DARE UN GIUDIZIO

LA PAROLA DELL’ANARCHICO

Se mi chiedi per quale motivo a scuola non si leggono i testi dei filosofi anarchici, coloro che hanno scritto e si sono battuti per un mondo senza padroni, rispondo che gli insegnanti sono burocrati stipendiati dall’ordine costituito. E in un regime fondato sul guadagno non c’è leva più efficace di un bonifico sicuro a fine mese.

È un po’ lo stesso motivo per cui i ragazzi arrivano al diploma che a mala pena hanno terminato il romanticismo. Al massimo, quando i professori sono lungimiranti, conoscono qualche autore verista. Meglio non alterare la suscettibilità educando allo Stato etico esaltato nell’Ottocento, piuttosto che istruire sulle catastrofi umane, ambientali, sociali provocate dallo statocentrismo nel Novecento.

La scuola è uno strumento con cui il Potere indottrina e seleziona. A esso non interessa che le persone siano consapevoli e autonome. Le vuole ignoranti e succubi sia fisicamente che, soprattutto, mentalmente per poterle manipolare e sfruttare. E così l’entusiasmo con cui i giovani lasciano i banchi si trasforma presto nella consapevolezza di essere ingranaggi di una catena. Con due effetti consequenziali: il primo è perdere l’autostima, il secondo è tentare di ripristinarla accettando di partecipare al sistema che ne deprava la personalità. E poiché non tutti hanno la capacità o l’opportunità di sviluppare questa seconda opzione, molti regrediscono alla prima crogiolandosi malinconicamente nell’inerzia.

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L’anarchia propone molte alternative al sistema educativo tradizionale, tutte fondate sullo sviluppo dell’individualità. L’educatore è tale quando riesce a farla emergere, perché soltanto chi è consapevole di se stesso e dei propri mezzi può essere padrone del mondo. Curiosità, personalità, sperimentazione, integrazione, pluralismo, interdisciplina, capacità critica sono solo alcuni dei principi su cui si fonda il metodo antitetico alla manipolazione, all’omologazione, alla gerarchizzazione, alla certificazione praticato da quello autoritario e impositivo.

Affinché però la pedagogia libertaria possa diffondersi, occorre non solo che si evolva fra affini che operano nelle maglie del Potere grazie all’underground, ma che sia trasmessa ai suggestionati e dominati dal sistema. Per questo gli anarchici usano la parola e non temono il confronto personale. Sanno che se uno fissato con la trap ascolta Chopin, probabilmente si addormenta. Ma sono convinti che se ha vicino chi lo introduce con passione alla musica dell’anima, deve essere alessitimico per non innamorarsene. Ecco perché, prima di invitare alla pratica anarchica, educano a diventare padroni di se stessi. Non si è anarchici se non si è uomini liberi. E l’unico modo per essere liberi è disintossicarsi da ciò che narcotizza la volontà: il profitto. Intorno al quale l’ordine costituito edifica gli altri artifici mentali. Dopo tutto, se viene venduto come mezzo di realizzazione del sé, non è per nascondere il nulla che provoca?

Ma anche l’anarchia sarà sempre utopia finché i suoi attori penseranno e agiranno in termini di tornaconto. Deve germinare in un ambiente che esclude l’asservimento, l’alienazione, la disintegrazione della personalità, dove l’individuo possa abbandonarsi all’istinto per vivere la naturalezza dell’esistenza.

L’uomo è un organismo biotico. E in quanto tale, si perfeziona spontaneamente nella condivisione dei processi naturali. Siamo natura che prende coscienza di sé, diceva Sorel. Occorre lasciarsi andare al suo divenire per trovare la propria identità. In termini pratici, bisogna rinunciare agli artifici del progresso mercantile, consumistico e predatorio, della logica del dominio in generale, per immergersi nel selvaggio operando attraverso relazioni empatiche coi suoi elementi in un’interdipendenza in cui ciascuno è protagonista. Che non vuol dire spogliarsi degli averi per parlare agli uccelli come San Francesco. Sai quante cose interessanti può dire un lupo o un cinghiale, un nocciolo o una pianta d’origano, ad esempio?

Quando l’individuo vive senza profitto, immune da subordinazioni artificiali, e pratica un rapporto continuo col creato, coglie la propria essenza dalla connessione coi suoi elementi, dalla partecipazione alla sua evoluzione, dall’identificazione con le molteplicità. Ed è allora, quando l’unità, la propria, diventa infinito, il creato, che l’estasi esplode. Diversamente, l’esistenza è solo una parodia che non fa ridere.

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Compiuto questo slancio etico, il libertario può dedicarsi alla costruzione di realtà autonome, autogestite e autogovernate che erodano l’ordine da cui si è estromesso e realizzino possibilità alternative. E con questo afflato, lo stesso che lo porta a esaltarsi in quella meravigliosa attività che è l’inosservanza delle regole imposte, può diffondere la parola.

Ogni occasione è buona per manifestare i principi che lo guidano, raccontare le esperienze che lo vivificano, descrivere la gioia che provocano, trasmettere la conoscenza e il buonsenso in chi vive solo perché ha paura di morire. Non gli importa se viene considerato un folle o un divergente, se viene emarginato o punito. La consapevolezza di sé e la certezza di essere nel giusto, di cui si alimenta ingordamente, lo portano sempre a divulgare:

  1. Che il profitto è strumento di potere e il potere è il male assoluto perché si conquista e si mantiene con il raggiro, la manipolazione, la corruzione, il malaffare, la depravazione, l’intimidazione, eccetera e si conserva con la violenza.
  2. Che il profitto genera sofferenza sia perché non basta mai, sia perché per conseguirlo si rinuncia al sé e si sfrutta il prossimo, sia perché è sempre alienante, disumanizzante, umiliante, annichilente.
  3. Che negato razionalmente il profitto, il giudizio, il desiderio, l’utile e ogni forma di dominio si diventa padroni di se stessi.
  4. Che il padrone di se stesso è capace di abbandonarsi all’istinto per identificarsi con le infinite molteplicità.
  5. Che l’identificazione è condivisione spontanea con le entità animate e inanimate compiuta attraverso la partecipazione alle dinamiche naturali, in una simbiosi in cui la personalità si sviluppa coscientemente e autonomamente secondo necessità.
  6. Che partecipare al creato è amore. Non la passione, il sentimento, la pietà, o altre emozioni transitorie, bensì la capacità di donarsi incessantemente a esso, di proteggerlo, conservarlo, magnificarlo, in comunione con affini.
  7. Che unirsi all’ordine naturale è lo scopo di ogni esistenza in quanto unica via per cogliere e realizzare il sé nel tutto.

 

Concludendo: l’anarchia prima di essere condotta pratica è una scelta etica che ridefinisce il rapporto col mondo, con gli altri e con se stessi. Bisogna pensare disinteressatamente e agire armonicamente alle leggi eterne della natura e della necessità1. E poiché in natura la felicità è amore, nient’altro2, senza donarsi non c’è padronanza e la parola è il mezzo più diretto di cui dispone il libertario per offrirsi al prossimo. Almeno finché non viene messo a tacere.

NOTE

*1 William Godwin, Political Justice, 1793.

*2 Hermann Hesse, Sull’amore, Mondadori, 2016. Testo completo: “Quanto più invecchiavo, quanto più insipide mi parevano le piccole soddisfazioni che la vita mi dava, tanto più chiaramente comprendevo dove andasse cercata la fonte delle gioie della vita. Imparai che essere amati non è niente, mentre amare è tutto, e sempre più mi parve di capire ciò che dà valore e piacere alla nostra esistenza non è altro che la nostra capacità di sentire. Ovunque scorgessi sulla terra qualcosa che si potesse chiamare “felicità”, consisteva di sensazioni. Il denaro non era niente, il potere non era niente. Si vedevano molti che avevano sia l’uno che l’altro ed erano infelici. La bellezza non era niente: si vedevano uomini belli e donne belle che erano infelici nonostante la loro bellezza. Anche la salute non aveva un gran peso; ognuno aveva la salute che si sentiva, c’erano malati pieni di voglia di vivere che fiorivano fino a poco prima della fine e c’erano sani che avvizzivano angosciati per la paura della sofferenza. Ma la felicità era ovunque una persona avesse forti sentimenti e vivesse per loro, non li scacciasse, non facesse loro violenza, ma li coltivasse e ne traesse godimento. La bellezza non appagava chi la possedeva, ma chi sapeva amarla e adorarla. C’erano moltissimi sentimenti, all’apparenza, ma in fondo erano una cosa sola. Si può dare al sentimento il nome di volontà, o qualsiasi altro. Io lo chiamo amore. La felicità è amore, nient’altro. Felice è chi sa amare. Amore è ogni moto della nostra anima in cui essa senta se stessa e percepisca la propria vita. Ma amare e desiderare non è la stessa cosa. L’amore è desiderio fattosi saggio; l’amore non vuole avere, vuole soltanto amare”.