STRATEGIA DI CONSERVAZIONE

Fatti, non parole! è il motto della civiltà. E i fatti sono che non si dà niente per niente. Ma quando l’interazione è uno scambio con contropartita, la volontà viene snaturata. Non agisce più spontaneamente, le necessità diventano artefatte e le sue potenzialità represse dalla ricerca spasmodica, affannosa, ossessiva del tornaconto. Di conseguenza, anche la realtà con cui interagisce non è più luogo armonico in cui manifestare la propria autenticità, ma ambiente in cui predare senza bisogno. E poiché la prima regola della mercificazione è che per il profitto vale tutto, sfruttare, saccheggiare, distruggere, uccidere sono azioni compiute senza rimorso. Per di più impunite, in quanto sanzionarle significherebbe riconoscere l’immoralità del sistema che alimentano. Intanto i più deboli soccombono, le biodiversità si estinguono, i viventi vengono manipolati geneticamente o allevati intensivamente, i virus si diffondono, l’aria si fa irrespirabile e poi il buco dell’ozono, il cambiamento climatico, la desertificazione e quant’altro viene ideato dall’allegra brigata grandi affari-politica. Mentre i sempliciotti, veri responsabili del disastro perché basterebbe dessero segni di vita per sovvertire lo stato delle cose, si eclissano nell’uniformità data dagli scintillanti intrattenimenti profusi dal progresso.

La civiltà è infatti quel modello sociale in cui un manipolo di buontemponi gestisce la collettività approfittando della sua apatia. Le dice cosa deve e non deve fare, come interagire, pensare, divertirsi, godere addirittura. Attraverso la legge la disciplina. Con la morale ne colpevolizza le trasgressioni. Con l’economia la munge e con la socializzazione la solubilizza nell’obbedienza, la sola verità che le è dato conoscere. L’individuo moderno crede di essere libero perché può scegliere il padrone, ma non è mai stato tanto represso. Lo spazio in cui agisce e la direzione che segue sono programmati. Il tempo è un algoritmo di adempimenti da svolgere. Pure l’affettività è ormai preconfezionata. Della sua naturale essenza non è rimasto niente. Non sa cosa significhi essere padrone di se stesso. E quando si illude, è solo perché il controllo è così invasivo che non teme la sua autonomia.

Una volta i filosofi discutevano se l’uomo fosse corpo o anima. Oggi è evidente che la civiltà ha cancellato entrambi. Il primo è merce di scambio, la seconda è rimossa dall’utile che ne deriva. E lui cosa fa? Niente. Neanche un sasso è tanto indifferente quando un piede lo schiaccia!

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Dal punto di vista personale la noncuranza è una strategia conservativa. Forse non proprio virtuosa, ma se gli irresoluti sono più numerosi degli audaci un motivo ci sarà. Il problema casomai è quando impongono la loro ignavia sperando di trarne profitto. Ma si sa, la viltà si alimenta della doppiezza.

Certo, ogni tanto qualcuno si rende conto che forse non è come gli hanno fatto credere. Ma in un ordine fondato su valori mercantili, anche le rivoluzioni che saltuariamente lo agitano diventano rivendicazioni di rango volte a ottenere le medesime possibilità di chi spadroneggia i processi di potere. Pensa alla controcultura degli anni sessanta che reclamava i diritti delle donne o dei neri fino a quel momento esclusi dal sistema capitalista. Dopo lotte e sacrifici hanno finalmente ottenuto il risultato di essere reazionari più di coloro che avversavano.

La remissività è nella natura umana. L’uomo è un essere fragile e la sua fragilità, come tutte le cose del creato, ha un valore ambivalente. Se da una parte lo rende capace di opere artistiche straordinarie, di invenzioni scientifiche surreali, di autocoscienze complesse che fanno la fortuna degli strizzacervelli, mi piacerebbe comunque capire come si può affermare con certezza che le formiche, gli elefanti o le mangrovie non abbiano i loro Michelangelo, Einstein e Freud, dall’altra lo rende l’unico essere vivente che per spirito di conservazione regredisce anziché progredire. Teme il cambiamento perché convinto che al male non ci sia fine e così si affida all’autorità di turno. In questo modo, se la morsa improvvisamente asfissia, può sempre dire che la responsabilità è sua. Senza mai disobbedire, però.

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Eppure in natura ogni essere è autonomo e, quando prevista, la gerarchia è una necessità a cui il singolo può decidere di non aderire. Per questo la rivoluzione è prima di tutto un atto spirituale che consiste nel rompere con l’ordine costituito per cominciare un’esistenza che con esso non abbia niente a che fare. Finché si crede che qualcuno o qualcosa possa cambiare la trama della propria vita non si è padroni di se stessi!

Faccio un esempio. L’uomo sta distruggendo l’ambiente e la sesta estinzione1 è già iniziata. Da più parti si propone di ripristinare il patto con la natura in cui la sua sacralità sia declinata al futuro e non al passato. Che in termini concreti significa applicare una serie di strategie correttive in cui le persone devono rinunciare a parte dei confortevoli privilegi materiali elargiti dal progresso e i governi devono impegnarsi a trovare soluzioni che lo orientino verso scelte ecosostenibili.

Pensiero stupendo, mi viene da canticchiare. Meglio non dire, però2.

Sono adorabili questi profeti dell’ecologismo che desiderano salvare il mondo come i turisti bramano proteggere gli animali che vivacizzano i loro safari!

La verità è che la denaturalizzazione è una realtà che ha molteplici cause. Non serve intervenire sul riscaldamento climatico se non si impedisce lo sfruttamento intensivo, non si pone un freno alla crescita demografica o non si contrasta la deforestazione e l’inquinamento. Non basta correggere la singola azione quando opera in un sistema marcio. Se non si agisce radicalmente sull’economia che genera sopruso, sull’industrializzazione che preda l’ambiente, sulla tecnologia che trasforma e consuma e soprattutto non si elimina il principio per cui il profitto prevale sul resto, la fine è certa. E il dramma sfiorerà i sottili neuroni del sempliciotto soltanto quando toccherà il suo portafoglio.

Finché le persone non cessano di collaborare col male, ogni proposta è un pour parler. Utilissimo per nutrire chi riempie i salotti televisivi o vendere libri, un po’ meno per evitare la rovina. Non è infatti al futuro che bisogna guardare, ma al presente. E il presente è che la catastrofe può essere fermata solo eliminando la società del dominio. Occorre che ogni individualità si convinca che deve essere padrona di se stessa, che può esserlo soltanto svincolandosi dai pregiudizi che la determinano e che deve operare in un ambiente che premi il disinteresse e stimoli la spontaneità. Una consapevolezza che matura personalmente risolvendo le fragilità nell’abbandono e si concretizza con scelte radicali che portano a una nuova era silvestre in cui la ragione utilitaristica lascia il posto all’ascolto, al fiuto, al sapore, alla contemplazione, alla connessione e alle altre infinite capacità sensoriali ignote al barbaro civilizzato, che la natura invece riesce a stimolare.

Rifugiarsi nel selvaggio e difenderlo a ogni costo e con tutti i mezzi possibili è ciò che deve essere fatto per se stessi, per l’alterità e per l’ambiente, luogo in cui la volontà si perfeziona nell’armonia reciproca. Se ciò non diventa scopo spirituale prima ancora che esistenziale, oltre alle scontate implicazioni ambientali e alla perpetuazione della gerarchia, le soddisfazioni personali saranno autocompiacimenti transitori, le consolazioni retoriche e la volontà un nulla che, a confronto, il nichilismo è un’esplosione di speranza.

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Quando un frugoletto disegna, non riproduce i canyon di Manhattan, le auto ferme in tangenziale o i siti di smaltimento dei rifiuti tossici. Traccia le curvature delle montagne, raffigura gli animali e gli alberi e fra il sole e le loro chiome abbozza qualche nuvoletta e stormi di uccelli. Questo perché l’uomo non può negare di essere stato, un tempo, felice come i cervi di bosco3. E un animo puro a quell’armonia originaria si ispira e aspira. Ẻ infatti a quest’impulso primordiale e selvaggio che il ribelle tende quando fugge dalle macerie dell’anima per recuperare la sublime capacità di decidere della propria vita.

Immagina cosa sarebbe se domani non esistesse la civiltà. Verrebbe meno lo sfruttamento, la violenza, le predazione, scomparirebbero le città, le industrie, il cemento, la tecnologia, le istituzioni e tutto ciò che conosciamo. Saremmo noi e la natura. Nudi nella sua immensità. Spaventati certo, perché abituati a temere l’orso che si avvicina indiscreto e non l’estorsione dell’autorità, ma dopo verremmo travolti dal piacere dei colori, degli odori, della freschezza, dalla curiosità della scoperta, dal desiderio, quasi un bisogno, di simpatizzare con gli animali, di svagarsi in un prato o divertirsi fra gli alberi. Ci abbandoneremmo esaltati, attoniti per non averla apprezzata prima, ma anche delusi di averla offesa per troppo tempo. Saremmo volontà unica perché non l’amore per i soldi, non la fede, non la fama, non la giustizia… datemi solo la verità, diceva Thoreau4. Che consiste nel respirare come gli alberi, nel correre come gli animali, nel divenire come le correnti dei mari, nell’essere equilibrio di interazioni paritarie e affettive con gli esseri del mondo.

La voglia di vivere si realizza nella natura selvaggia perché se il corpo determina la specificità dell’intelligenza, dei bisogni, delle capacità, la sostanza è la stessa delle molteplicità che la popolano e si autodetermina attraverso la condivisione identitaria con esse. Una natura che non è riserva che sollazza i ricchi, né ristoro dall’esistenza alienante del civilizzato. Non è fonte di vita, energia, benessere che va protetta e conservata perché utile o per simpatia. Non è il deus sive natura che divinizza il mondo5, tantomeno l’eterno uno concesso da Dio all’uomo per favorire nuove esperienze che ispirino fiducia in se stessi6. Non è mezzo per un fine, né sistema o teoretica. Non si racchiude in formule meccaniche o categorie ordinabili. Non è definibile se non come vita. Banalmente vita. Immanentemente vita in cui le azioni di attori si intrecciano formando un flusso condiviso senza ideatori, iniziatori, proprietari, padroni7. Ẻ semplice volontà cangiante in cui quella di ogni essere si perfeziona contribuendo all’autocoscienza universale del suo divenire.

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Mentre il civilizzato si affanna a cercare la felicità bramando scampoli di esistenza che ricordino esperienze piacevoli, il libertario sa dove e come trovarla. Anche se non esiste un manuale del bravo ribelle e tutto è lasciato all’improvvisazione e alla sperimentazione, dissolta l’individualità nella comunione con la natura, sente che deve sostituire il profitto con la gratuità. Le cose di cui ha bisogno, quelle più preziose, non si comprano. Ci sono. Sono lì, disponibili a tutti perché tutti ne godano. Disinteressato alle superfluità materiali, non chiede, ma dà. Si offre alle alterità per unificarsi nell’universale. In questo modo le relazioni esaltano l’antiautoritarismo, poiché l’eguaglianza delle diversità favorisce la simbiosi, e la cooperazione, in quanto il benessere personale dato dalla partecipazione al divenire è realizzabile solo se condiviso.

Gratuità, antiautoritarismo, cooperazione… non male come inizio!

Ricominciare dallo stato di natura è pertanto l’unica via per riappropriarsi del sé. L’autodeterminazione è possibile dove niente è artefatto, imposto, manipolato, pregiudicato dall’ipocrita mano umana, dove le differenze si combinano, dove la vita è un’avventura e morire equivale a vivere, dove il gesto è spontaneo, il sentimento profondo, la scoperta sorprende, la sensualità esplode. Ẻ nell’impervio cortese del selvatico che l’uomo deve addentrarsi con la curiosità del bambino, sperimentare con la vivacità del ragazzo, cooperare con la maturità di chi conosce il giusto. Luogo incontaminato dove esso non si negozia e non si sofistica, ma è carnale e celebrale, stimolato da quel senso morale che solo essa sa offrire.

Contro gli effetti della necrofila mercificazione dello scibile la soluzione esiste e se apri la finestra è proprio davanti a te. Anche se stamani c’è un po’ di nebbia che copre le montagne, hai due soluzioni: raggiungerle per cominciare una nuova vita, oppure buttarti di sotto. Morire è più dignitoso che arrendersi.

Preferisci il mare? Vero, anche la sua immensità inebria, ma interagire con un crostaceo, un mollusco o un cefalopode è un po’ più complesso che con una mucca o un lupo. Un passo alla volta!

NOTE

*1 Leakey Richard e Lewin Roger, La sesta estinzione, Bollati, 2015.

*2 Patti Pravo, Pensiero stupendo, canzone del 1978.

*3 Friedrich Holderlin, Iperione, 1797.

*4 Henry David Thoreau, Walden, 1854.

*5 Baruch Spinoza, Etica, 1677.

*6 Ralph Waldo Emerson, Nature, 1836.

*7 James Lovelock, Gaia, 1979.

Diversamente da Lovelock, non credo che la terra sia un unico organismo, Gaia appunto, capace di autoregolarsi e di replicare ai fattori che turbano gli equilibri naturali. L’intreccio (Termine usato anche da Bruno Latour in La sfida di Gaia, 2020, ma riconducibile a Humboldt in Kosmos, 1845) delle azioni compiute dagli attori organici e inorganici è infatti spontaneo e casuale, assolutamente privo sia della soggettività unitaria del superorganismo, che della provvidenzialità Assoluta riconosciuta dai filosofi naturalisti fino al materialismo scientifico del XIX secolo. Ẻ interazione delle volontà egoiste che condividono il medesimo scopo, la vita, per il quale realizzano condotte simbiotiche che producono il tutto armonico. Di cui peraltro sono consapevoli grazie alle molteplici connessioni spontanee che reiterano la vitalità dell’estasi.

Immagine: Luca Cranach, L’età dell’oro, 1530.

ORGOGLIOSO DI ESSERE STATO UN ECCELLENTE SOMARO

La scuola non mi è mai piaciuta. Ero piccolo e già mi sembrava una coercizione sadica. Non capivo perché dovevamo apprendere cose che volevano altri e dovessimo ascoltare degli sfigatelli attempati. Odiavo i fatiscenti edifici quadrati in cui ci incarceravano, i banchi in cui ci incatenavano, il suono del gesso sulla lavagna, i cessi sempre sporchi… vogliamo parlare del lezzo stagnante di cui erano intrise le aule? Per questo quando entravo in classe mi piazzavo sempre vicino alla finestra dove per tutta la mattinata fissavo le chiome degli alberi ondeggiare al vento immaginando che da dietro i loro tronchi apparisse un cervo, un orso, anche un umilissimo topino che catturasse la mia fantasia. L’unica eccezione la lezione di religione. Anche se forse il merito era del decolté della professoressa.

I momenti più divertenti invece si verificavano quando l’argomento sfiorava la realtà contingente. L’insegnante cambiava registro vocale come se fosse spiato dal KGB e assumeva un atteggiamento sacrale trasformando il discorso in un’apologia dell’ordine costituito. Mazzini era un eroe nazionale, non un terrorista. Mussolini un dittatore, non un eletto dal popolo. La Costituzione dava dignità ai cittadini, non legittimava lo Stato. E così via. Tanto entusiasmo manieristico e il malcelato desiderio di conservazione mi parevano la parodia del miglior Sordi.

Ogni tanto per giustificarli mi dicevo che non lo facessero apposta, che davvero fossero persuasi della giustezza del sistema di cui erano servi fedeli e partecipassero convinti alla sua conservazione. Salvo poi convenire che la cosa sarebbe stata ancora più infida perché se gli abusi possono essere fisici e psicologici, non è scritto da nessuna parte che i primi siano più gravi dei secondi.

Quando mi resi conto che la manipolazione aveva effetto sui miei compagni mentre su di me generava l’assoluta indifferenza, cominciai a dubitare di essere nell’ordine: un anaffettivo, un sociopatico, un pazzo che sarebbe finito in manicomio prima ancora di scopare. E così una mattina decisi che avrei cominciato a fingere con falsa leggerezza. Il piano era conformarmi al convenzionalismo imperante finché non sarei stato libero di esprimere la mia opinione. Ero giovane e fiducioso, non potevo immaginare che un adulto può riuscirci solo se vive in una baita a quattromila metri.

C’è un episodio in terza media che probabilmente fece da spartiacque fra ciò che ero e ciò che sono stato poi. Durante un’interrogazione affermai che le nazioni sorgono sullo sterminio delle popolazioni indigene e feci l’esempio degli Stati Uniti. La professoressa sussultò: «Ma è grazie a loro che siamo un paese democratico!». «Secondo me gli indiani stavano meglio prima!» le replicai mentre andavo al banco. Fu una tragedia. Convocarono i miei genitori, coinvolsero lo psicologo dell’istituto, dovetti fare ammenda e trascorsi i giorni di sospensione togliendo le foglie secche dal giardino della scuola. Non lo dissi a nessuno ma stare nella natura anziché in classe era quello che volevo. E così cominciai a pensare che essere a-normale non fosse poi così male.

Fu allora che si rafforzò in me la convinzione che il potere è una efferatezza che si conquista con l’arroganza malvagia e si mantiene con l’intimidazione perversa. Ma che può essere raggirato ignorandolo ed eluso sfruttandolo come lui fa con noi. E così se da una parte assecondavo la volontà delle istituzioni per non avere problemi, dall’altra le usavo per togliermi qualche soddisfazione. Come quando dopo un bel voto feci pressione sul professore di tecnica perché parlasse con il collega di educazione fisica, nonché allenatore della squadra di calcio della scuola che mi teneva sempre in panchina a causa della reciproca antipatia. E alla prima partita da titolare segnai due goal. Tiè!

Non ricordo invece come e quando il mio io ostile sia diventato insubordinato. Quando cioè ho maturato una consapevolezza libertaria. Forse il fatto che le uniche autorità che conoscevo erano quella violenta di mio padre, quella manipolatrice dei maestri e quella viscida dei preti, aveva progressivamente esaurito il mio ottimismo. Forse l’esperienza mi aveva insegnato che gli arroganti non sono mai gli ultimi e quando lo sono è perché scimmiottano i primi. Forse anarchici si nasce e in me è germogliato subito il seme. Non so. So però che sono sempre stato orgoglioso di essere considerato un eccellente somaro.

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Sono passati così tanti anni da allora che ho smesso di contarli. Ma ho sempre avuto ben chiaro che esistono tre tipi di persone: i dominatori, i servi e i liberi.

I dominatori sono coloro che usano l’autorità per esercitare un potere che spesso diventa arbitrio. I servi sono coloro che si adattano alle situazioni e le sfruttano anteponendo l’interesse alla dignità. Sono persone remissive alle circostanze, rispettose delle leggi dietro cui si nascondono, accondiscendenti per profitto. Replicano i soliti gesti, desiderano le medesime banalità, sognano di dare un senso alla propria nullità. Si fanno chiamare resilienti perché coglioni suona male.

I liberi pretendono di essere se stessi. Non conoscono il pregiudizio e ogni esperienza è una scoperta. Considerano la socializzazione oppressiva, le regole servono ma quelle stabilite dagli altri sono prigioni, l’economia mercifica lo scibile affinché i soliti si arricchiscano, la morale è di chi non sa cogliere il giusto, l’autorità… beh, quella va semplicemente annientata! Non hanno bisogno di una guida, si affidano al mondo che li attornia per orientarsi. Si mimetizzano nell’ombra per non essere coartati, si rivelano nel creato, dove l’unico dovere è essere felici. 

Non c’è bisogno che ti dica a quale delle due categorie appartengono gli insegnanti e tutti i manipolatori che a essi si ispirano, artefici della volontà di potenza dei loro dominatori. Perché nella società moderna il Potere non può perdere tempo a educare col manganello. Si affida ai suoi subalterni per modellare i giovani a un futuro raggiante. Il suo.

Chi vuol essere se stesso pertanto, più che le stimmate del ribelle, deve possedere lo spirito del deviato, come i fautori del controllo sociale definiscono colui che ignora i diritti e le norme sociali. E non potrebbe essere diversamente. I primi sono stabiliti dal sistema per giustificare i doveri che le seconde impongono. Il libertario, ovverosia colui che è animato dalla volontà di vivere, nega ciò che la ostacola e pretende un ambiente armonico in cui interagire spontaneamente. Un mondo alla rovescia1 letale per chi ha bisogno di quello ordinario per trarre profitto.

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Da studente mi turbava che la mia materia preferita fosse anche la più manipolata. Amavo la storia. Non faticavo a studiarla. Mi divertiva ripeterla. Con facilità mandavo a mente le date, confrontavo le gesta dei condottieri, comparavo corsi e ricorsi storici con l’entusiasmo di un novello Vico. Mi sembrava una metafora che spiega la vita. Ne coglievo la straordinaria forza etica che dava sostanza alle azioni umane. Come quel gioco in cui unendo i punti sul foglio bianco la penna disegna una forma reale, conoscere il passato mi pareva il modo più appropriato per definire il presente. Ovviamente non avevo la capacità e la possibilità di svincolarmi dalla propaganda storiografica e dovetti attendere l’università per studiarla da autodidatta con la passione del ricercatore che insegue l’antidoto al male oscuro.

Ho cominciato leggendo Tucidite1, probabilmente il primo a considerarla come il prodotto delle azioni umane. Capito poco o niente, ho spostato la mia attenzione ai romani Livio e Tacito2 con l’intenzione di comprenderne la tecniche narrative. Mi sono poi immerso in svariate opere medioevali per cogliere l’influenza dell’annichilimento religioso, dopodiché ho divorato ogni testo mi capitasse fra le mani giungendo alla conclusione che: sino a quando i leoni non avranno i loro storici, i racconti di caccia continueranno a glorificare i cacciatori, come recita un vecchio adagio africano. E forse è a causa di questa sensazione di impotenza che più leggevo, più apprendevo, più mi sembrava di allontanarmi da quell’essenza che stavo cercando.

Finché non ho incontrato nuovamente Hegel.

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Ci eravamo conosciuti la prima volta al liceo quando il buon Abbagnano mi aveva spiegato il suo idealismo. Ero rimasto suggestionato dal concetto di assoluto immanente e condividevo che esso potesse essere colto in un istante non sempre ripetibile. Di contro disapprovavo, non poteva essere altrimenti, che la libertà esistesse perché lo Stato la concede ai cittadini. Uno a uno e palla al centro.

Quando però ci siamo ritrovati, ho compreso la grandezza delle sua opera. La sua visione della storia come successione razionale di accadimenti che rappresenta lo spirito del mondo attraverso quello dei popoli che si succedono nel tempo mi ha entusiasmato. Ovviamente dissentivo che i tedeschi fossero gli unici ad averlo incarnato, che fosse circoscritto alle sole questioni umane e che la filosofia rappresentasse il momento in cui comprendere che l’assoluto è Dio manifestatosi attraverso lo spettacolo delle passioni. Ma l’idea che esistesse un’anima universale che diviene nel tempo passando da un’entità all’altra, spogliata dalla fenomenologia, dal razionalismo dialettico e dal propagandismo, era affine alla mia concezione di unità in divenire creata dalla semiosi delle infinite molteplicità4 di cui ero consapevole grazie alle numerose e variegate esperienze empatiche con la natura.

Ebbene sì, anche se per un breve periodo, mi sono sentito egheliano. Un egheliano magari un po’ eterodosso, ma convinto che esistesse un assoluto che l’individuo può conoscere.

La realtà è, infatti, composta da esseri in continuo divenire. Divenire che si perpetua anche dopo la morte, quando diventano altro. Si nasce, si muta, si perisce, si rinasce. E così in eterno. In questo fluire perpetuo della materia, ogni singola volontà si trasforma incessantemente attraverso le infinite relazioni con gli elementi che la circondano per cogliere la partecipazione al tutto e poi ricominciare mutando per trovarla ancora. Questo divenire universale in cui ogni essere si fonde nella cosa in sé è lo spirito del mondo di cui ho sempre percepito prima, compreso poi l’esistenza.

Concepita come narrazione della totalità delle connessioni che operano nell’ambiente, la storia diventa così il racconto dell’evoluzione unitaria dei suoi costituenti. Un’evoluzione che non è sviluppo teleologico né ciclico, ma casuale, dato dalle combinazioni improvvise e imprevedibili che uniscono le volontà nell’unità dinamica, viva e pulsante. Una Storia con la S maiuscola, che narra la fusione dell’umano e non umano senza più differenze e prevaricazioni, senza vincoli e senza scopi, se non quello di perpetuarsi nell’armonia eterna. Un racconto universale che ignora la sistematica esposizione di fatti, che non è più l’esaltazione del dominatore di turno reso anaffettivo dall’avidità, che invece testimonia la grande terra-foresta5 dove le interazioni paritarie, cooperanti, sinergiche, solidali rendono gli attori artefici del bene comune. La natura.

NOTE

*1 Raoul Vaneigem, Il libro dei piaceri, Ortica Editore, 1979.

Tucidite, La guerra del Pelopponeso, 460 ac.

*2 Ab Urbe Condita, 9 ac per il primo e Historiae e gli Annales, 14 dc per il secondo.

*3 Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, raccolte e pubblicate nel 1837.

*4 L’eterogenesi dei fini è stata formulata da Vico, che la concepisce come possibilità di arrivare a conclusioni opposte rispetto alla finalità previste e ripres da V. Pareto nel Trattato di Sociologia generale del 1916, come non corrispondenza fra le conseguenze oggettive e la relazione mezzi-fini concepita dal soggetto.

*5 Così Davi Kopenawa definisce quello che i “Bianchi” chiamano “mondo intero” in La caduta del cielo, Nottetempo, 2010.

Immagine: John Martin, Pandemonium, 1841

IL GIOCO DI UNA GIORNATA QUALSIASI

La logica del dominio è globalizzata. Il mercato detta le regole, lo Stato esegue imponendole a Roma come a Tokyo, a Madrid come a Sydney, a Islamabad come a Antananarivo. Lavoro, commercio, sentimenti, relazioni, consumo, ogni attività è subordinata ad una contropartita. Una mercificazione delle scibile che identifica talmente l’individuo con i beni da renderli un corpo unico.

Gli effetti di questo stravolgimento esistenziale sono molteplici, ma fra tutti si rileva la disumanità, cioè l’incapacità sensoriale e spirituale di cogliere la naturalità originaria; l’annullamento delle potenzialità personali, limitate al mediocre adattamento servile; il soffocamento dei propositi ribelli, o anche solo innovatori, volti ad ascendere i processi di potere per conseguire maggiori profitti. Ovvio che, in questo contesto, i piaceri tossici e le speranze necrofile diventino l’unica rievocazione della sensualità perduta.

L’irreversibilità del sistema rende impossibile ogni alternativa. Possibile invece la sua evoluzione, ma solo in peggio. Al ribelle la scelta: follia o diserzione. E se diserzione, che si manifesti con la dissidente interruzione di ogni sua pratica e con l’unione di persone affratellate che, evitato lo scontro con il Potere, sviluppino dinamiche clandestine fondate sull’antiautoritarismo, sul personalismo, sul pluralismo, sull’autarchia e sulla gratuità. Ma soprattutto sulla naturalitudine, cioè la capacità di concepirsi natura. Il creato deve diventare l’universo personale in cui la volontà spazia liberamente per realizzare le proprie attitudini sensoriali. E ciò è possibile solo rinunciando ai surrogati artificiosi ed estendendo la nicchia ecologica antropica1 all’universalità affinché essa si moltiplichi spontaneamente nelle sue infinite possibilità.

Tanto salda sarà la determinazione dei ribelli, tanto dissociante si svilupperà la loro azione, tanto coordinati saranno gli autogoverni, tanto inarrestabile sarà l’autonomia. Tanto il Potere, pur di mantenere la sovranità sulla maggioranza asservita, arriverà a trattare, legittimandoli di fatto. E magari non potrà fare a meno di riconoscere loro il diritto di astensione e cesserà di ostacolarne la sovranità. Quanto ai garzoni di stalla2 che si oppongono all’autosufficienza libertaria per conservare i propri privilegi, l’unica strategia è ignorarli. Chi vuole vivere si disinteressa della morte!

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Per confrontare gli effetti della società moderna con quella anarchica, posto che quest’ultima può essere rappresentata solo in base alle numerose, ma ancora relative, pratiche clandestine, e che non è possibile predire il futuro, facciamo un gioco.

Dopo tutto giocare è la base dell’educazione libertaria!

Immaginiamo la giornata di tre soggetti: l’omologato, colui che pratica le regole della società civile; il refrattario, ovvero l’attivista che a essa si adegua nonostante la disprezzi; l’illuminato, che invece la rifugge per vivere in una comunità anarchica. E siccome esistono modelli anche molto diversi fra loro, scelgo quella che pratica la biosimbiosi, cioè condivide con la natura l’esperienza esaltante della vita selvaggia.

L’ALBA DI UN DI UN GIORNO QUALSIASI

Squilla la sveglia e l’OMOLOGATO sobbalza di soprassalto come se avesse fatto un brutto incubo. Seduto sul letto con la fronte fradicia e una pesante ipossia, si guarda intorno tramortito. Non riconosce né il posto in cui si trova, né la persona che dorme a suo fianco. Eppure sa che nelle prossime ore lo attende l’ennesimo intermezzo molesto fra un sonno e l’altro.

Ciondola fino al bagno, fa colazione in piedi, si veste a puntino, saluta la moglie con la mano perché detesta l’odore di quella crema con cui si impiastriccia il viso, calza gli occhiali da sole. «Vogliamo andare?» grugnisce alla prole. Al solito l’ascensore è pieno. «Entrate voi, io faccio le scale!» sperando si verifichi un improvviso blackout. Sgomma nel parcheggio condominiale: non vede l’ora di immergersi nel traffico per mandare a quel paese più persone possibile.

 

Il REFRATTARIO spenge la sveglia e si riaddormenta. Profanarla è uno dei pochi piaceri che la società civile gli concede. Si alza fregandosene d’aver perso la coincidenza perché il negozietto di antiquariato è suo e non ha orari. Ma l’ufficiale giudiziario sì ed è già davanti all’ingresso per sfrattarlo. Due anni senza pagare l’affitto più che inadempienza sono un’occupazione. Riflettere su questo addolcisce il risveglio. E sapere che l’inserviente pubblico dovrà tornare perché ha trovato abbassata la saracinesca è l’unico motivo per cui asseconda la richiesta della moglie di portare la figlia a scuola.

 

La sveglia dell’ILLUMINATO è la lingua del cane allo spuntare della prima luce. Lo libera in giardino e già che è lì butta un po’ di mangime alle galline che starnazzano allegre. Agli altri animali si concederà più tardi perché è il momento di chiamare i bambini. Oggi per loro è una giornata speciale. La mattina partecipano a una lezione di orientamento nel bosco, nel pomeriggio alla rottura della cagliata. E infatti sarà per l’eccitazione di imparare cose nuove, sarà per l’aria ancora pungente, prima si saziano con le uova appena sfornate, poi lo aiutano ad accumulare le foglie che verranno utilizzate come concime. Sua moglie invece sta bussando ai vicini per raccogliere gli alimenti che utilizzerà nella preparazione del pranzo comune. Come cuoca non è alla sua altezza, ma migliorerà. Quanto a lui, osserva i figli immergersi nel bosco e poi si gode il tepore del sole che sbuca da dietro le montagne.

LA MATTINA

La mattina dell’OMOLOGATO è come il giorno precedente, quello successivo e così per i prossimi trent’anni. Giunto in ufficio, riordina gli appunti al computer, risponde al telefono, riceve i clienti. Ẻ dipendente di un’agenzia immobiliare per cui l’approccio sgargiante con l’arzilla signora a cui deve mostrare un appartamento del centro è di rito. Quello con il suo barboncino un po’ meno. E infatti le chiede gentilmente se può lasciarlo in auto dopo averlo rimosso dalla propria caviglia.

Tornato alla base, di nuovo computer e telefono. L’appuntamento delle undici è saltato e potrebbe concedersi un caffè alla macchinetta se le cialde non fossero finite. Sbriga le ultime faccende e alle dodici e cinquantanove afferra il panierino. Si alza dalla scrivania attento a non fare rumore e con circospezione scivola lungo il corridoio che percorre a passo di pantera finché una voce grida il suo nome. Ẻ il capo, che lo richiama perché la cliente ha minacciato di far causa all’agenzia per maltrattamento di animali.

 

Dopo aver accompagnato la figlia a un isolato da scuola perché non vuole che gli amici vedano che è con il padre, il REFRATTARIO si rintana nel negozio. Riordina le cianfrusaglie e si piazza dietro il bancone, dove non trova di meglio da fare che sfidare Billo71 a una partita a scacchi on line. Di tanto in tanto saluta con una smorfia lugubre i passanti. Alle dieci e trenta cessa ogni impegno per fumare un sigaro. Alle undici compra il giornale. A mezzogiorno la solita telefonata della moglie in cui si lamenta delle colleghe, del tempo, delle zanzare, della forma delle nuvole, dei reumatismi e di quant’altro le venga in mente in quei trentaquattro fottuti minuti di logorrea. Riattacca che è stremato, ma trincerarsi dietro questa ritualità collaudata è l’unico modo per non finire come Michael Duglas in quel famoso film che spara a tutti3.

Poco prima dell’ora di pranzo finalmente arrivano gli amici del Raggio Nero. Li aspettava impaziente. Chiude a chiave, li interroga eccitato perché non vede l’ora di rivitalizzare le sue abilità sovvertitrici. Propongono di rivestire di pellicola trasparente il monumento a Giuseppe Mazzoni in piazza del Duomo. «Tipo Dexter Morgan?»4 chiede confuso. «Perché non ti piace?» replica uno di loro. «Meraviglioso!» risponde rassegnato.

 

L’autunno è sempre un periodo di fermento nella comunità anarchica. Le famiglie si organizzano nelle attività agrosilvopastorali in maniera da raccoglie quanto dona la natura. Una parte verrà utilizzata per l’inverno, l’altra sarà distribuita fra chi ha bisogno. E così il nostro ILLUMINATO trascorre gran parte della mattinata all’aria aperta raggruppando nelle casse la verdura di stagione. Se avrà tempo, più tardi porterà le eccedenze allo smistamento.

Prima di avviarsi verso la piazza in cui pranzerà insieme agli altri membri della comunità, distribuisce il cibo agli animali che soggiornano vicino casa. I maiali e i cavalli a cui ha costruito un confortevole riparo dalle intemperie, le caprette che scorrazzano instancabili nel prato, le due mucche golosissime del fieno che cresce rigoglioso dopo il torrente. Raccoglie anche qualche fungo e ammucchia gli avanzi per i lupi perché la natura è scambio reciproco attraverso cui i suoi elementi si completano.

Sta rientrando a casa quando ricorda che deve raccogliere i ricci delle castagne. Ma non c’è fretta e dopo essersi intrattenuto coi vicini che organizzano un’orgia per il plenilunio, a cui non parteciperà perché già occupato con un’altra coppia, passa da casa per ritemprarsi con un assaggio abbondante di stufato. Torna indietro per versare un po’ d’acqua nel pentolone sia mai la moglie si accorga che ne ha mangiato troppo. Perché rinunciare alla società del dominio per lo stato di natura estingue ogni forma di subordinazione, tranne quella verso la consorte.

POMERIGGIO

Il pomeriggio dell’OMOLOGATO trascorre fra smancerie ipocrite con i clienti, alienazione davanti al computer, picchi fantasiosi per ammorbidire il boss su quell’aumento che tanto gli servirebbe per pagare il mutuo. Il momento più appagante quando fa le fotocopie. Consumare una risma riproducendo ora la mano, ora la guancia, ora il dito medio è sempre una gran bella soddisfazione. Quello più convulso quando verso le sette meno due minuti si alza dalla scrivania attento a non fare rumore e con circospezione scivola lungo il corridoio che percorre a passo di pantera finché una voce grida il suo nome. Ẻ il capo, che lo richiama per consegnargli la lettere di licenziamento.

Fortunatamente la giornata sta finendo, altrimenti chissà quali altre soddisfazioni gli riserverebbe.

 

Il pomeriggio del REFRATTARIO comincia con un balzo di creatività artistica stimolato dall’ennesima cartella esattoriale. Non la pagherà come non ha pagato le altre. Non è tipo da fare discriminazioni. Con i fogli realizza dei simpatici origami a forma di rana che pone sulla cassapanca del XIX secolo che gli piace tanto. Nella partita a scacchi on line concede a Salsiccia90 un rapido matto del barbiere. Legge il giornale e qualche pagina di una rivista anarchica. Caffè a metà pomeriggio e solo verso le sei entra quello che sembra il primo cliente della giornata. La sua gestualità rileva una certa insicurezza e così: «Se ha bisogno dica pure!» il nostro eroe interviene cortese. Il tipo scuote la testa, fissa la strada e poi: «Via Roma è da queste parti?»

Neanche è uscito che si ripresentano i compagni del Raggio Nero. Dopo una lunga interlocuzione sulla fase distruttrice di Bakunin, il Rosso arriva al punto: hanno modificato il piano pensando a un’azione «bella tosta». Si tratta di scrivere una frase, la appunta su un foglio temendo che nel negozio siano installate delle cimici, sulla facciata del duomo. Il refrattario rilascia un’espressione contorta: «E io che dovrei fare, tenere il sacchetto con le bombolette?»

 

Dopo aver consegno le casse al deposito l’ILLUMINATO raggiunge la grande piazza dove la comunità si ritrova ogni giorno per condividere il pranzo. Pasto frugale e mentre tutti i bambini giocano nel bosco e gli adulti si dividono fra chi fa una pennichella, chi passeggia e chi chiacchera, raggiunge il fico che ha rivitalizzato quando ormai sembrava morto. Ne abbraccia il tronco. Si accovaccia fra le radici, che accarezza con intensità. Appoggia le mani sulla corteccia grigiastra, poi chiude gli occhi rimanendo immobile in attesa che le fronde sussultino. Improvvisamente anche il suo corpo vibra, anzi guizza, come attraversato da una scarica intensa.

Sarà il figlio maggiore a destarlo quando qualcuno invita i comunardi, fra loro si chiamano così in memoria della Comune di Parigi, a tornare nella piazza. Si è sparsa la voce che in mattinata un tizio sia stato trovato a rubare nella rimessa alimentare. Un fatto insolito in un aggruppamento che rifugge il profitto. Ecco perché quando il tipo emaciato fa il suo ingresso il brusio è frastornante.

Il Poeta, famoso per i versetti in rima che è solito recitare la sera davanti al fuoco, llustra i fatti e poi gli concede la parola. Questi afferma di essersi allontanato dalla comunità capitalista a cui appartiene perché non riusciva a mantenere i suoi quattro figli e che da giorni vaga senza una meta. Gli chiedono da quanto è fuggito, dice di non saperlo. Gli chiedono se lo hanno seguito, risponde che ci hanno provato ma temendo il bosco sono tornati indietro. Gli chiedono dov’è la sua famiglia, replica che si trovano in una catapecchia abbandonata sulla collina. Gli chiedono il motivo per cui aveva scelto quella comunità, risponde che col suo lavoro guadagnava bene, ma… Costretto al silenzio dai fischi di disprezzo, riprende a parlare piangendo a dirotto.

Confortato con pacche sulle spalle, qualche parola gentile e del rum fatto in casa, uno gli domanda che lavoro facesse. «Sono un programmatore» risponde. «Ottimo. Allora programma per domani di pulire il porcile!»  Quando tutti scoppiano a ridere il sole sta già tramontando.

LA SERATA

La serata dell’OMOLOGATO inizia nel momento in cui trova parcheggio nello spazio riservato ai portatori di handicap. Trascorre minuti fissando la specie di Moloch5 in cui abita. Sale in casa, cena in famiglia con i figli che tappezzano il pavimento di sugo, la moglie che non smette di ciarlare, le tette delle soubrette che ballettano in televisione. Segue il solito filmetto con i cattivi astuti, belli e grandi chiavatori, bacetto alla signora e buona notte. Tutto in appena un paio d’ore.

Avrebbe voluto raccontarle cosa è successo in ufficio, ma è meglio così perché adesso può sfogare la sua onnipotenza facendo zapping. Gli basta un filmetto osé per infilare la mano nelle mutande. E’ in ginocchio sul tappeto quando la maniglia della porta cigola.

 

La serata del REFRATTARIO è identica a quella dell’omologato fino al bacetto alla moglie, allorché raggiunge la vetrinetta dei liquori, prende una bottiglia e si chiude in quello che ormai è il suo ufficio. Apre la finestra e seduto sulla tazza del cesso osserva le auto sfrecciare lungo la via, il gruppo di ragazzi che biascica davanti al bar, le creste ombreggiate dei palazzi, sopra i quali il cielo nero viene falciato dal pallido bagliore della luna. La libertà ha sempre un prezzo e il prezzo è l’impossibilità di condividerla.

Anche il ferro ha un prezzo e gli è costato quasi quanto la statua d’oro di Budda che sta nella vetrina del suo negozio. Ma adesso lo sente caldo fra le mani. Lo gira, lo rigira, lo impugna e finalmente punta la canna alla tempia. Spara. Silenzio. Tutto è come prima. Qualche secondo di vuoto e «Cazzo è successo?» gorgoglia frastornato guardandosi intorno come a cercare tracce d’inferno. Si è dimenticato di caricarla. Ma ormai è troppo tardi per rimediare. Anche stavolta è passata la voglia di ammazzarsi.

 

La serata dell’ILLUMINATO è più vivace del solito. Riunitasi la comunità intorno al grande fuoco, la cena è abbondante e i balli sfrenati. La festa per quel nuovo arrivato durerà fino a notte inoltrata, ma ormai è troppo stanco. Peraltro i figli sonnecchiano sull’erba con la testa appoggiata alle gambe della madre, che sorride divertita.

Con lei in testa alla formazione, lui in fondo con il figlio piccolo sulle spalle, si inerpicano lungo il sentiero che sale la collina attraversando il bosco. Quando si dirada l’abbaio dei cani accoglie la famiglia. Una pecora li imita scatenando lo starnazzio delle galline. Allora anche i gufi bubolano. E così i lupi ululano, gli asini ragliano, i cavalli nitriscono, i cervi bramiscono, le rane gracidano in un concerto surreale che solo quello che sembra il ruggito di un leone zittisce. Ma forse è l’alcol che fa effetto.

Allettati i bambini, i due tornano in giardino per gustare qualche attimo ancora della potenza inebriante della notte. «Vieni a letto?» lei gli fa capire che ha freddo. Lui indica l’amaca. «Rimango qui un altro po’!» le risponde. Con quel manto stellato lassù, il fruscio del vento nel bosco e quelle meravigliose lucciole, non si sa mai cosa potrebbe accadere.

NOTE

  • Espressione usata da Telmo Pievani in La natura è più grande di noi, Solferino, 2022.
  • Espressione utilizzata da Michael Onfray, La politica del ribelle, Fazi editore, 1997.
  • *2 Un giorno di ordinaria follia, film del 1993.
  • Dexter, serie televisiva andata in onda in Italia dal 2006 al 2013.
  • Mostro del film Cabiria, 1914.
  • Immagine: Franz Marc, I grandi cavalli azzurri, 1911.

IL PATRIDIOTA

Giudicare è una pratica comune a tutti gli esseri. L’uomo giudica il prossimo come la pianta giudica un insetto, o un animale giudica chi invade il suo territorio. E non potrebbe essere altrimenti dato che ogni organismo è dotato di intelletto, attraverso cui coglie l’essenzialità delle cose, e di sensibilità, con cui le modula al sé. Che il destinatario non apprezzi non può pertanto essere un motivo per impedirlo. Inoltre trincerarsi dietro il non giudicate, per non essere giudicati1, oltre che un approccio liberticida, è un controsenso, dal momento che lo stesso Cristo, a cui i neutralisti si richiamano, non escludeva l’opinione, ma sollecitava a non essere giudice del tuo prossimo2 con occhio malato3, cioè a formularla senza pregiudizi o sentimenti negativi.

Detto questo, preciso che il mio pensiero nei confronti dei patrioti non è influenzato né dagli uni né dagli altri. Ne conosco a centinaia e ho avuto modo di riscontrare che, presi individualmente, fanno quasi tenerezza. Un po’ come i mastini che, tolta la divisa, li ritrovi a scherzare in coda in pasticceria la domenica mattina. Chiaro, quando sento uno di loro esaltare la patria e la nazione, non posso fare a meno di pensare che sia un idiota. Però non è quell’idiota che si proferisce a chi fa l’idiota, più un idiota detto a chi idiota si è ritrovato. Ẻ un idiota di incoraggiamento, diciamo. Con l’augurio che con un po’ d’impegno possa rinsavire.

Lo so, esagero. Anche il patriota ha una sua sensibilità e dovrei rispettarla. Ma rispettare chi ostacola l’altrui essenza è ignobile, la propria è stupido. Forse sono così radicale perché disprezzo i dogmi. Sono affine al dubbio e accolgo la casualità come una possibilità, per cui ho un’istintiva repulsione verso tutto ciò che è verità preconfezionata. E dopo la religione, la patria è forse il massimo esempio di un pacchetto infiocchettato a puntino.

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Quando il principio incontestabile diventa immaginativo si parla di idealismo.

L’idealista è l’assertore di un ideale al quale crede incondizionatamente e per il quale spesso è orgoglioso di essere intransigente. Può avere risvolti pratici, ad esempio il razzista è talmente difensore dell’uguaglianza che non accetta il diverso, oppure spirituale, ad esempio il religioso è così fervente che manderebbe all’inferno chi non lo è. Partendo dal rifiuto della realtà, considerata troppo disordinata e imprevedibile, contrappone ad essa una fantasia ordinatoria e rassicurante. La assolutizza attribuendole i connotati della suprema giustezza e opera per realizzarla. E siccome l’evidenza glielo impedisce, l’ideale diventa un’incurabile ossessione.

Si dice che l’anarchia sia una forma di idealismo. Si dice anche che sia un’utopia, che gli anarchici siano violenti, brutti e cattivi. Si dice tante cose! Quando il Potere vede minacciati i suoi privilegi, replica agli antagonisti con argomentazioni suggestive in maniera che il sempliciotto si senta un sofista aderendo ad esse. Cionondimeno, se con idea si intende una visione pratica dell’essere e con idealista colui che ne persegue il modello, certamente l’anarchico può definirsi tale. A differenza della maggior parte degli idealisti però, come non vuole che altri gli impongano la loro scelta, non impone la propria. Forse per questa sua estrema eticità il Potere non esita a reprimerlo.

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Anche i patrioti sono idealisti. Idealizzano la terra in cui sono nati o vivono. La amano. Sentono di appartenere ad essa. Provano verso tutto ciò che sta entro i suoi confini un legame affettivo che li affina all’ambiente naturale, li identifica nei pregi e difetti delle persone, li porta ad apprezzare la lingua, le tradizioni, la religione, la cultura, la storia e tante altre cose che conoscono per sentito dire, ma che creano quella sorta di anima collettiva attraverso cui credono di realizzarsi come uomini migliori.

Individuata questa condivisione di intenti, occorre poi un’organizzazione che la cementifichi realizzandone gli obbiettivi. Nasce così la nazione. E qui cade l’asino. Finché si tratta di valorizzare il passato, l’ambiente o un intercalare per tollerare la realtà ci può stare. Quando però si inventa un sistema che con le sue istituzioni costringe all’obbedienza chi ne farebbe volentieri a meno, si chiama violenza.

Accade infatti che i patrioti erigono confini, si danno istituzioni, plasmano la società, impongono la nazione e le sue regole a chiunque si trovi al suo interno e ne esibiscono ostilmente l’autorità a chi sta fuori. Puniscono chi dei primi non la accetta e non vedono l’ora di sterminare i secondi. E quando le contingenze impediscono loro di imporsi, non si accontentano di venerare i simboli, sventolare le bandiere, celebrare Costituzioni, ormai teorizzate e non praticate ovunque, bensì reprimono chi rifugge quella svilente pantomima.

Se si esaltassero quando vince la nazionale, si emozionassero con le Frecce Tricolori o glorificassero le banalità del Presidente di turno nella cameretta di casa, sarebbero affari loro. Invece pretendono la condivisione. E se non la ottengono la ingiungono prima con le buone attraverso la propaganda, poi con le cattive attraverso l’emarginazione.

Quando si è convinti di essere nel giusto finisce spesso che diventare ingiusti sia giusto. Cosa fa la differenza? Semplice, l’antiautoritarismo. Posso idealizzare ciò che voglio ma se obbligo gli altri ad accettare o adeguarsi alla mia idea sono solo un despota. Peraltro patetico perché senza trono. Ecco perché gli anarchici non pretendono di cambiare la società civile ma vogliono svincolarsi da essa.

Poiché peraltro l’dea di patria si reifica nello Stato e lo Stato è la massima espressione del dominio, niente è più autoritario dell’imperio di un’entità astratta che si impone sugli individui e fa l’interesse dei centri di potere che la promuovono, i suoi partigiani sono fra i più attivi complici della disuguaglianza. Operano come paladini dell’ingiustizia non meno dei suoi artefici e forse per questo ostentano tanta arroganza. Basterebbe studiare la storia per capire che l’integralismo è il concime di gerarchie e soprusi. Ma perché svegliarsi da una catalessi tanto confortevole?

Due sono le spiegazioni che do alla loro intransigenza. Una razionale, in virtù della quale lo Stato è un mezzo necessario per realizzare l’interesse personale, vedi il borghese che desidera ordine per mantenere e migliorare il proprio stile di vita. Una psicologica. Il patriota medio è quel tipo che non emerge nei processi di potere o non spadroneggia quanto vorrebbe. Per compensare questa frustrazione, quindi accrescere l’autostima, proietta il sé nell’idea di nazione e si identifica nel dominatore assoluto. In realtà vorrebbe soggiogare l’umanità, ma si accontenta dei cittadini del suo paese.

Come il folle delirante deforma la realtà, il fanatico la manipola in funzione del suo ideale. Nella mistificazione ideologica che lo pervade non si rende conto però che se si annulla per l’ideale può essere annullato, consentendo al Potere di usarlo per mantenere privilegi e privilegiati. Il suo gridare “siam pronti alla morte, l’Italia chiamò” diventa la colonna su cui erigere quel regno dell’eticità4 che giustifica ogni arbitrio. Sempre per il bene della patria, però!

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Per l’amor di Dio, un paese pur ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via5, dice il poeta. E infatti il libertario prima lo boicotta con della sana disobbedienza civile, poi fugge. Egli sa infatti che il patriottismo è l’embrione del nazionalismo, per cui un falso principio inventato dai despoti per schiacciare il supremo principio di libertà, come dice Bakunin.

Non può accettarlo e sente il dovere di osteggiarlo. Denigrate le sue rappresentazioni e violate le sue prescrizioni, si rifugia nella natura dove diventa cittadino del mondo, come Diogene si definiva quando gli chiedevano quale fosse la sua patria. Un cosmopolitismo da intendersi non nell’ottica illuminista, per cui occorre mettere da parte le specifiche differenze sociali e politiche per creare un’unità fra Stati, che è illusoria nonché funzionale al loro tornaconto, quanto nel significato di assenza di confini.

La scelta è radicale e produce effetti sia nelle relazioni sociali, che rispetto all’ambiente. Il presupposto è che in natura ognuno è padrone dello spazio che trova, dove è libero di realizzarsi come più gli aggrada. Ẻ nomade in quanto non vincolato da frontiere reali o immaginarie. E quando invece è stanziale, il territorio non è immutabile e non esistono barriere. L’individuo che vive lo stato di natura è spontaneo, quindi senza determinazioni. Ora è qui, ora è là e ovunque è casa. Non ha bisogno di una patria perché in ogni luogo è se stesso. La terra è la sua comunità.

Non quella predicata dalla società del dominio dove qualcuno comanda e tutti obbediscono, dove i diritti sono negativi e la socializzazione è conformismo. Tantomeno può considerarsi la mera associazione di libertari. Quando infatti le persone si riuniscono con principi e scopi comuni, possono trasferirsi da un luogo a un altro, uscire e rientrare quando vogliono, oppure sciogliere e modificare gli accordi presi. Niente è definitivo perché in natura tutto è mutevole. Inoltre il libertario che fugge dalla società del dominio abiura il primato umano per un pluralismo fattuale in cui le relazioni fra entità siano paritarie. Poiché infatti ciascuna contribuisce al divenire consentendo alle altre di identificarsi in esso, pregiudicarne l’essenza sarebbe come danneggiare la propria.

Si tratta pertanto della comunità costituita dalle infinite molteplicità che animano l’ambiente in cui vive. Dall’albero più maestoso al microrganismo impercettibile, ogni essere che partecipa attivamente o passivamente all’ecosistema è un compagno con il quale condividere la volontarietà, ciascuno agisce in autonomia ed è responsabile delle proprie scelte; la spontaneità, non ci sono costrizioni eteronome ma libera e paritaria manifestazione delle sovranità; l’autogestione, personalità che cooperano armonicamente affinché le cose divengano senza interferenze e per quello che sono; la cooperazione, si opera per realizzare l’appagamento comune necessario al proprio; lo scopo, la reciproca connessione che consente di condividere il tutto.

Chi abita la società del dominio ha bisogno di falsità per compensare la propria disgregazione esistenziale. Chi vive la natura è in ogni cosa. E in questa infinita moltiplicazione del sé la volontà si identifica nell’unità indivisa. Fosse circoscritta in spazi definiti, la spontaneità sarebbe governata, l’armonia delle interazioni non più autentica ma programmata, la percezione dell’identità deformata. Le sue potenzialità verrebbero irrimediabilmente represse portandola al lento ma inevitabile annientamento. Cosa di fatto impossibile in natura visto che l’obbiettivo di ogni organismo è vivere. Possibilissima invece nel mondo civile, essendo governato dal tanatofilo umano.

NOTE

*1 Matteo, 7.

*2 Giacomo 4,12.

*3Matteo 6,23.

*4 In questo senso: G Le Bon, Psicologia delle folle, 1895.

*5 Cesare Pavese, La luna e i falò, 1949.

*6 Hegel, Fenomenologia dello spirito, 1807.

Immagine: Oskar Zwintsher, Il dolore, anno nd

RAZIONALITA’ DEMENTE

Caratteristica universale degli esseri viventi è quella di associarsi in comunità per difendersi e perpetuarsi. Ma se per tutti vale la regola biologica della cooperazione e l’eventuale leader agisce nell’interesse del gruppo, l’organizzazione umana è verticistica e il capo ne approfitta. Ogni tanto scappa qualche eccezione, solertemente repressa per non dare il cattivo esempio.

Con la tirannia il despota domina perché investito di una sacralità religiosa o pagana intangibile. La democrazia invece scarica sull’elettore la responsabilità della propria sottomissione. La prima si forma in maniera semplice: prendi un ragazzino bullizzato dai coetanei o a cui il padre ha dato qualche labbrata di troppo, lo fai crescere con quella sana instabilità che lo renda psicopatico e da adulto sarà un’eccellente sterminatore. E che fai, non obbedisci a uno sterminatore? Più complessa invece la genesi della democrazia: quando qualcuno ha troppo, gli altri non hanno niente e così prima rumoreggiano, poi schiamazzano, poi minacciano. Per tenerli buoni si inventano religioni, distrazioni e ogni tanto si dà loro qualche contentino. Una volta domesticati sorge però il problema che vogliono vestire come il padrone, cacciare insieme a lui, disporre dei suoi beni, mangiare al suo tavolo. Insomma, diventano presuntuosi. E allora si invitano al banchetto, ovviamente non nella sala principale perché la stalla è più confortevole, dove potranno scegliere gli avanzi che più li aggradano.

Mentre nella tirannia c’è un despota, sai che è quello e lo odi o lo ami, il governo del popolo istituzionalizza la gerarchia con la complicità dei sudditi. E tutto si svolge in maniera liquida. Per mantenere il laibniziano migliore dei mondi possibili, non servono guerre, quelle sono più utili all’economia, non serve violenza, almeno finché qualcuno non reagisce. Ẻ sufficiente indottrinare a scuola, governare le famiglia, educare con i media, isolare i dissidenti in maniera che la collettività scelga di obbedire. Robetta per la propaganda dei nostri Signori. Che intanto continuano ad abbuffarsi grazie a chi lavora per loro, consuma i loro prodotti, ottempera le loro regole temendo di tornare a rosicare ossa spolpate.

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In democrazia tre sono i soggetti istituzionali: Il potere economico, quello governativo o politico e i cittadini. Il primo e il terzo sono preesistenti al secondo. Il primo usa il secondo, che non disprezza affatto, per controllare il terzo. Il secondo fa quello che dice il primo a discapito del terzo. Il terzo è manipolato dal primo, ma obbedisce al secondo. Per farla semplice: i Signori, ovverosia gli oligarchi, le categorie professionali, le industrie e tutti i centri di potere che sfruttano per arricchirsi, decidono cosa e come deve essere la società affinché il loro profitto prosperi. Il governo esegue applicando le leggi, imponendo la socializzazione conformista, reprimendo i dissidenti e quant’altro ammansisca la massa, che accetta tacitamente perché obbedire è l’unico modo che conosce per andare a letto tranquilla. La democrazia non è pertanto la conseguenza di un atto di forza. Non è stata imposta. Ẻ il primo sistema giuridico che si fonda sull’inerzia. E infatti per inerzia va avanti.

Non ci sono dubbi che passare da un regime tirannico a uno illusorio sia stata una trasformazione rilevante. Ma se una cosa è migliore di un’altra, non è detto che lo sia in assoluto. Il popolo infatti ha accettato la democrazia non perché convinto che fosse la scelta corretta, non è neanche mai stato interpellato1, ma perché era l’unica alternativa a cui adeguarsi. E si è convinto che fosse quella giusta perché anche il miserabile poteva sperperare il salario nei beni reclamizzati dal mercato. Abituato a cibarsi di pane e cipolle, a indossare gli abiti dei nonni e avendo alle spalle la guerra, soprattutto dovendosi i fascisti riciclare nell’ombra, il sistema democratico era pertanto l’offerta che non si poteva rifiutare2.

Il consenso tacito della collettività è pertanto una scelta razionale perché finalizzata a un’utile. Sembrava e sembra infatti la soluzione più idonea a realizzare l’interesse dei Signori di accrescere la ricchezza approfittando della complicità collettiva e della massa di evitare la miseria grazie alla certificazione della subordinazione. E così la ragione, la capacità che secondo Kant avrebbe dovuto far uscire l’uomo dalla minorità, anziché liberarlo dalle catene, gliene ha fornite di più confortevoli. Poi gli ha dato la chiave e lo ha invitato a chiudere il lucchetto con un rassicurante: «Tranquillo amico, sono per il tuo bene!» «Per il mio pene?» «Ho detto per il tuo bene, idiota!» Al che il poveretto lo ha chiuso imbarazzato, ringraziando pure.

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Detto che la democrazia è una scelta razionale, si può affermare che sia anche giusta?

Si dice razionale un ragionamento che arriva per deduzione a una conclusione ed è vero, quindi giusto, quando lo è ogni suo connettivo logico. Passando dalla teoria alla pratica, una scelta si definisce tale quando produce un risultato utile, indipendentemente dal fatto che i mezzi per conseguirlo siano corretti o sbagliati. La contraddizione fra il principio e la sua applicazione è evidente e spesso rileva in termini morali. Ma nessuno ci fa caso perché la morale serve per punire i presuntuosi che si autodeterminano.

Di questa incoerenza è permeata la democrazia.

Peraltro, oltre agli abbietti motivi che l’anno determinata, osservando in maniera imparziale le sue dinamiche, si scopre che i principi di cui si dichiara paladina sono falsi. E poiché è falso ciò che non corrisponde al vero, cioè la realtà delle cose smentisce le premesse, sono ingiusti.

Solo qualche esempio. Non è vero che la democrazia garantisce l’eguaglianza in quanto propone un’economia fondata sul libero mercato dove il più forte detta le regole. Non è vero che assicura la libertà perché impone il monopolio del potere con la violenza e lo mantiene con l’intimazione dei mastini, l’estorsione del tributo, la vischiosità delle istituzioni, erodendo al contempo, grazie anche alla crescente invasività della tecnologia, gli spazi in cui essa può manifestarsi. Non è vero che opera nell’interesse collettivo perché, per definizione, realizza quello della maggioranza. Non è vero che le persone non sono in grado di autodeterminarsi perché quando non sono interdette dal profitto o manipolate da chi persegue il proprio, dimostrano di saper e poter agire nell’interesse comune. Non è vero che la complessa modernità esige che le decisioni siano prese da professionisti della politica perché l’individualità non è mai demandabile, perché se le persone fossero davvero così incapaci lo sarebbero anche di scegliere i rappresentanti, perché essi delegano a loro volta ad altri esperti spogliandosi delle funzioni istituzionali. Non è vero che… Qui mi fermo perché il presuntuoso non è chi si reputa superiore, ma chi primeggia approfittando delle debolezze altrui.

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Di solito quando taluno decide sulla base di premesse che ritiene corrette e poi si rivelano sbagliate, la prima cosa che fa è correggersi trovando soluzioni più appropriate. Non è questo il caso. Nonostante tutto, la democrazia è ancora considerata il miglior sistema giuridico possibile. I Signori non mollano l’osso e i sempliciotti sono talmente sedotti dalla loro protervia che ogni alternativa viene definita sobillatrice. E allora come trovare il giusto in questa fantasmagorica falsità?

Ẻ giusto ciò che è bene.

Bene è però uno di quei termini che significano tutto e il loro contrario. Per l’economia è bene sfruttare gli individui in nome della crescita. Per la politica è bene usare la collettività per mantenere i privilegi. Per il capo è bene umiliare il sottoposto perché sia di esempio. Per la massa è bene l’indifferenza per non aver grattacapi. E così via. Si tratta pertanto di un concetto relativo, che varia in base al tempo e al luogo, alla percezione personale o sociale. Qualcuno ha provato a oggettivarlo, ma le conclusioni sono sempre contaminate o dal mediocre interesse o dall’assolutismo idealistico.

Per definirlo occorre quindi cambiare il punto di vista. Il riferimento non può essere esclusivamente la società umana perché il miasma che la caratterizza ammorba ogni suo aspetto. Al tempo stesso non può essere cercato nel trascendente a cui l’animo aspira quando percepisce la multidimensionalità, ma non la spiega perché i suoi istinti sono annichiliti dalla materialità. La soluzione è guardarsi intorno e scoprire che oltre le cimiere, oltre i grattacieli, oltre il traffico, oltre la realtà travisata dei notiziari o quella mistificatoria dei post, oltre la castrazione del lavoro e la dipendenza da profitto, esiste un mondo incontaminato che una volta ci apparteneva e in cui potevamo essere liberi perché non determinati da regole imposte ed eguali perché vivere era un interesse condiviso con i suoi elementi. Lo so, non sembra messo bene, ma neanche noi lo siamo. E forse tornare a completarci a vicenda gioverebbe a entrambi.

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Per capire cosa è il bene a cui deve tendere l’uomo bisogna quindi partire dal presupposto incontrovertibile che è un essere della natura. Ẻ natura. Ciò che lo devia da tale identità danneggia lui e l’armonia circostante. Esattamente come accade per gli altri organismi.

Non posso chiedere a un cavallo di spostare un macigno o a un’aquila di marciare in fila. Non perché l’uno non abbia la forza e l’altra la coordinazione, tantomeno perché non sono intelligenti, in quanto ogni essere lo è a modo suo e nel contesto di riferimento. Quanto perché l’indole dell’equino è correre libero, del volatile è sfrecciare nel cielo. Se vengono costretti ad agire diversamente dal loro istinto o non ci riescono o soffrono. Allo stesso modo il dominio, da cui deriva il dovere civilizzante, travisa l’essenza umana. In natura infatti la prevaricazione è funzionale alla conservazione non al profitto e le uniche regole sono quelle necessarie alla sopravvivenza non all’accumulazione. Così per i non umani, così sarebbe per l’uomo se le prigioni che ha creato non gli impedissero di vivificarsi nelle infinite connessioni con le molteplicità.

Affinché le interazioni siano simbiotiche occorre quindi un ambiente armonico dove le volontà esplorino la realtà e vivano la profondità dell’esperienza. E poiché solo la natura, essendo intrinsecamente incorrotta, può garantire il fine ultimo di fondersi nell’unità, essa è il bene supremo. Per cui giusto è ciò che è naturale, cioè secondo natura: ogni essere deve manifestarsi per ciò che è, ogni processo deve svolgersi così com’è. Ingiusto è ciò che contraffà la sostanza e manipola la processualità alterando l’armonia in cui le entità si realizzano. Giusto è quello che la conserva, protegge, magnifica. Ingiusto è quello che ne sabota, condiziona, deturpa, altera, soggioga, violenta, modifica, distrugge l’autenticità. Ovverosia quanto prodotto dalla civiltà dalla prima domesticazione ad oggi.

Piante e animali lo sanno e usano la coscienza e l’intelletto per perpetuarsi e l’istinto per abbandonarsi alla sua armonia. L’uomo, invece, ancora si affida all’illusione che il solo pensiero possa renderlo migliore di quello che è. Se però non ha ancora capito che la conoscenza non è superficiale deduzione, ma autocoscienza universale della cosa in sé3, forse non è così tanto intelligente.

NOTE

*1 Con riferimento al referendum del 2.6.1946, come può considerarsi attendibile la scelta fra due sistemi giuridici di cui uno ha portato alla dittatura e alla guerra?

*2 Citazione dal film Il Padrino, 1972.

*3 Secondo Gustav Theodor Fechner la ragione consente di conoscere la dimensione corporea dei viventi, non la loro spiritualità: “la nostra coscienza è chiusa alla loro”, afferma in Nanna o l’anima delle piante, 1848

Immagine: David Hockney, Bigger spash, 1967