IL PATRIDIOTA

Giudicare è una pratica comune a tutti gli esseri. L’uomo giudica il prossimo come la pianta giudica un insetto, o un animale giudica chi invade il suo territorio. E non potrebbe essere altrimenti dato che ogni organismo è dotato di intelletto, attraverso cui coglie l’essenzialità delle cose, e di sensibilità, con cui le modula al sé. Che il destinatario non apprezzi non può pertanto essere un motivo per impedirlo. Inoltre trincerarsi dietro il non giudicate, per non essere giudicati1, oltre che un approccio liberticida, è un controsenso, dal momento che lo stesso Cristo, a cui i neutralisti si richiamano, non escludeva l’opinione, ma sollecitava a non essere giudice del tuo prossimo2 con occhio malato3, cioè a formularla senza pregiudizi o sentimenti negativi.

Detto questo, preciso che il mio pensiero nei confronti dei patrioti non è influenzato né dagli uni né dagli altri. Ne conosco a centinaia e ho avuto modo di riscontrare che, presi individualmente, fanno quasi tenerezza. Un po’ come i mastini che, tolta la divisa, li ritrovi a scherzare in coda in pasticceria la domenica mattina. Chiaro, quando sento uno di loro esaltare la patria e la nazione, non posso fare a meno di pensare che sia un idiota. Però non è quell’idiota che si proferisce a chi fa l’idiota, più un idiota detto a chi idiota si è ritrovato. Ẻ un idiota di incoraggiamento, diciamo. Con l’augurio che con un po’ d’impegno possa rinsavire.

Lo so, esagero. Anche il patriota ha una sua sensibilità e dovrei rispettarla. Ma rispettare chi ostacola l’altrui essenza è ignobile, la propria è stupido. Forse sono così radicale perché disprezzo i dogmi. Sono affine al dubbio e accolgo la casualità come una possibilità, per cui ho un’istintiva repulsione verso tutto ciò che è verità preconfezionata. E dopo la religione, la patria è forse il massimo esempio di un pacchetto infiocchettato a puntino.

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Quando il principio incontestabile diventa immaginativo si parla di idealismo.

L’idealista è l’assertore di un ideale al quale crede incondizionatamente e per il quale spesso è orgoglioso di essere intransigente. Può avere risvolti pratici, ad esempio il razzista è talmente difensore dell’uguaglianza che non accetta il diverso, oppure spirituale, ad esempio il religioso è così fervente che manderebbe all’inferno chi non lo è. Partendo dal rifiuto della realtà, considerata troppo disordinata e imprevedibile, contrappone ad essa una fantasia ordinatoria e rassicurante. La assolutizza attribuendole i connotati della suprema giustezza e opera per realizzarla. E siccome l’evidenza glielo impedisce, l’ideale diventa un’incurabile ossessione.

Si dice che l’anarchia sia una forma di idealismo. Si dice anche che sia un’utopia, che gli anarchici siano violenti, brutti e cattivi. Si dice tante cose! Quando il Potere vede minacciati i suoi privilegi, replica agli antagonisti con argomentazioni suggestive in maniera che il sempliciotto si senta un sofista aderendo ad esse. Cionondimeno, se con idea si intende una visione pratica dell’essere e con idealista colui che ne persegue il modello, certamente l’anarchico può definirsi tale. A differenza della maggior parte degli idealisti però, come non vuole che altri gli impongano la loro scelta, non impone la propria. Forse per questa sua estrema eticità il Potere non esita a reprimerlo.

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Anche i patrioti sono idealisti. Idealizzano la terra in cui sono nati o vivono. La amano. Sentono di appartenere ad essa. Provano verso tutto ciò che sta entro i suoi confini un legame affettivo che li affina all’ambiente naturale, li identifica nei pregi e difetti delle persone, li porta ad apprezzare la lingua, le tradizioni, la religione, la cultura, la storia e tante altre cose che conoscono per sentito dire, ma che creano quella sorta di anima collettiva attraverso cui credono di realizzarsi come uomini migliori.

Individuata questa condivisione di intenti, occorre poi un’organizzazione che la cementifichi realizzandone gli obbiettivi. Nasce così la nazione. E qui cade l’asino. Finché si tratta di valorizzare il passato, l’ambiente o un intercalare per tollerare la realtà ci può stare. Quando però si inventa un sistema che con le sue istituzioni costringe all’obbedienza chi ne farebbe volentieri a meno, si chiama violenza.

Accade infatti che i patrioti erigono confini, si danno istituzioni, plasmano la società, impongono la nazione e le sue regole a chiunque si trovi al suo interno e ne esibiscono ostilmente l’autorità a chi sta fuori. Puniscono chi dei primi non la accetta e non vedono l’ora di sterminare i secondi. E quando le contingenze impediscono loro di imporsi, non si accontentano di venerare i simboli, sventolare le bandiere, celebrare Costituzioni, ormai teorizzate e non praticate ovunque, bensì reprimono chi rifugge quella svilente pantomima.

Se si esaltassero quando vince la nazionale, si emozionassero con le Frecce Tricolori o glorificassero le banalità del Presidente di turno nella cameretta di casa, sarebbero affari loro. Invece pretendono la condivisione. E se non la ottengono la ingiungono prima con le buone attraverso la propaganda, poi con le cattive attraverso l’emarginazione.

Quando si è convinti di essere nel giusto finisce spesso che diventare ingiusti sia giusto. Cosa fa la differenza? Semplice, l’antiautoritarismo. Posso idealizzare ciò che voglio ma se obbligo gli altri ad accettare o adeguarsi alla mia idea sono solo un despota. Peraltro patetico perché senza trono. Ecco perché gli anarchici non pretendono di cambiare la società civile ma vogliono svincolarsi da essa.

Poiché peraltro l’dea di patria si reifica nello Stato e lo Stato è la massima espressione del dominio, niente è più autoritario dell’imperio di un’entità astratta che si impone sugli individui e fa l’interesse dei centri di potere che la promuovono, i suoi partigiani sono fra i più attivi complici della disuguaglianza. Operano come paladini dell’ingiustizia non meno dei suoi artefici e forse per questo ostentano tanta arroganza. Basterebbe studiare la storia per capire che l’integralismo è il concime di gerarchie e soprusi. Ma perché svegliarsi da una catalessi tanto confortevole?

Due sono le spiegazioni che do alla loro intransigenza. Una razionale, in virtù della quale lo Stato è un mezzo necessario per realizzare l’interesse personale, vedi il borghese che desidera ordine per mantenere e migliorare il proprio stile di vita. Una psicologica. Il patriota medio è quel tipo che non emerge nei processi di potere o non spadroneggia quanto vorrebbe. Per compensare questa frustrazione, quindi accrescere l’autostima, proietta il sé nell’idea di nazione e si identifica nel dominatore assoluto. In realtà vorrebbe soggiogare l’umanità, ma si accontenta dei cittadini del suo paese.

Come il folle delirante deforma la realtà, il fanatico la manipola in funzione del suo ideale. Nella mistificazione ideologica che lo pervade non si rende conto però che se si annulla per l’ideale può essere annullato, consentendo al Potere di usarlo per mantenere privilegi e privilegiati. Il suo gridare “siam pronti alla morte, l’Italia chiamò” diventa la colonna su cui erigere quel regno dell’eticità4 che giustifica ogni arbitrio. Sempre per il bene della patria, però!

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Per l’amor di Dio, un paese pur ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via5, dice il poeta. E infatti il libertario prima lo boicotta con della sana disobbedienza civile, poi fugge. Egli sa infatti che il patriottismo è l’embrione del nazionalismo, per cui un falso principio inventato dai despoti per schiacciare il supremo principio di libertà, come dice Bakunin.

Non può accettarlo e sente il dovere di osteggiarlo. Denigrate le sue rappresentazioni e violate le sue prescrizioni, si rifugia nella natura dove diventa cittadino del mondo, come Diogene si definiva quando gli chiedevano quale fosse la sua patria. Un cosmopolitismo da intendersi non nell’ottica illuminista, per cui occorre mettere da parte le specifiche differenze sociali e politiche per creare un’unità fra Stati, che è illusoria nonché funzionale al loro tornaconto, quanto nel significato di assenza di confini.

La scelta è radicale e produce effetti sia nelle relazioni sociali, che rispetto all’ambiente. Il presupposto è che in natura ognuno è padrone dello spazio che trova, dove è libero di realizzarsi come più gli aggrada. Ẻ nomade in quanto non vincolato da frontiere reali o immaginarie. E quando invece è stanziale, il territorio non è immutabile e non esistono barriere. L’individuo che vive lo stato di natura è spontaneo, quindi senza determinazioni. Ora è qui, ora è là e ovunque è casa. Non ha bisogno di una patria perché in ogni luogo è se stesso. La terra è la sua comunità.

Non quella predicata dalla società del dominio dove qualcuno comanda e tutti obbediscono, dove i diritti sono negativi e la socializzazione è conformismo. Tantomeno può considerarsi la mera associazione di libertari. Quando infatti le persone si riuniscono con principi e scopi comuni, possono trasferirsi da un luogo a un altro, uscire e rientrare quando vogliono, oppure sciogliere e modificare gli accordi presi. Niente è definitivo perché in natura tutto è mutevole. Inoltre il libertario che fugge dalla società del dominio abiura il primato umano per un pluralismo fattuale in cui le relazioni fra entità siano paritarie. Poiché infatti ciascuna contribuisce al divenire consentendo alle altre di identificarsi in esso, pregiudicarne l’essenza sarebbe come danneggiare la propria.

Si tratta pertanto della comunità costituita dalle infinite molteplicità che animano l’ambiente in cui vive. Dall’albero più maestoso al microrganismo impercettibile, ogni essere che partecipa attivamente o passivamente all’ecosistema è un compagno con il quale condividere la volontarietà, ciascuno agisce in autonomia ed è responsabile delle proprie scelte; la spontaneità, non ci sono costrizioni eteronome ma libera e paritaria manifestazione delle sovranità; l’autogestione, personalità che cooperano armonicamente affinché le cose divengano senza interferenze e per quello che sono; la cooperazione, si opera per realizzare l’appagamento comune necessario al proprio; lo scopo, la reciproca connessione che consente di condividere il tutto.

Chi abita la società del dominio ha bisogno di falsità per compensare la propria disgregazione esistenziale. Chi vive la natura è in ogni cosa. E in questa infinita moltiplicazione del sé la volontà si identifica nell’unità indivisa. Fosse circoscritta in spazi definiti, la spontaneità sarebbe governata, l’armonia delle interazioni non più autentica ma programmata, la percezione dell’identità deformata. Le sue potenzialità verrebbero irrimediabilmente represse portandola al lento ma inevitabile annientamento. Cosa di fatto impossibile in natura visto che l’obbiettivo di ogni organismo è vivere. Possibilissima invece nel mondo civile, essendo governato dal tanatofilo umano.

NOTE

*1 Matteo, 7.

*2 Giacomo 4,12.

*3Matteo 6,23.

*4 In questo senso: G Le Bon, Psicologia delle folle, 1895.

*5 Cesare Pavese, La luna e i falò, 1949.

*6 Hegel, Fenomenologia dello spirito, 1807.

Immagine: Oskar Zwintsher, Il dolore, anno nd