COS’E’ LA FELICITA’

COS’E’ LA FELICITA’

Il Potere si è fatto furbo: non ordina, seduce. Promette benessere in cambio del corpo, necessario per lavorare, e della mente, necessaria per consumare. Con una mano aliena in fabbrica, in ufficio, in strada o dovunque paghino tre soldi da dissipare in consumi imposti ed estorsioni legalizzate, nell’altra tiene la caramella dell’accettazione sociale con cui premia chi si illude di realizzare la propria felicità se genera quella del più forte. Intanto l’economia si frega le mani, la politica è sempre più lorda di pervertimento, la massa affonda nella melma compiacendosi del suo sapore.

La chiamano socializzazione, ma è l’espediente attraverso cui controllare l’individuo. E per chi disattende il dovere di dissolversi in essa, quei pochi recalcitranti isolati, disprezzati, emarginati dalle sue dinamiche comandate, i mastini sono sempre pronti. A qualcosa dovranno pur servire!

Aveva ragione La Fontaine quando diceva che il nostro nemico è il nostro padrone. Con il capitalismo tecno-consumistico però, esso non ha più un volto umano ma corrisponde al ruolo che ciascuno assolve per assimilarsi al branco. L’annientamento del sé in cambio del riconoscimento sociale quale unica fonte di felicità.

Ma è proprio necessario essere infelici per avere la felicità?

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Tanto per cominciare, si dice “sono felice”, non “ho la felicità”. Sembra una sciocchezza, ma le parole sono importanti e queste affermano che essa è uno stato personale che attiene all’essere, non all’avere. Ẻ un sentimento, non un bene di consumo che si può smerciare. Avere non è essere, ma sembrare felici.

Trattasi poi di uno stato soggettivo, per cui è difficile trovare sia una definizione universale, che un’uniformità di cause scatenanti. Può essere determinata da condizioni personali come l’età: una cosa può generarla a venti anni e non a cinquanta; lo stato sociale: l’affamato gioisce davanti a un tozzo di pane che invece disgusta l’abbiente; la personalità: io sto bene quando scrivo, Mevio quando fa i calcoli matematici. Solo per fare qualche esempio. E, come se non bastasse, muta pure per il soggetto stesso che, senza motivo apparente, oggi può rallegrarsi di un evento, che forse domani lo rattristerà. Siamo tutti così volubili!

Il capitalismo ha provato a standardizzarla omologando personalità, bisogni e desideri: un lavoro profittevole, maggiori comodità, l’arrivismo sfrenato, possedere più beni, consumare fino all’esaurimento, eccetera. E poi ha colonizzato ogni luogo col suo modello di società uniformata, reazionaria e conservativa affinché l’individuo fosse manipolabile, prevedibile, volontariamente succube. Ma trattasi di finzioni che provocano uno stato di sospensione momentanea. Uno stare bene determinato dal riflesso sociale, quindi eteronomo, non soggettivo. L’illusione distrae, non cancella il baratro. In questo modo, infatti, la volontà affoga in artifici consumati i quali deve crearne di nuovi in un circolo vizioso e senza fine. Non bisogna essere illuminati per capire che i beni, i traguardi, gli interessi, i desideri, gli egotismi, i profitti creano bagliori di appagamento temporanei e subordinati alla contingenza, pertanto effimeri.

Perché invece la felicità sia piena e vera occorre svincolare la volontà da qualunque determinazione indotta. Deve godere di ineludibile spontaneità. Spontaneità che per manifestarsi richiede un ambiente che non ne pregiudichi le potenzialità. Un luogo vergine dove l’individuo diventi padrone esclusivo della propria sovranità e finalmente si percepisca non come entità isolata che si barcamena per sopravvivere, bensì come elemento di uno spazio, di un tempo, di una materia mutevole, senza principio né fine. In esso non simula eternità, è eterno.

Spogliatosi della precarietà insita nell’essere e che la socialità amplifica, l’anarchico contempla senza condizionamenti, instaura connessioni sensoriali e intellettive, si immerge nella sostanza delle cose producendo identità empatiche. Ora è pianta, ora è animale, ora è roccia, ora è vento e così via in un’immedesimazione simbiotica fra molteplicità che diventa fusione nella comune partecipazione. Replicata l’esperienza all’infinito svanisce la relatività in luogo di una partecipazione esaltante, senza regole, né tempo, né confini, illimitata e indeterminata, in cui vivere, non sopravvivere, nella condivisione dell’unità in continuo, eterno divenire.

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Asserire che l’unica forma di felicità è quella data dalla relazione genuina con la natura che porta a fondersi nella sua immensità non significa essere primitivi della foresta o Baba che rifuggono la materialità per cercare l’elevazione spirituale. Vuol dire invece ripristinare l’equilibrio naturale che le artificiosità hanno pervertito.

La volontà si realizza quando sfoga gli istinti, soddisfa i bisogni, afferma le proprie possibilità, impara a relazionarsi attraverso l’autodeterminazione. E perché ciò avvenga deve evolvere in totale spontaneità, senza doversi adattare ai condizionamenti né obbedire alle imposizioni. Solo se completamente libera dalle necrofile subordinazioni mondane che ora la ammorbano, spesso ne alterano l’essenza, trova la propria identità. Per questo si sviluppa laddove niente è contaminato, guarda caso il suo ambiente primigenio.

Quanto gli artefatti creati dal consorzio sociale sono effimeri e fuorvianti, tanto l’ordine naturale è spazio entro il quale la volontà prende forma in tutta la sua integrità. La purezza si conquista con la libertà, ma la libertà si esercita e si mantiene quando si relaziona spontaneamente con le diversità creando connessioni armoniche. La Natura non è una fuga, ma lo stato in cui scoprire e realizzare se stessi. Una perfezione che, se condivisa con affini, è piacere sublime.

Riconoscere il primato dell’autenticità rispetto all’obbedienza coartata o automatizzata implica innanzi tutto rifiutare ciò che deprava le coscienze trasfigurando il sé: dalla logica del profitto alle idee fisse, al progresso barbaro e schiavizzante causa di ogni perversione. Divenuti padroni di se stessi, occorre dedicarsi a un’esistenza diretta ed empatica con l’ecosistema affinché l’alterità sia identità. Nessuna sofisticazione. Nessuna superfluità. Nessuna gerarchia. Nessuna prepotenza e malversazione. Nessun costrutto artificiale o obbligo prescritto da forze preordinate. Nessuna trasgressione alla propria indole. Ma entità interagenti, cooperanti e adattative che si relazionano in maniera egualitaria per compiere l’obbiettivo condiviso di perfezionarsi attraverso la biosimbiosi.

Quando la volontà opera in un ambiente non condizionato da pulsioni predatorie e distruttive, quelle esaltate da qualsiasi logica del dominio, è padrona di se stessa e istintivamente cerca l’identità nelle molteplicità contigue. Impara a connettersi ad esse, crea quelle interrelazioni che la portano alla percezione prima, alla fusione poi nel divenire universale della vita. Ed è nell’estasi dell’indistinta unità delle cose, che il dare e ricevere amore infonde felicità.