire cosa intendo con l’espressione stato di natura, immagina di trovarti in una città qualsiasi. Non occorre sia New York o Singapore. Va benissimo qualunque strada o piazza di uno dei nostri quartieri. Ovunque palazzi, cemento, auto sfreccianti e parcheggiate in doppia e terza fila, persone che zampettano frettolose, altre che grugniscono al cellulare, manutentori che trapano l’asfalto, operai che fanno i trapezisti sui ponteggi. Ops, ne è caduto uno! L’aria puzza di rancido ed così pesante che non riesci a respirare. La testa scoppia per il frastuono dei clacson, delle grida umane, del rombo dei motori, della sirena delle ambulanze…

Chiudi gli occhi e concentrati sul respiro. Annulla intorno fluttuando insieme a lui. Una, due, dieci volte… Non ho detto che devi addormentarti!

Adesso riaprili!

Il cielo è terso, la luce è nitida e l’odore di erba pizzica il naso. Intorno vedi terra rigogliosa e fiori e animali che pascolano liberi. C’è pure un boschetto che si inerpica sulla collina. Ti volti e il ruscello è così trasparente che quasi ti butteresti dentro. Vicino ci sono alcune capanne, da cui il fumo di un falò ascende ipnotico…

Benvenuto nello stato di natura, dove ciò che conosci, ciò che la civilizzazione ha imposto come giusto e inopinabile, per magia sparisce per lasciare il posto alla natura selvaggia. Niente è contaminato, colonizzato, addomesticato. Non troverai un grattacielo o una fabbrica. Non ci sono auto, né cemento, tantomeno infrastrutture, tecnologia, internet, lavoro, commercio, ma solo animali che vagabondano, piante rigogliose, terra fertile e l’aria riempie i polmoni inebriando i pensieri di ossigeno. Le persone si riuniscono in gruppi nomadi che ora stanno sulla rive, domani le trovi sul monte, dopodomani stanziano sulla vicina scogliera. Raccolgono, cacciano e pescano. Le eccedenze vengono divise equamente perché ciascuno possa praticare la profondità dell’esperienza. Non hanno bisogno di sofisticazioni e artifici, si realizzano dissolvendosi nella biocenosi. Quando invece stazionano in un luogo per più tempo, coltivano rispettando la fertilità del suolo e godendo della spontaneità dei suoi prodotti. E se incontrano altri gruppi nomadi, mangiano e bevono davanti al fuoco, poi glorificano tanta magnificenza. Non si guerreggia e non si compete giacché non esiste accumulazione e ciò che è mio è tuo non perché lo impone qualcuno, ma perché sono felice di aiutarti e so che faresti la stessa cosa con me. Intanto i bambini giocano con l’ambiente sperimentando pericoli e potenzialità per affrontare le sfide future, circondati da animali da cortile che zampettano in spazi aperti perché il loro benessere vale quello dell’uomo e quello delle altre specie. Quelli selvatici osservano incuriositi. Vorrebbero partecipare, ma sono ancora diffidenti. Mentre gli alberi inondano l’aria di un profumo, ma di un profumo che… Ah no, sono i nostri amici che si stanno divertendo!

La natura non dissimula, né ha bisogno di doveri o perversioni. Ẻ pratica, empirica, corporea, sensuale, spontanea. Sviluppa rapporti affettivi che appassionano la volontà. Ẻ vero, a volte sembra crudele e spietata. Ma la minaccia non sarà mai come nella società del dominio, dove i predatori violentano, abusano, coartano per il mediocre profitto. In natura si preda per sopravvivere, non per riempire il salvadanaio. E quando le esistenze si equiparano, la lotta è leale e la casualità dell’esisto perpetua comunque il ciclo della vita.

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Per creare lo stato di natura due sono le possibilità: o si sceglie di edificarlo nella società del dominio, oppure si nega l’ordine costituito e si fugge dove esso esiste già eludendo la repressione dei suoi aguzzini.

Consideriamo la prima ipotesi. L’anarchico che risiede nella società del dominio prova a mediare con esso, ma ne viene sempre soggiogato. Vive in ambienti opprimenti, ottempera le sue regole, almeno quelle che non può fare a meno di trasgredire, è condizionato dalla sua morale mercanteggiante. E siccome la miseria del barbone non è auspicabile, deve lavorare. Per cui ogni giorno suona la sveglia, ingurgita frettolosamente una pastina confezionata con del caffè liofilizzato, prende l’auto per andare nell’ufficio di un qualunque palazzo della zona industriale, un bel loculo di due metri per uno con vista sul cesso comune che nessuno pulisce da anni. Qui trascorre ore interminabili con l’unico intermezzo del pranzo. Finito il turno, dopo un tempo eterno passato a bestemmiare nel traffico, finalmente si fionda sul divano per scolare tutta la birra che ha in frigo in maniera da dimenticare che è così tutti i giorni, tutto l’anno, tutta la vita e ormai è troppo esausto per rimediare a tanta idiozia. Ora, mi dici come il nostro eroe può trovare tempo e voglia di edificare un mondo alternativo?

Supponiamo invece che abbia ricevuto un’eredità da un misterioso zio d’America o abbia vinto la lotteria per cui non è costretto a lavorare. Vivere la natura rimanendo nella società del dominio implica però non interagire con la sua selvaticità, bensì creare un surrogato che si adatti all’ambiente civilizzato, quello urbano. E siccome il nostro campione abita in un appartamento al quarto piano, tempesta ogni angolo della casa di palme, felci, calathee, dracaene, sanseverie, orchidee, bonsai e altro. Compra anche un maialino, due galline e un cane. L’entusiasmo è alto e trascorre le giornate ad innaffiare le piante, dare da mangiare e pulire gli escrementi degli animali. Quando però invita a cena la morosa, per non sembrare pazzo trasferisce tutto in terrazza e chiude le serrande. La serata va alla grande, ma il giorno dopo il povero maialino è assiderato e le galline sono volate via. Una si è schiantata contro il muso di un autobus, l’altra si è impigliata nei cavi elettrici che passano sotto il balcone. Al cane non è andata meglio poiché si è infilato nel compattatore del camion dell’immondizia dopo essersi lanciato per recuperare quella che stava arrostendo. Distrutto nell’anima, il nostro prode sfoga la disforia con i video di shuffle dance, ignorando che le piante stanno seccando una dopo l’altra. E così finisce la sua esperienza con la natura.

Morale: non si può creare lo stato di natura rimanendo nella società del dominio.

L’anarchico deve dire basta e ricominciare altrove. Deve abbandonare la casa in cui abita, gli amici del calcetto, il lavoro che tanta soddisfazione dava ai suoi creditori, il chiasso della città, ma anche le abitudini, gli affetti ostacolanti, i confort e le suggestioni della vita civilizzata. Deve cercare un luogo incontaminato in cui di essa non ci sia traccia. Solo l’individuo che interagisce in un ambiente in cui è se stesso può sentirsi uomo!

Ma dove può andare se la società del dominio ha colonizzato ogni spazio disponibile sulla terra?

Scartata la possibilità di addentrarsi nell’oceano in cerca di un’isola deserta a causa della scarsa confidenza con gli squali, opta per la montagna. Fra le Alpi e Appennini scegli le prime perché sono più lontane e non c’è il rischio che qualcuno venga a bussare. Per non lasciare tracce medita di raggiungerle a piedi. Studiata la cartina ci ripensa e arriva in treno in un paesino dal nome impronunciabile. Si inerpica sulla prima montagna e bivacca in un bosco, che abbandonerà presto perché non sopporta gli schiamazzi dei turisti che passano da un sentiero attiguo. Cammina e cammina finché non trova un luogo inaccessibile dove può costruire la sua prima dimora da anarchico e appropriarsi della vita selvaggia che desiderava. Passano i giorni, passano i mesi ed è sempre più un elemento della natura. Unità fra infinite unità. Adesso è un uomo libero fuso con la realtà attraverso le connessioni con le sue molteplicità. Non è solo vivo, è felice. Perché cos’è la felicità se non la volontà che scopre la sua universalità?

E quando lo desta il ronzio di un drone, anziché reagire, la civiltà è sempre molto efficiente se deve reprimere, fugge insieme ai compagni che condividono la sua esperienza sovversiva. E se ne andranno ogni volta che il dominio proverà a inibire la loro libertà. In questo modo non solo eviteranno l’oppressore, ma la comunità crescerà, si moltiplicherà e i ribelli saranno così numerosi, forti e uniti che il Potere preferirà lasciarli perdere e accontentarsi di vessare chi del giogo non può fare a meno.

In conclusione: nella società del dominio la felicità è un rischio che le persone preferiscono evitare. Ẻ più comodo inseguire il profitto, assuefarsi alle sofisticazioni, osservare remissivamente le regole garanti l’ordine costituito, delegare la responsabilità per scaricare i sensi di colpa, alienarsi in pratiche socializzanti e così via. Di contro, per realizzare lo stato di natura bisogna rinunciare alla materialità, abbandonare la civiltà, vivere l’unità del creato. Ciò implica creatività, sacrificio e dedizione, soprattutto all’inizio quando spaventa lasciare l’apatica confortevolezza del vecchio mondo. La scelta è fra tirare avanti senza uno scopo o trovarlo dando dignità alla propria esistenza divenendone protagonisti. E se per molti la felicità è un’impresa troppo faticosa, per gli anarchici tornare alla natura è invece una cosa spontanea. Naturale, direi.

immagine: Albrecht Duret , La grande zolla, 1503.