VIOLENTO SARAI TU!

Siamo materia e materia torneremo, una volta qualcuno ha detto. Ma siamo anche coscienza in quanto dentro di noi scorre un soffio vitale che ci rende consapevoli della presenza nel mondo. Una consapevolezza che, in barba all’antropocentrismo utilitaristico, appartiene sia agli umani che ai non umani, agli esseri animati e ai non animati, come sanno coloro che posseggono la capacità di connettersi con la natura. E come la scienza smentisce per continuare a depredarla impunemente.

Materia e soffio vitale si plasmano nei corpi dando vita alla sostanza: il sé. Sé cosciente. Sé agente. La volontà. Infinite seità identiche nella reciproca differenza, che si armonizzano interagendo per partecipare al tutto. Questo equilibrio delle molteplicità è l’armonia naturale.

Che non significa che le specie vivono in pace e amore, benché quando il leone sente l’odore della gazzella, la ama così tanto che la mangerebbe. Significa, invece, che la vita è un incessante simbiosi in cui ogni entità dipende dalle altre e, a sua volta, agisce su di loro realizzando insieme il divenire universale. Ecco perché la cooperazione, non il dominio, consente la sopravvivenza e l’evoluzione. Così è per tutti gli esseri viventi e così sarebbe per l’uomo se si donasse alla natura.

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Ma per donarsi alla natura bisogna essere puri. Superare l’inquietudine della finitudine non con artifici che creano disarmonia, ma abbandonandosi alla casualità che caratterizza il divenire. Invece, l’uomo desidera la luna come l’imperatore Caligola1 e ora si inventa la morale per sfruttare il senso di colpa, ora crea il governo per sottomettere i sudditi, ora escogita un rango per asservire l’inferiore, ora assoggetta l’ambiente. Sempre domina per sedurre l’eternità. In fondo aveva ragione Demostene in quella che è forse la sua citazione più famosa: nulla è più facile che illudersi, perché ciò che ogni uomo desidera, crede anche che sia vero.

Se però nelle relazioni con il prossimo l’arroganza può essere sufficiente per obliare la precarietà, con la natura non funziona. Pur addomesticandola, avvelenandola, distruggendola, essa dimostra sempre la propria superiorità, consolidando l’inferiorità antropica. E non intendo soltanto le impressionanti manifestazioni di forza di cui continuamente dà sfoggio, che l’uomo definisce calamità perché lo umiliano. Basta infatti osservare l’erbetta che cresce fra le crepe dell’asfalto per comprendere quanto la sua potenza vitale sia manifestazione incontrovertibile di supremazia. E di fronte a tanta maestosità il superbo soffre e si vendica. Se Lucifero, carico di risentimento e rabbia perché cacciato dal regno dei cieli a causa della sua protervia, promette dolore e sofferenza, l’umano distrugge, brutalizza, minaccia con inesorabile fervore quel regno naturare da cui ormai è escluso. A nulla vale la lacrima che nascondono dietro il braccio per ciò che poteva essere e forse non sarà mai2.

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Ovviamente non tutte le persone hanno il coraggio dell’insolente rivalsa, La maggior parte si limita a non capacitarsi del motivo per cui se il lupo mangia l’agnello o l’edera parassita asfissia gli alberi, il più evoluto del pianeta non possa distruggerlo.  

Sia chiaro, la violenza è un fenomeno naturale, l’uomo è solo il più malvagio a realizzarla. Quella praticata dai non umani infatti non soddisfa alcuna bizzarria poiché è funzionale alla sopravvivenza. Il predatore vuole sostentarsi e i maschi si scontrano per copulare o per il territorio. Quando gli animali non hanno fame, non cacciano. Se non devono accoppiarsi non si azzuffano. Solo se intimoriti aggrediscono. Stessa cosa vale nel mondo vegetale: il punteruolo rosso, ad esempio, non attacca le palme perché lo infastidisce il ciuffo di foglie che orna la cima della pianta, ma perché è un parassita che di essa si nutre.

Che si tratti di cibarsi, riprodursi o semplicemente reagire a un pericolo, in natura la violenza perpetua la volontà. Al contrario, l’uomo la perpetra per soddisfare i capricci. In fondo rispetto ai mammiferi, ai primati, agli uccelli, agli anfibi eccetera è un bambinone che ha solo quattro milioni di anni!

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La differenza fra il non umano e l’umano non è quindi l’intelligenza, ma la violenza. Questi è infatti l’unico essere che la pratica anche se non è necessaria.

Quando l’uomo freccia un cinghiale, il suo atto è dominante, ma consente la conservazione propria o del gruppo di appartenenza. Così come se uccide il felino che sta per attaccarlo. In entrambi i casi essa è tollerata dalla natura. La vita dell’uno vale l’altra e vinca il migliore. Quando invece  si barda come un marine per esporre un trofeo sulla parete oppure ricorre agli allevamenti di massa o all’agricoltura intensiva per soddisfare il mercato, quando tortura gli animali per i sadici esperimenti scientifici oppure devasta e inquina l’ambiente, nega l’alterità e danneggia l’armonia universale.

In natura infatti ogni organismo è volontà agente e le infinite volontà si connettono continuamente per condividere il divenire. Nel momento in cui questa dinamica viene pregiudicata o interrotta seguono alterazioni che inibiscono o negano la possibilità del singolo di realizzarsi in esso. Cionondimeno l’uomo devasta, distrugge, stermina senza pietà. E lo fa in nome del profitto, la più efficace trappola mentale che definisce la moralità delle condotte in base ai benefici che ne derivano.

Pensa a qualunque nefandezza compiuta e vedrai che quello è sempre la causa. Profitto che genera accumulazione. Accumulazione che produce autorità. Autorità che diventa potere e ineluttabilmente delirio di onnipotenza che si manifesta in arbitrio. L’industrializzazione, la scienza, la tecnologia, la civilizzazione in generale, altro non sono che metodi violenti per acquisire potere, in cui un manipolo di delinquenti genera privilegi esclusivi approfittando della remissività della massa, illusa che basti essere complici per poterlo conseguire.

Gli animali e le piante accumulano per necessità, non per il piacere di essere più autorevoli, e ogni entità sta bene quando, soddisfatti i bisogni primari, gode di ciò che la natura offre. L’uomo no, non si accontenta. Come Odisseo ha bisogno di esplorare nuovi mondi. Non importa se la sua ciurma viene divorata da Polifemo, trasformata in maiali dalla maga Circe o impazzisce al canto delle sirene. Il lieto fine è il ritorno a Itaca, la materialità che sana l’irrequietezza che lo perseguita.

Di fatto l’umano è vittima di un autoinganno dove tutti sono manipolati e manipolatori. Una massa di pericolosi psicopatici! Ma la cura esiste ed è la vita selvatica, attraverso cui realizzare se stessi nell’armonia universale. Tornare a quell’Eden che i folli rinnegano, dove l’identità delle sostanza è eterna felicità.

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La civiltà è come un banchetto dove chi prima arriva spera di prendere il cosciotto più grosso, ma tutti seguono le regole del padrone di casa che ha già il piatto pieno.

Nascosto dietro le tende, protetto dall’ombra, c’è l’anarchico. Non gozzoviglia al tavolo dei signori. Disprezza la loro falsa magnanimità. Sa che la loro opulenza è immorale e compiacerli significa essere correi delle loro nefandezze. Non ha bisogno di ingozzarsi, stordirsi, sorridere, ammiccare, sottomettersi per illudersi di essere felice. Semplicemente lo è perché possiede già tutto. Per questo se ne sta lì, in attesa del momento giusto per rovesciare i vassoi.

Certo, poi deve scappare per evitare la ritorsione e non sarà libero finché non costruirà la propria realtà indipendente. Ma potrà sempre trovare rifugio nelle comunità clandestine che disertano l’imperio dell’oppressore, attraverso cui eroderlo lentamente e collaborare con le altre per disgregarlo definitivamente. Oppure potrà fuggire e creare realtà affrancate dalle perversioni del profitto, aliene agli echi della socializzazione conformista, nascoste dalla morsa delle molteplici articolazioni del dominio, dove la spontaneità è scelta incondizionata, la fratellanza è benessere condiviso, la pluralità è esaltazione dell’individualità, la cooperazione è complicità creativa e la partecipazione alla natura è una festa.

E non avrà bisogno di violenza, a meno che non assuma le forme della rivolta contro un atto ingiusto, cioè contro natura, perché l’armonia sarà il suo nutrimento e la pluralità il riflesso della propria essenza. Tantomeno porterà rancore verso chi rifiuta tale bellezza. Avrà compassione del servo e un affettuoso disprezzo del suo soverchiatore, ormai ricordi di una brutta esperienza. Nelle narrazioni intorno al fuoco l’uno è il poveretto che si illude di realizzare le proprie potenzialità dimostrando di essere lo schiavo migliore, l’altro la metafora del frutto marcio che prima o poi cade diventando cibo per vermi.

Che la violenza rimanga ai civilizzati. E si scannino fra loro!

NOTE

*1 Albert Camus, Caligola, opera teatrale del 1939.

*2 Alexandre Cabanel, L’angelo caduto, 1868.

Immagine: Alexadre Cabanel, L’angelo caduto, 1868