30 – LA LEGGE
«Qual è lo strumento attraverso cui lo Stato impone la sua volontà?»
«Lo chiede a noi?» domandò Manganello.
«Ma la legge, naturalmente!» dissi. «E cos’è la legge?»
«La norma!» rispose deciso Pottutto.
«Sono sinonimi!»
«La legge è legge!» gorgogliò Manganello.
«In due parole: la legge è un atto deliberato da un’autorità, elettiva o meno, che disciplina il comportamento degli uomini». Pausa. «Già così è più che sufficiente perché nessuno si debba sentire obbligato a rispettarla!».
Pottutto si contrasse come se gli fosse entrato un tafano nell’occhio.
«Esistono diversi tipi di legge: c’è la legge divina, rispettando la quale si va in Paradiso, la legge morale la cui osservanza consente la conservazione sociale, la legge della natura preesistente al diritto positivo e che disciplina le cose del mondo, la legge quale prerogativa di re e potenti, come diceva George Sorel1, di cui stiamo parlando e… e poi c’è Dredd, la legge sono io!2» chiosai per sdrammatizzare. «Un tempo le leggi erano stabilite dal monarca, dal potestà, dal signore, figure autoritarie che imponevano insindacabilmente la loro volontà. Nella società mercantile fondata sull’ipocrisia, il dominio non può essere sbattuto in faccia ai sudditi, per cui ci pensa il governo legittimato dalla farsa delle elezioni.»
«Vorrà dire il Parlamento!» mi corresse Pottutto.
«Perché il Parlamento fa ancora le leggi?»
«Così dice la Costituzione!»
«Dice. Non poteva certo immaginare che si verificasse un’emergenza la settimana!» ironizzai. «Imponendo un determinato comportamento pena la sanzione, la legge spoglia l’individuo della sua identità. Gli impedisce di decidere che tipo di persona essere e a quale mondo appartenere. Realizza quindi un’usurpazione di sovranità».
Poiché mi fissavano vuoti, cambiai tono: «Ma supponiamo che una persona si rassegni a obbedire a una volontà eteronoma per il quieto vivere e per non perdere la miseria che possiede. Se ha un minimo di dignità, quantomeno pretenderà che l’ordine derivi da un’autorità fornita di doti morali, umane, professionali, eccetera. Non dico che i politici dovrebbero essere come i guardiani descritti da Platone ne La Repubblica, ma nemmeno che primeggino per la loro avidità, ignoranza, arroganza, ambiguità, volgarità, turpitudine, immoralità… potrei proseguire all’infinito con altri gioiosi attributi! E invece, anche gli uomini migliori e più intelligenti, privi di egoismo, generosi e puri, una volta seduti in quei dannati scanni, sempre e inevitabilmente saranno corrotti dall’esercizio del potere!»
«Citazione?» domandò Pottutto.
«Bakunin. Ogni tanto ci vuole per colorare il concetto!» mi burlai. E aggiunsi: «Di fatto i politici sono materiale di rifiuto emesso dagli esseri viventi…»
«In che senso?»
«Sono merda!»
«Dopraho!». Pottutto schizzò sulla sedia.
«Preferisce l’espressione: deiezione del genere umano?». Corressi il tiro. «Il loro obiettivo esclusivo è conquistare e mantenere il potere. E per impadronirsene e godere dei suoi privilegi sono capaci delle più infime aberrazioni. Quindi io dovrei obbedire a questi malfattori? Certo che no. Non si può obbedire a chi si disprezza! La penso come Thoreau quando asseriva che mi costa meno, in ogni senso, incorrere nella pena prevista per la disobbedienza allo Stato di quanto mi costerebbe l’obbedienza3. Il rispetto viene dal merito, e loro non meritano il mio rispetto!»
«Ma la legge è la volontà dello Stato: è a lui che obbedisce!»
«Certo, certo… Oggi è lo Stato, ieri il monarca, l’altro ieri Dio e domani magari ci imporranno di venerare una ciabatta!» replicai caustico. «Detto che le sue regole possono valere, al massimo, per gli incurabili dementi, come Octave Mirbeau chiamava gli elettori, che collaborano al perpetuarsi della tirannia, in attesa della sua dissoluzione, di fronte alla legge due sono le condotte: o osservare le norme utili ai propri scopi e negare le altre…»
«Così è troppo comodo!» mi interruppe il magistrato.
«Non ho capito: lui può sfruttare me e io non posso sfruttare lui?» rilevai. «Oppure rispettarle solo quando sono giuste per non diventare complici dell’ingiustizia.»
«E stabilisce lei se sono giuste o meno?». Il PM replicò con sarcasmo.
«Ottima osservazione!» dissi. «Infatti le nego tutte. Indistintamente. Vivo come se non esistessero! Perché è giusto o non è giusto ciò che è o non è naturale. E non c’è niente di naturale quando si è obbligati a osservare un ordine che non si è contribuito a creare e che, peraltro, va contro il proprio interesse!». Aggiunsi: «Non è vero che le leggi sono le condizioni con le quali uomini indipendenti e isolati si uniscono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla, come diceva Beccaria. E vero invece che la legge ha utilizzato i sentimenti sociali dell’uomo per instillargli, con dei precetti morali che accettava, degli ordini utili alla minoranza degli sfruttatori, contro i quali recalcitrava. Essa ha pervertito il senso di giustizia, invece di svilupparlo4. È un sopruso, una violenza, una coartazione attraverso cui annientare la personalità. E illudersi che sia funzionale al bene comune è da sempliciotti buoni solo a fare danno a se stessi e agli altri.»
«L’uomo onesto rispetta sempre la legge!».
Manganello applaudì: «Bravo, non avrei potuto dirlo meglio!»
«Quindi se sono leale con gli altri, corretto, sincero, solidale, riconosco i loro diritti naturali non perché obbedisco a essa ma perché mi comporto da uomo, sono un disonesto?»
«Ahia!». Pottutto si morse un labbro.
«E poi chi stabilisce che io sia onesto se rispetto la legge?»
«Ma la legge, naturalmente!»
«La legge?»
«Anzi no, lo Stato!»
«Lo Stato?» lo incalzai. «Si rende conto di quello che sta dicendo? Si deve obbedire alla legge perché si deve. Ci avete presi per dei ritardati?»
«Si calmi Dopraho, così le viene un infarto!»
«E come posso calmarmi?»
«Ci penso io!». Pottutto ravanò nella tasca della giacca e tirò fuori una boccettina di valeriana.
«No grazie. Preferirei una canna!» lo traumatizzai. Però ripresi a parlare con tono più pacato: «Stato e legge non sono una necessità. Quando gli individui si associano per realizzare scopi condivisi in cui il bene personale si fonde con quello collettivo perché svincolato dal profitto, raggiungono spontaneamente l’armonia attraverso la sintesi delle singole volontà. Non serve altro! Senza dominio gli uomini si uniscono, si organizzano, si associano, si rimboccano le maniche per affrontare e risolvere le incognite e le difficoltà quotidiane attraverso una sinergia faccia a faccia, non competitiva, egualitaria, autonoma e responsabile. Come sempre accade quando lo Stato è assente. Pensate ai giorni che seguono una calamità naturale o una tragedia, oppure a quanto avvenne dopo l’Armistizio dell’8 settembre del 1943?»
«Nel 1943 mica ero nato!»
«Ha detto pensate!». Pottutto redarguì il maresciallo.
«Non c’era governo e non c’erano istituzioni eppure le persone tiravano avanti, i servizi funzionavano, le relazioni si solidificavano e tutti si aiutavano per garantirsi il cibo, i vestiti, le necessità primarie. Laddove non c’è accumulazione, l’obiettivo è sempre godere della vita in una società di liberi fra uguali!»
«E questa non è utopia?»
«Questo è essere padroni di se stessi. Ma mi ascolta o sta qui solo perché le hanno detto di starci?»
NOTE
– 1 citato in Hermann Amborn, Il diritto anarchico dei popoli senza stato, ivi.
– 2 Dredd, La legge sono io, film del 1995.
– 3 H. D. Thoreau, Disobbedienza Civile, 1849.
– 4 P. Kropotkin, La morale anarchica, ivi.
Editing a cura di Costanza Ghezzi
Disegno di Albrecht Durer, Giovane Lepre, 1502