STRATEGIA DI CONSERVAZIONE
Fatti, non parole! è il motto della civiltà. E i fatti sono che non si dà niente per niente. Ma quando l’interazione è uno scambio con contropartita, la volontà viene snaturata. Non agisce più spontaneamente, le necessità diventano artefatte e le sue potenzialità represse dalla ricerca spasmodica, affannosa, ossessiva del tornaconto. Di conseguenza, anche la realtà con cui interagisce non è più luogo armonico in cui manifestare la propria autenticità, ma ambiente in cui predare senza bisogno. E poiché la prima regola della mercificazione è che per il profitto vale tutto, sfruttare, saccheggiare, distruggere, uccidere sono azioni compiute senza rimorso. Per di più impunite, in quanto sanzionarle significherebbe riconoscere l’immoralità del sistema che alimentano. Intanto i più deboli soccombono, le biodiversità si estinguono, i viventi vengono manipolati geneticamente o allevati intensivamente, i virus si diffondono, l’aria si fa irrespirabile e poi il buco dell’ozono, il cambiamento climatico, la desertificazione e quant’altro viene ideato dall’allegra brigata grandi affari-politica. Mentre i sempliciotti, veri responsabili del disastro perché basterebbe dessero segni di vita per sovvertire lo stato delle cose, si eclissano nell’uniformità data dagli scintillanti intrattenimenti profusi dal progresso.
La civiltà è infatti quel modello sociale in cui un manipolo di buontemponi gestisce la collettività approfittando della sua apatia. Le dice cosa deve e non deve fare, come interagire, pensare, divertirsi, godere addirittura. Attraverso la legge la disciplina. Con la morale ne colpevolizza le trasgressioni. Con l’economia la munge e con la socializzazione la solubilizza nell’obbedienza, la sola verità che le è dato conoscere. L’individuo moderno crede di essere libero perché può scegliere il padrone, ma non è mai stato tanto represso. Lo spazio in cui agisce e la direzione che segue sono programmati. Il tempo è un algoritmo di adempimenti da svolgere. Pure l’affettività è ormai preconfezionata. Della sua naturale essenza non è rimasto niente. Non sa cosa significhi essere padrone di se stesso. E quando si illude, è solo perché il controllo è così invasivo che non teme la sua autonomia.
Una volta i filosofi discutevano se l’uomo fosse corpo o anima. Oggi è evidente che la civiltà ha cancellato entrambi. Il primo è merce di scambio, la seconda è rimossa dall’utile che ne deriva. E lui cosa fa? Niente. Neanche un sasso è tanto indifferente quando un piede lo schiaccia!
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Dal punto di vista personale la noncuranza è una strategia conservativa. Forse non proprio virtuosa, ma se gli irresoluti sono più numerosi degli audaci un motivo ci sarà. Il problema casomai è quando impongono la loro ignavia sperando di trarne profitto. Ma si sa, la viltà si alimenta della doppiezza.
Certo, ogni tanto qualcuno si rende conto che forse non è come gli hanno fatto credere. Ma in un ordine fondato su valori mercantili, anche le rivoluzioni che saltuariamente lo agitano diventano rivendicazioni di rango volte a ottenere le medesime possibilità di chi spadroneggia i processi di potere. Pensa alla controcultura degli anni sessanta che reclamava i diritti delle donne o dei neri fino a quel momento esclusi dal sistema capitalista. Dopo lotte e sacrifici hanno finalmente ottenuto il risultato di essere reazionari più di coloro che avversavano.
La remissività è nella natura umana. L’uomo è un essere fragile e la sua fragilità, come tutte le cose del creato, ha un valore ambivalente. Se da una parte lo rende capace di opere artistiche straordinarie, di invenzioni scientifiche surreali, di autocoscienze complesse che fanno la fortuna degli strizzacervelli, mi piacerebbe comunque capire come si può affermare con certezza che le formiche, gli elefanti o le mangrovie non abbiano i loro Michelangelo, Einstein e Freud, dall’altra lo rende l’unico essere vivente che per spirito di conservazione regredisce anziché progredire. Teme il cambiamento perché convinto che al male non ci sia fine e così si affida all’autorità di turno. In questo modo, se la morsa improvvisamente asfissia, può sempre dire che la responsabilità è sua. Senza mai disobbedire, però.
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Eppure in natura ogni essere è autonomo e, quando prevista, la gerarchia è una necessità a cui il singolo può decidere di non aderire. Per questo la rivoluzione è prima di tutto un atto spirituale che consiste nel rompere con l’ordine costituito per cominciare un’esistenza che con esso non abbia niente a che fare. Finché si crede che qualcuno o qualcosa possa cambiare la trama della propria vita non si è padroni di se stessi!
Faccio un esempio. L’uomo sta distruggendo l’ambiente e la sesta estinzione1 è già iniziata. Da più parti si propone di ripristinare il patto con la natura in cui la sua sacralità sia declinata al futuro e non al passato. Che in termini concreti significa applicare una serie di strategie correttive in cui le persone devono rinunciare a parte dei confortevoli privilegi materiali elargiti dal progresso e i governi devono impegnarsi a trovare soluzioni che lo orientino verso scelte ecosostenibili.
Pensiero stupendo, mi viene da canticchiare. Meglio non dire, però2.
Sono adorabili questi profeti dell’ecologismo che desiderano salvare il mondo come i turisti bramano proteggere gli animali che vivacizzano i loro safari!
La verità è che la denaturalizzazione è una realtà che ha molteplici cause. Non serve intervenire sul riscaldamento climatico se non si impedisce lo sfruttamento intensivo, non si pone un freno alla crescita demografica o non si contrasta la deforestazione e l’inquinamento. Non basta correggere la singola azione quando opera in un sistema marcio. Se non si agisce radicalmente sull’economia che genera sopruso, sull’industrializzazione che preda l’ambiente, sulla tecnologia che trasforma e consuma e soprattutto non si elimina il principio per cui il profitto prevale sul resto, la fine è certa. E il dramma sfiorerà i sottili neuroni del sempliciotto soltanto quando toccherà il suo portafoglio.
Finché le persone non cessano di collaborare col male, ogni proposta è un pour parler. Utilissimo per nutrire chi riempie i salotti televisivi o vendere libri, un po’ meno per evitare la rovina. Non è infatti al futuro che bisogna guardare, ma al presente. E il presente è che la catastrofe può essere fermata solo eliminando la società del dominio. Occorre che ogni individualità si convinca che deve essere padrona di se stessa, che può esserlo soltanto svincolandosi dai pregiudizi che la determinano e che deve operare in un ambiente che premi il disinteresse e stimoli la spontaneità. Una consapevolezza che matura personalmente risolvendo le fragilità nell’abbandono e si concretizza con scelte radicali che portano a una nuova era silvestre in cui la ragione utilitaristica lascia il posto all’ascolto, al fiuto, al sapore, alla contemplazione, alla connessione e alle altre infinite capacità sensoriali ignote al barbaro civilizzato, che la natura invece riesce a stimolare.
Rifugiarsi nel selvaggio e difenderlo a ogni costo e con tutti i mezzi possibili è ciò che deve essere fatto per se stessi, per l’alterità e per l’ambiente, luogo in cui la volontà si perfeziona nell’armonia reciproca. Se ciò non diventa scopo spirituale prima ancora che esistenziale, oltre alle scontate implicazioni ambientali e alla perpetuazione della gerarchia, le soddisfazioni personali saranno autocompiacimenti transitori, le consolazioni retoriche e la volontà un nulla che, a confronto, il nichilismo è un’esplosione di speranza.
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Quando un frugoletto disegna, non riproduce i canyon di Manhattan, le auto ferme in tangenziale o i siti di smaltimento dei rifiuti tossici. Traccia le curvature delle montagne, raffigura gli animali e gli alberi e fra il sole e le loro chiome abbozza qualche nuvoletta e stormi di uccelli. Questo perché l’uomo non può negare di essere stato, un tempo, felice come i cervi di bosco3. E un animo puro a quell’armonia originaria si ispira e aspira. Ẻ infatti a quest’impulso primordiale e selvaggio che il ribelle tende quando fugge dalle macerie dell’anima per recuperare la sublime capacità di decidere della propria vita.
Immagina cosa sarebbe se domani non esistesse la civiltà. Verrebbe meno lo sfruttamento, la violenza, le predazione, scomparirebbero le città, le industrie, il cemento, la tecnologia, le istituzioni e tutto ciò che conosciamo. Saremmo noi e la natura. Nudi nella sua immensità. Spaventati certo, perché abituati a temere l’orso che si avvicina indiscreto e non l’estorsione dell’autorità, ma dopo verremmo travolti dal piacere dei colori, degli odori, della freschezza, dalla curiosità della scoperta, dal desiderio, quasi un bisogno, di simpatizzare con gli animali, di svagarsi in un prato o divertirsi fra gli alberi. Ci abbandoneremmo esaltati, attoniti per non averla apprezzata prima, ma anche delusi di averla offesa per troppo tempo. Saremmo volontà unica perché non l’amore per i soldi, non la fede, non la fama, non la giustizia… datemi solo la verità, diceva Thoreau4. Che consiste nel respirare come gli alberi, nel correre come gli animali, nel divenire come le correnti dei mari, nell’essere equilibrio di interazioni paritarie e affettive con gli esseri del mondo.
La voglia di vivere si realizza nella natura selvaggia perché se il corpo determina la specificità dell’intelligenza, dei bisogni, delle capacità, la sostanza è la stessa delle molteplicità che la popolano e si autodetermina attraverso la condivisione identitaria con esse. Una natura che non è riserva che sollazza i ricchi, né ristoro dall’esistenza alienante del civilizzato. Non è fonte di vita, energia, benessere che va protetta e conservata perché utile o per simpatia. Non è il deus sive natura che divinizza il mondo5, tantomeno l’eterno uno concesso da Dio all’uomo per favorire nuove esperienze che ispirino fiducia in se stessi6. Non è mezzo per un fine, né sistema o teoretica. Non si racchiude in formule meccaniche o categorie ordinabili. Non è definibile se non come vita. Banalmente vita. Immanentemente vita in cui le azioni di attori si intrecciano formando un flusso condiviso senza ideatori, iniziatori, proprietari, padroni7. Ẻ semplice volontà cangiante in cui quella di ogni essere si perfeziona contribuendo all’autocoscienza universale del suo divenire.
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Mentre il civilizzato si affanna a cercare la felicità bramando scampoli di esistenza che ricordino esperienze piacevoli, il libertario sa dove e come trovarla. Anche se non esiste un manuale del bravo ribelle e tutto è lasciato all’improvvisazione e alla sperimentazione, dissolta l’individualità nella comunione con la natura, sente che deve sostituire il profitto con la gratuità. Le cose di cui ha bisogno, quelle più preziose, non si comprano. Ci sono. Sono lì, disponibili a tutti perché tutti ne godano. Disinteressato alle superfluità materiali, non chiede, ma dà. Si offre alle alterità per unificarsi nell’universale. In questo modo le relazioni esaltano l’antiautoritarismo, poiché l’eguaglianza delle diversità favorisce la simbiosi, e la cooperazione, in quanto il benessere personale dato dalla partecipazione al divenire è realizzabile solo se condiviso.
Gratuità, antiautoritarismo, cooperazione… non male come inizio!
Ricominciare dallo stato di natura è pertanto l’unica via per riappropriarsi del sé. L’autodeterminazione è possibile dove niente è artefatto, imposto, manipolato, pregiudicato dall’ipocrita mano umana, dove le differenze si combinano, dove la vita è un’avventura e morire equivale a vivere, dove il gesto è spontaneo, il sentimento profondo, la scoperta sorprende, la sensualità esplode. Ẻ nell’impervio cortese del selvatico che l’uomo deve addentrarsi con la curiosità del bambino, sperimentare con la vivacità del ragazzo, cooperare con la maturità di chi conosce il giusto. Luogo incontaminato dove esso non si negozia e non si sofistica, ma è carnale e celebrale, stimolato da quel senso morale che solo essa sa offrire.
Contro gli effetti della necrofila mercificazione dello scibile la soluzione esiste e se apri la finestra è proprio davanti a te. Anche se stamani c’è un po’ di nebbia che copre le montagne, hai due soluzioni: raggiungerle per cominciare una nuova vita, oppure buttarti di sotto. Morire è più dignitoso che arrendersi.
Preferisci il mare? Vero, anche la sua immensità inebria, ma interagire con un crostaceo, un mollusco o un cefalopode è un po’ più complesso che con una mucca o un lupo. Un passo alla volta!
NOTE
*1 Leakey Richard e Lewin Roger, La sesta estinzione, Bollati, 2015.
*2 Patti Pravo, Pensiero stupendo, canzone del 1978.
*3 Friedrich Holderlin, Iperione, 1797.
*4 Henry David Thoreau, Walden, 1854.
*5 Baruch Spinoza, Etica, 1677.
*6 Ralph Waldo Emerson, Nature, 1836.
*7 James Lovelock, Gaia, 1979.
Diversamente da Lovelock, non credo che la terra sia un unico organismo, Gaia appunto, capace di autoregolarsi e di replicare ai fattori che turbano gli equilibri naturali. L’intreccio (Termine usato anche da Bruno Latour in La sfida di Gaia, 2020, ma riconducibile a Humboldt in Kosmos, 1845) delle azioni compiute dagli attori organici e inorganici è infatti spontaneo e casuale, assolutamente privo sia della soggettività unitaria del superorganismo, che della provvidenzialità Assoluta riconosciuta dai filosofi naturalisti fino al materialismo scientifico del XIX secolo. Ẻ interazione delle volontà egoiste che condividono il medesimo scopo, la vita, per il quale realizzano condotte simbiotiche che producono il tutto armonico. Di cui peraltro sono consapevoli grazie alle molteplici connessioni spontanee che reiterano la vitalità dell’estasi.
Immagine: Luca Cranach, L’età dell’oro, 1530.