RAZIONALITA’ DEMENTE

Caratteristica universale degli esseri viventi è quella di associarsi in comunità per difendersi e perpetuarsi. Ma se per tutti vale la regola biologica della cooperazione e l’eventuale leader agisce nell’interesse del gruppo, l’organizzazione umana è verticistica e il capo ne approfitta. Ogni tanto scappa qualche eccezione, solertemente repressa per non dare il cattivo esempio.

Con la tirannia il despota domina perché investito di una sacralità religiosa o pagana intangibile. La democrazia invece scarica sull’elettore la responsabilità della propria sottomissione. La prima si forma in maniera semplice: prendi un ragazzino bullizzato dai coetanei o a cui il padre ha dato qualche labbrata di troppo, lo fai crescere con quella sana instabilità che lo renda psicopatico e da adulto sarà un’eccellente sterminatore. E che fai, non obbedisci a uno sterminatore? Più complessa invece la genesi della democrazia: quando qualcuno ha troppo, gli altri non hanno niente e così prima rumoreggiano, poi schiamazzano, poi minacciano. Per tenerli buoni si inventano religioni, distrazioni e ogni tanto si dà loro qualche contentino. Una volta domesticati sorge però il problema che vogliono vestire come il padrone, cacciare insieme a lui, disporre dei suoi beni, mangiare al suo tavolo. Insomma, diventano presuntuosi. E allora si invitano al banchetto, ovviamente non nella sala principale perché la stalla è più confortevole, dove potranno scegliere gli avanzi che più li aggradano.

Mentre nella tirannia c’è un despota, sai che è quello e lo odi o lo ami, il governo del popolo istituzionalizza la gerarchia con la complicità dei sudditi. E tutto si svolge in maniera liquida. Per mantenere il laibniziano migliore dei mondi possibili, non servono guerre, quelle sono più utili all’economia, non serve violenza, almeno finché qualcuno non reagisce. Ẻ sufficiente indottrinare a scuola, governare le famiglia, educare con i media, isolare i dissidenti in maniera che la collettività scelga di obbedire. Robetta per la propaganda dei nostri Signori. Che intanto continuano ad abbuffarsi grazie a chi lavora per loro, consuma i loro prodotti, ottempera le loro regole temendo di tornare a rosicare ossa spolpate.

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In democrazia tre sono i soggetti istituzionali: Il potere economico, quello governativo o politico e i cittadini. Il primo e il terzo sono preesistenti al secondo. Il primo usa il secondo, che non disprezza affatto, per controllare il terzo. Il secondo fa quello che dice il primo a discapito del terzo. Il terzo è manipolato dal primo, ma obbedisce al secondo. Per farla semplice: i Signori, ovverosia gli oligarchi, le categorie professionali, le industrie e tutti i centri di potere che sfruttano per arricchirsi, decidono cosa e come deve essere la società affinché il loro profitto prosperi. Il governo esegue applicando le leggi, imponendo la socializzazione conformista, reprimendo i dissidenti e quant’altro ammansisca la massa, che accetta tacitamente perché obbedire è l’unico modo che conosce per andare a letto tranquilla. La democrazia non è pertanto la conseguenza di un atto di forza. Non è stata imposta. Ẻ il primo sistema giuridico che si fonda sull’inerzia. E infatti per inerzia va avanti.

Non ci sono dubbi che passare da un regime tirannico a uno illusorio sia stata una trasformazione rilevante. Ma se una cosa è migliore di un’altra, non è detto che lo sia in assoluto. Il popolo infatti ha accettato la democrazia non perché convinto che fosse la scelta corretta, non è neanche mai stato interpellato1, ma perché era l’unica alternativa a cui adeguarsi. E si è convinto che fosse quella giusta perché anche il miserabile poteva sperperare il salario nei beni reclamizzati dal mercato. Abituato a cibarsi di pane e cipolle, a indossare gli abiti dei nonni e avendo alle spalle la guerra, soprattutto dovendosi i fascisti riciclare nell’ombra, il sistema democratico era pertanto l’offerta che non si poteva rifiutare2.

Il consenso tacito della collettività è pertanto una scelta razionale perché finalizzata a un’utile. Sembrava e sembra infatti la soluzione più idonea a realizzare l’interesse dei Signori di accrescere la ricchezza approfittando della complicità collettiva e della massa di evitare la miseria grazie alla certificazione della subordinazione. E così la ragione, la capacità che secondo Kant avrebbe dovuto far uscire l’uomo dalla minorità, anziché liberarlo dalle catene, gliene ha fornite di più confortevoli. Poi gli ha dato la chiave e lo ha invitato a chiudere il lucchetto con un rassicurante: «Tranquillo amico, sono per il tuo bene!» «Per il mio pene?» «Ho detto per il tuo bene, idiota!» Al che il poveretto lo ha chiuso imbarazzato, ringraziando pure.

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Detto che la democrazia è una scelta razionale, si può affermare che sia anche giusta?

Si dice razionale un ragionamento che arriva per deduzione a una conclusione ed è vero, quindi giusto, quando lo è ogni suo connettivo logico. Passando dalla teoria alla pratica, una scelta si definisce tale quando produce un risultato utile, indipendentemente dal fatto che i mezzi per conseguirlo siano corretti o sbagliati. La contraddizione fra il principio e la sua applicazione è evidente e spesso rileva in termini morali. Ma nessuno ci fa caso perché la morale serve per punire i presuntuosi che si autodeterminano.

Di questa incoerenza è permeata la democrazia.

Peraltro, oltre agli abbietti motivi che l’anno determinata, osservando in maniera imparziale le sue dinamiche, si scopre che i principi di cui si dichiara paladina sono falsi. E poiché è falso ciò che non corrisponde al vero, cioè la realtà delle cose smentisce le premesse, sono ingiusti.

Solo qualche esempio. Non è vero che la democrazia garantisce l’eguaglianza in quanto propone un’economia fondata sul libero mercato dove il più forte detta le regole. Non è vero che assicura la libertà perché impone il monopolio del potere con la violenza e lo mantiene con l’intimazione dei mastini, l’estorsione del tributo, la vischiosità delle istituzioni, erodendo al contempo, grazie anche alla crescente invasività della tecnologia, gli spazi in cui essa può manifestarsi. Non è vero che opera nell’interesse collettivo perché, per definizione, realizza quello della maggioranza. Non è vero che le persone non sono in grado di autodeterminarsi perché quando non sono interdette dal profitto o manipolate da chi persegue il proprio, dimostrano di saper e poter agire nell’interesse comune. Non è vero che la complessa modernità esige che le decisioni siano prese da professionisti della politica perché l’individualità non è mai demandabile, perché se le persone fossero davvero così incapaci lo sarebbero anche di scegliere i rappresentanti, perché essi delegano a loro volta ad altri esperti spogliandosi delle funzioni istituzionali. Non è vero che… Qui mi fermo perché il presuntuoso non è chi si reputa superiore, ma chi primeggia approfittando delle debolezze altrui.

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Di solito quando taluno decide sulla base di premesse che ritiene corrette e poi si rivelano sbagliate, la prima cosa che fa è correggersi trovando soluzioni più appropriate. Non è questo il caso. Nonostante tutto, la democrazia è ancora considerata il miglior sistema giuridico possibile. I Signori non mollano l’osso e i sempliciotti sono talmente sedotti dalla loro protervia che ogni alternativa viene definita sobillatrice. E allora come trovare il giusto in questa fantasmagorica falsità?

Ẻ giusto ciò che è bene.

Bene è però uno di quei termini che significano tutto e il loro contrario. Per l’economia è bene sfruttare gli individui in nome della crescita. Per la politica è bene usare la collettività per mantenere i privilegi. Per il capo è bene umiliare il sottoposto perché sia di esempio. Per la massa è bene l’indifferenza per non aver grattacapi. E così via. Si tratta pertanto di un concetto relativo, che varia in base al tempo e al luogo, alla percezione personale o sociale. Qualcuno ha provato a oggettivarlo, ma le conclusioni sono sempre contaminate o dal mediocre interesse o dall’assolutismo idealistico.

Per definirlo occorre quindi cambiare il punto di vista. Il riferimento non può essere esclusivamente la società umana perché il miasma che la caratterizza ammorba ogni suo aspetto. Al tempo stesso non può essere cercato nel trascendente a cui l’animo aspira quando percepisce la multidimensionalità, ma non la spiega perché i suoi istinti sono annichiliti dalla materialità. La soluzione è guardarsi intorno e scoprire che oltre le cimiere, oltre i grattacieli, oltre il traffico, oltre la realtà travisata dei notiziari o quella mistificatoria dei post, oltre la castrazione del lavoro e la dipendenza da profitto, esiste un mondo incontaminato che una volta ci apparteneva e in cui potevamo essere liberi perché non determinati da regole imposte ed eguali perché vivere era un interesse condiviso con i suoi elementi. Lo so, non sembra messo bene, ma neanche noi lo siamo. E forse tornare a completarci a vicenda gioverebbe a entrambi.

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Per capire cosa è il bene a cui deve tendere l’uomo bisogna quindi partire dal presupposto incontrovertibile che è un essere della natura. Ẻ natura. Ciò che lo devia da tale identità danneggia lui e l’armonia circostante. Esattamente come accade per gli altri organismi.

Non posso chiedere a un cavallo di spostare un macigno o a un’aquila di marciare in fila. Non perché l’uno non abbia la forza e l’altra la coordinazione, tantomeno perché non sono intelligenti, in quanto ogni essere lo è a modo suo e nel contesto di riferimento. Quanto perché l’indole dell’equino è correre libero, del volatile è sfrecciare nel cielo. Se vengono costretti ad agire diversamente dal loro istinto o non ci riescono o soffrono. Allo stesso modo il dominio, da cui deriva il dovere civilizzante, travisa l’essenza umana. In natura infatti la prevaricazione è funzionale alla conservazione non al profitto e le uniche regole sono quelle necessarie alla sopravvivenza non all’accumulazione. Così per i non umani, così sarebbe per l’uomo se le prigioni che ha creato non gli impedissero di vivificarsi nelle infinite connessioni con le molteplicità.

Affinché le interazioni siano simbiotiche occorre quindi un ambiente armonico dove le volontà esplorino la realtà e vivano la profondità dell’esperienza. E poiché solo la natura, essendo intrinsecamente incorrotta, può garantire il fine ultimo di fondersi nell’unità, essa è il bene supremo. Per cui giusto è ciò che è naturale, cioè secondo natura: ogni essere deve manifestarsi per ciò che è, ogni processo deve svolgersi così com’è. Ingiusto è ciò che contraffà la sostanza e manipola la processualità alterando l’armonia in cui le entità si realizzano. Giusto è quello che la conserva, protegge, magnifica. Ingiusto è quello che ne sabota, condiziona, deturpa, altera, soggioga, violenta, modifica, distrugge l’autenticità. Ovverosia quanto prodotto dalla civiltà dalla prima domesticazione ad oggi.

Piante e animali lo sanno e usano la coscienza e l’intelletto per perpetuarsi e l’istinto per abbandonarsi alla sua armonia. L’uomo, invece, ancora si affida all’illusione che il solo pensiero possa renderlo migliore di quello che è. Se però non ha ancora capito che la conoscenza non è superficiale deduzione, ma autocoscienza universale della cosa in sé3, forse non è così tanto intelligente.

NOTE

*1 Con riferimento al referendum del 2.6.1946, come può considerarsi attendibile la scelta fra due sistemi giuridici di cui uno ha portato alla dittatura e alla guerra?

*2 Citazione dal film Il Padrino, 1972.

*3 Secondo Gustav Theodor Fechner la ragione consente di conoscere la dimensione corporea dei viventi, non la loro spiritualità: “la nostra coscienza è chiusa alla loro”, afferma in Nanna o l’anima delle piante, 1848

Immagine: David Hockney, Bigger spash, 1967