LAVORO? NO, GRAZIE

C’è un momento della vita in cui si diventa adulti. Non è il primo pelo sotto le ascelle o il primo bacetto con la lingua, né la prima volta che si schianta l’auto del babbo col foglio rosa. Ẻ quando cessano gli obblighi scolastici e si entra nel mondo del lavoro. Ẻ lì che colui che fino al giorno prima era un ragazzo, improvvisamente diventa uomo e… e finalmente può essere sfruttato dal sistema.

Il lavoro è la ripetizione di una determinata prestazione manuale o intellettuale per un tempo indefinito. Ogni giorno il netturbino svuota la campana di vetro alle cinque di mattina. Il medico prescrive ricette ai pazienti perché non ritornino. L’avvocato smista caffè per difendere il cliente, il magistrato li beve, ma quello del pubblico ministero è sempre più buono. L’impiegato perfeziona le tecniche di origami. L’operaio osserva il passaggio della trama ricordando malinconicamente le dita perse. E così via. Se alla routine narcotizzante aggiungiamo che è una costrizione in quanto la società del dominio non offre alternative per sopravvivere e che è sempre disciplinato da altri, siano essi il padrone, il capo o i clienti, davvero pochi sono i fortunati che vanno a lavorare senza sperare che l’autobus non sfondi il guard rail.  

Certo, una soluzione ci sarebbe, pure abbastanza anticonformista: darsi al crimine. Ma oggi con tutta questa tecnologia è un casino anche delinquere!

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Di fatto lavorare è una pratica immorale e innaturale. Immorale perché implica essere sfruttati e sfruttare, perché la vita non può consistere nell’arricchire altri o nella rincorsa delirante alla materialità, perché in epoca di industrializzazione provoca direttamente o indirettamente danni ambientali. Senza considerare che il lavoro, qualunque esso sia e comunque venga svolto, sottrae tempo ed energie che altrimenti potrebbero essere destinati allo svolgimento di attività piacevoli, agli affetti, alla contemplazione della natura, al gioco e all’amore. E poiché viene svolto tutti i giorni, tutti gli anni finché si è troppo vecchi per godere l’esistenza, se non si ha rispetto per se stessi, non si può averlo degli altri.

Ẻ invece innaturale perché nonostante l’umano faccia lo sborone, è uno dei tanti organismi del creato. Dove non esiste subordinazione e il sacrificio e l’impegno sono funzionali alla vita, non alla superfluità che la nega. I non umani predano per nutrirsi, lottano per la sopravvivenza, cooperano per difendersi ed evolvere, dopo di che si esaltano abbandonandosi all’armonia che li circonda. Al contrario l’uomo, benché si narri di un tempo in cui giocare con i fratelli animali e interagire con le amiche piante lo esaltasse, crea finzioni malefiche perché incapace di cogliere la bellezza circostante. Difficile provare se tale deficienza logico-emotiva sia dovuta a un difetto congenito o se durante l’evoluzione abbia subito un trauma che lo ha traviato. Di certo le sue aspirazioni e le sue condotte non hanno niente a che vedere con la bellezza di questo mondo. Sarà mica che l’estinzione del Cretaceo, anziché da un asteroide, è stata provocata dallo schianto di una navicella spaziale occupata da questa specie malvagia?

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Se lavorare è immorale e innaturale, allora perché si lavora?

Come sempre quando mi pongo queste domande, anziché cercare nei libri, interrogo le persone. Diversamente da Socrate, però, attraverso il dialogo non aiuto il mio interlocutore a “partorire la verità”1 in maniera spontanea. Mi limito ad ascoltare. Spesso trattenendo la risata.

Finito l’esperimento, le risposte più gettonate sono state le seguenti:

   A-Medaglia di legno a: “il lavoro permette di realizzare le proprie potenzialità”.

Ovverosia, siccome l’uomo possiede capacità che altrimenti non saprebbe utilizzare, le riversa nella sola attività che, volente o nolente, è costretto a compiere. Alienati.

   B-Al terzo posto si piazza: “gli uomini hanno bisogno di uno scopo”.

Si tratta di individui privi di interessi e consapevolezza di sé, che per pigrizia, timore, indolenza, si rifugiano nell’obbedienza. Sono come gli agorafobici che si nascondono nella gabbia domestica. Patologici.

   C-Sul secondo gradino del podio si piazza: “si lavora per il bene della società”.

I sostenitori di questa teoria asseriscono che se nessuno lavorasse, sarebbe il caos perché scemerebbe la coesione, la condivisione dell’interesse pubblico e la partecipazione alla stessa organizzazione sociale. Non ci sarebbe sviluppo e progresso e, ecco l’inevitabile chiusura apocalittica: «Sarebbe l’anarchia!». «Tipo quella dei vostri neuroni?» avrei tanto voluto replicare.

Il lavoro è pertanto un dovere. E come tutti i doveri, va adempiuto. Chissà perché però essi vengono sempre stabiliti da chi pretende che altri li assolvano!

Quando l’umanità estinguerà il debito morale con l’autorità e ciascuno potrà decidere per se stesso, l’interazione non sarà coercitiva ma partecipativa. E il lavoro un malinconico ricordo di chi dovrà trovare un nuovo modo per sfruttare il prossimo. Integralisti.

   D-The winner is: “si lavora per soldi”.

Il lavoro è un mezzo, il denaro un fine. Fine che serve per realizzare il benessere personale. Ma il benessere è il soddisfacimento dei bisogni, che possono essere primari o secondari. E quando ho domandato a quali si riferissero, le risposte sono state nell’ordine: spese domestiche, tecnologia, mezzi di trasporto, viaggi e via discorrendo. «E il mangiare?» Ho chiesto. «Quello ce lo consegna a casa il pachistano!» hanno risposto. Pragmatici.

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Dall’esperimento risulta pertanto che il lavoro viene percepito sia come uno strumento di sviluppo personale, poiché accresce l’autostima intorpidita dai vincoli collettivi o svilita dall’inettitudine, sia sociale, in quanto non conviene rimanere ai margini dei processi di potere.

Nessuno degli intervistati invece ha fatto riferimento alle necessità essenziali. Eppure fra loro erano presenti soggetti non abbienti. Perché? Ci sono tre tipi di povertà: quella imprevista e provocata da fenomeni naturali, come la siccità, o casuale, tipo la carestia; quella indotta dal colonizzatore che sfrutta manodopera e risorse del suolo occupato, vedi il terzo mondo; quella dei paesi colonizzanti, che si manifesta quando non vengono soddisfatti gli standard definiti da chi mantiene e accresce i propri privilegi. In questo contesto, i bisogni primari e quelli secondari diventano un tutt’uno per cui il pasto non può essere frugale ma luculliano, la scarpa non è sufficiente calzi bene ma deve essere firmata, la vacanza non è il salutare ozio ma fare zumba in un resort sperduto chissà dove. E così via. Chi può permettersi di uniformarsi a questi modelli imposti dal mercato è in, chi no è out perché non contribuisce al suo sviluppo. Certo, in un sistema così fluido ogni tanto qualcuno scala i processi di potere, ma in cambio di quanti altri che invece li discendono?

Quindi che fare?

Supponiamo che Tizio sia stato licenziato. Siccome ha cinquant’anni non riesce a trovare un altro impiego. Presto la sua vita da modesta diventa squallida perché nella società civilizzata non si fa niente senza pagare e non si paga se non si lavora. Arrivato il giorno in cui non può comprarsi da mangiare, divorato dalla fame ruba un grappolo di banane al fruttivendolo. Questi lo vede, chiama le forze dell’ordine e lo arrestano. Ripresosi dalla degenza in ospedale, finisce in prigione. Se invece il nostro amico scegliesse di vivere in un ambiente de-civilizzato in cui il profitto non è indispensabile per la sopravvivenza, potrebbe cogliere dall’albero il grappolo di banane oppure il vicino potrebbe donargliene una cassa. Nello stato di natura, unica alternativa possibile alla società del dominio in quanto le soluzioni intermedie presentano sempre forme di potere, non solo si ha coscienza dei bisogni primari perché il sé non è contraffatto dalla artificiosità, ma i modi per soddisfarli sono infiniti. Più difficile assolvere quelli artificiali, dato che non esistono.

Per cambiare bisogna però avere il coraggio di abiurare la civiltà e la creatività per realizzare la propria personalità. Uno slancio che richiede di ignorare la propaganda, rinunciare al superfluo e alla sofisticazione e, soprattutto, abbandonare lo staus quo per crearne uno nuovo. Cosa di fatto impossibile per la maggior parte delle persone. Perché se il capitalismo ha un merito è quello di aver perfezionato tecniche di ingegneria sociale che hanno aggraziato il giogo. Un tempo il lavoratore era costretto a obbedire pena la frusta. In democrazia invece ciascuno può scegliere se essere deriso, disprezzato, isolato finché qualche teppistello gli dà fuoco, oppure socializzarsi producendo e consumando nell’interesse suo e della collettività. Chi partecipa è un bravo cittadino, chi non lavora è un debosciato, un fancazzista, un nullafacente, un accidioso, un sociopatico che non è degno di beneficiare dello straordinario privilegio offertogli dalla civiltà di essere servo di se stesso. E poiché a nessuno piace sentirsi un reietto, visto peraltro che la schiavitù dei bisogni almeno dà un senso alla vita, il lavoro diventa cardine su cui si fonda la società del dominio e strumento di controllo sociale.

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Il progresso è irreversibile e gli illusi che provano a cambiarlo al suo interno o vengono assorbiti diventando complici a loro volta, tipo i vari movimenti antagonisti che la politica ha annichilito, o producono effetti più dannosi della causa, vedi le politiche ambientaliste che ipocritamente fanno gli interessi del capitale. Una volta intrappolati nella sua rete, è come se le persone accettassero l’inevitabile sorte con gaudiosa rassegnazione.

Poi ci sono i ribelli che si oppongono al sopruso. Scioperano, boicottano, sabotano, manifestano per sostituire il regime con un altro. Perché se anche fossero concessi maggiori diritti, in un sistema servile sarebbero sempre servi di qualcuno. La disuguaglianza è infatti endemica alla società del dominio in quanto il progresso ha bisogno che l’individuo sia egoista, indifferente, competitivo, prevaricatore. L’unica possibilità di affrancamento è non farne parte. Negare i suoi principi, le dinamiche, le manifestazioni e fuggire dalle sue grinfie. Nonostante i tentativi, molti rimangono nella rete. Ogni tanto però qualcuno riesce a liberarsi e costruire realtà volontarie, senza profitto, biosimbiotiche e autarchiche.

Volontarietà significa che ciascuno è libero di scegliere cosa fare, con chi stare, come determinarsi. Non è assenza di ordine, ma possibilità di definirlo personalmente. Chi rifiuta la civiltà, desidera vivere nella natura selvaggia. Deve quindi appropriarsi di un luogo incontaminato dove poter essere se stesso. E poiché gli Stati hanno ormai occupato ogni spazio disponibile, deve difenderlo a ogni costo. Quando poi la violenza dei mastini diventa intollerabile, ne trova un altro. Libertà è anche la soddisfazione di eludere l’arroganza del tiranno.

Assenza di profitto significa invece sovvertire l’ideale civilizzante per cui ogni condotta sia funzionale a interessi artificiali, il primo dei quali è il denaro. Finché scopo dell’azione è l’utile, la volontà è contaminata. Quando invece si concede genuinamente all’armonia è libera. Libera di fondersi con l’ambiente per identificarsi nella cosa in sé. Questa è la biosimbiosi attraverso cui l’individuo raggiungere la felicità.

Infine l’autarchia, ovverosia l’autosufficienza data dall’unione con l’ecosistema, fondamentale affinché non si crei un’autogestione di tipo mercantile. Nello stato di natura ciò che la terra produce è sufficiente al soddisfacimento dei bisogni materiali e spirituali. L’uomo accetta i suoi doni e se indispensabile, produce senza modificare e poi divide le rimanenze. E così raccoglie, caccia, pesca, edifica, si difende e lavora non perché qualcuno gliel’ha imposto ma perché condivide le regole e gli obiettivi della comunità a cui appartiene. Che non è solo il gruppo di persone con cui spartisce il territorio, ma l’intera biocenosi.

In questa meravigliosa epifania non si è condannati a far salire il macigno sul monte per vederlo cadere a pochi passi dalla cima, così da godere della fatica di ricominciare2. Il lavoro è solo un passatempo qualsiasi. In fondo, hai mai visto uno scimpanzé che timbra il cartellino? Un faggio che consegna le pizze o un acero che costruisce grattacieli? Anche le formiche non seguono mica le scie dei feromoni lasciate dalle compagne perché sono laboriose come vogliono farci credere, ma perché non vedono l’ora di uscire dal nido e godersi l’aria fresca!

NOTE

*1 Platone, Teeteto.

*2 Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, 1942.

Immagine: Antonio Cifronti, Il ciabattino, 1720.