LA GRANDE BELLEZZA
LA GRANDE BELLEZZA
Parlare di bellezza è difficile perché non esiste una definizione assoluta. E non esiste in quanto ognuno ha la presunzione di avere la propria. A ragione, peraltro. Perché quando mi emoziono innanzi a un’immagine, una melodia o un ricordo struggente, quell’esplosione di sentimenti è mia, solo mia, ed è una delle poche cose che posticipa il proposito di farla finita.
Tutti credono di conoscere il significato, ad esempio, di parole come libertà o eguaglianza, ma quando chiedi loro di applicarle scoppiano le guerre! Questo perché certi concetti oltre che astratti in quanto non conoscibili attraverso la realtà, o meglio, apofatici rispetto ad essa, sono anche iperonimi, cioè comprendono più significati. Quello di bellezza non è da meno e come sempre in queste circostanze meglio affidarsi all’empirica. L’esperienza personale può sembrare un parametro banale, ma cosa non lo è in una realtà peritura?
Primo caso. Osservo il Gruppo del Sassolungo e mi emoziono. Qui è semplice: la maestosità delle Dolomiti sprigiona l’immensa potenza della natura innanzi alla quale anche l’animo più arido percepisce la propria finitezza.
Secondo caso. Quando guardo C’era una Volta in America la storia irrisolta di Noodles e dei suoi compagni commuove sempre. Il motivo è evidente: i veri paradisi sono i paradisi che si sono perduti diceva quel mattacchione di Proust riferendosi alla nostalgia di ciò che è stato, poteva essere e non sarà più.
Terzo caso. Ascolto una musica di Chopin e la sua capacità di cogliere le venature degli stati d’animo tocca l’anima. Facile anche questa: era semplicemente un genio e come tutti i geni aveva dimestichezza con la cosa in sé.
Potrei proseguire ma ogni ulteriore esempio confermerebbe che la bellezza è un ménage a trois: l’attore interagisce con l’oggetto, quando improvvisamente appare l’emozione che si diverte col primo. Primo che apprezza assai consapevole che quel momento di autenticità sia precluso dall’ordinario, dove la realtà opprimente annienta la personalità asservendola alla funzionalità socializzante.
Si può pertanto definire bellezza ciò che consente alla volontà di percepire l’infinito a cui appartiene e di provare al contempo un senso di languido spaesamento dovuto al desiderio, quasi un bisogno, di congiungersi a esso. La sua percezione caratterizza l’attimo precedente l’estasi dell’unione, che può compiersi esaltando la volontà oppure svanire immalinconendola. Riferendola al tangibile, è la qualità che il soggetto coglie nell’oggetto grazie alla quale la propria identità può fondersi con esso acquisendo coscienza del sé quale parte del tutto in divenire. Una rivelazione potente che esplode nell’emozione, l’espressione più sincera della soggettività.
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Ogni entità è volontà che reagisce agli stimoli interni ed esterni in maniera fisiologica e cognitiva. Un animale gioisce, soffre, gode consapevolmente come l’umano. Idem le piante, benché la scienza lo neghi perché la ragione non comprende il sensibile. Quanto agli oggetti inanimati, vero che sembrano morti, sapessi però quanto calore c’è sotto la loro scorza dura!
La realtà è quindi costituita da infinite volontà interagenti, ognuna diversa dall’altra. E siccome il processo simbiotico è soggettivo, non può essere uniformato né concettualmente né concretamente. Di sicuro però vale il principio dell’hic et nunc: occorre che il referente sia un determinato oggetto, quello e non un altro; occorre che nel momento in cui il soggetto si relaziona ad esso, la volontà sia sensibile alle sue qualità.
Ẻ evidente che il mare visto da Capoliveri non è come la pozza che si forma intorno al tombino quando piove. Quindi è indubbio che alcune cose siano oggettivamente più belle di altre. Se però quando osservo il panorama non sono ispirato o sono distratto, mi lascia indifferente. Così come può lasciare indifferente chi non possiede la capacità o non riesce a coglierne la maestosità. Ecco perché la bellezza, oltre ad essere provocata, è casuale, istantanea e sempre personale.
Difficile capire se sia una virtù dell’oggetto a cui l’attore si abbandona, oppure se sia negli occhi di chi guarda. Ẻ la storia dell’uovo e della gallina. Chi è nato prima? Ancora una volta al dubbio soccorre l’esperienza: se per me è bello, anzi è un capolavoro, Il deserto dei Tartari di Buzzati, per mio nipote è un testo noioso perché non ci sono sparatorie o sesso sadomaso. Sono giovani, che ci vuoi fare! Se per me è bello il film Schindler’s List, qualcun altro invece lo detesta perché brucerebbe gli ebrei, oppure lo ama perché si indentifica in Amon Goth. Sono razzisti. Vorresti, ma mica li puoi eliminare! Indipendentemente dalle caratteristiche di ciò che provoca il turbamento quindi, se l’agente non possiede l’attitudine, se non percepisce la sostanza, se la volontà non si indentifica nella sua essenza, non c’è emozione, non c’è bellezza.
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Nonostante queste ovvietà, l’estetica, quella dottrina che studia il fenomeno artistico, si è spesso concentrata sul referente definendo una serie di criteri variabili nel tempo e nel luogo attraverso cui assolutizzarla in maniera da non subire l’ingannevole sensibilità dell’osservatore. Superando il gusto autoreferenziale l’oggettivizzazione prende peraltro due piccioni con una fava: da un lato l’individuo non si autodetermina ma si affida a chi gli dice cosa e come pensare e per cosa e come emozionarsi, quindi lo controlla. Dall’altra si crea una pletora di esperti che non basterebbero i campi di pomodori del meridione per farli lavorare tutti.
Per questi professionisti del concetto un corpo, un’azione, un’immagine è bella quando si conforma a parametri definiti. E così la condotta deve uniformarsi a principi morali condivisi, mi viene in mente l’intrepido eroe che afferra il suicida sul cornicione perché togliersi la vita è considerato moralmente riprovevole -capitasse a me lo denuncerei per violenza privata!-, l’opera pittorica deve possedere armonia, simmetria, prospettiva, il giusto chiaroscuro, eccetera; quella musicale deve considerare la frequenza, il ritmo, la metrica, la sinergia fra voce e andamento e così via; quella cinematografica deve rispettare canoni fotografici, narrativi, interpretativi, registici e bla bla bla. In questo modo il bello non è più una miccia sensuale che rischia di deflagrare nelle mani dell’inetto, ma viene ingabbiato nel giudizio, assimilato a un calcolo matematico, adattato a uno schema prefissato affinché anche gli impulsi siano prevedibili.
Eppure mi innamoro di una ragazza non perché ne ho misurato la simmetria degli zigomi, sezionato le labbra o soppesato le dimensioni delle poppe. Non credo comunque avrebbe molto appeal approcciarla con il metro da sarto o la bilancia! Mi innamoro perché guardandola negli occhi il pensiero svanisce, la fantasia si inebria di immagini e sensazioni vivaci e la mia volontà si scioglie nella sua. Il mio non è un giudizio, ma un sentimento spontaneo e irrazionale. Quello stesso che a volte mi fa commuovere, trepidare, eccitare.
La ragione non potrà mai conoscere il bello perché è sempre contaminata. Anche quando si vanta di essere disinteressata, è interessata a dimostrare la propria integrità. Predefinirlo significa manipolare l’individualità subordinandola a criteri mutevoli. Al massimo può interpretarlo o rappresentarlo. Al contrario invece l’istinto è quella attitudine che consente di cogliere le sfaccettature del mondo trasformandole in propellente della volontà. Certo, anche i sensi possono essere educati. Se vivo in un contesto che esalta l’armonia delle forme, probabilmente sarò propenso a preferire Leonardo a Kandinskij. Però il primo lo giudico in base alle sensazioni artefatte stimolate dalla ragione, nel secondo mi immergo e frullo fra i suoi elementi come una pallina nel flipper. Dove mi divertirò di più?
Per mediare fra queste posizioni antinomiche la cultura mercificante fa leva sulla maggioranza. Se opinione comune dice che la Gioconda è bella, deve essere bella per tutti. A parte che quel ritratto mi è sempre stato antipatico perché la tipa sembra tirarsela un po’ troppo, il conformismo favorisce le vendite ma porta alla mediocrità. La società civilizzata che su esso si fonda è la prova dell’annichilimento umano e la sua fiducia nel progresso è impegno a ad annullare i pochi sprazzi di genuinità rimasti. E non potrebbe essere altrimenti quando si impedisce all’essere di manifestarsi per quello che è. Limitare le potenzialità della volontà significa uccidere l’individualità. La ragione non accede pertanto al bello, ma lo distrugge. Diversamente, la volontà pura può coglierlo perché è desiderio di vita pulsante che si manifesta attraverso riflessi d’istinto.
Non la devi immaginare come uno spiritello che guida il corpo, giacché è impercettibile e indefinibile. Ẻ in tutti gli organismi e nell’unità costituita dai medesimi. Ẻ impulso primigenio di conservazione e perpetuazione insito in ogni entità. Essa diviene con l’unico scopo di fondersi nel tutto, la cosa in sé, a cui appartiene ontologicamente, quella processualità a cui si unisce sviluppando connessioni simbiotiche con le molteplicità.
Generalmente ciò si compie attraverso l’interazione fra organismi. Ma può avvenire anche quando la singola volontà percepisce la grande bellezza mediante la figurazione della sua unità. Ẻ il caso del panorama mozzafiato. Mentre il soggetto lo osserva, la volontà avverte la vitalità degli elementi che la costituiscono, coglie le infinite connessioni che la animano, si indentifica nelle loro trasformazioni, e muta essa stessa. Ovviamente l’interdipendenza non è reale, ma rilevarne la possanza la eternizza a sua volta, seppur fugacemente. E così il nostro amico vibra tutto emozionato!
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La bellezza salverà il mondo dice Dostoevskij ne L’idiota. Quale bellezza salverà il mondo? chiede il giovane Ippolit al principe Miskin2. La risposta che dà lo scrittore russo è l’affrancamento dalla tragedia della realtà cupa, enigmatica, violenta da cui il protagonista cerca di emergere.
Ẻ un inizio, ma non è sufficiente. La semplice fuga è fine a se stessa. Occorre creare le condizioni affinché la volontà possa perpetuare la vita, non esaltare la morte celebrata dalla società del dominio. In fondo che ci vuole, basta essere ciò che si è: natura.
La bellezza non è pertanto il vero aristotelico o l’idea platonica che diventa corpo, non è la perfezione divina o l’armonia delle forme, non è mai definita in funzione di un giudizio, né è astratta, ma è lo stato di natura. Quel luogo incorrotto in cui il pathos di Dionisio reifica ciò che Apollo ha negato. Solo in questo ambiente incontaminato infatti la volontà è libera di identificarsi nell’unità, insieme a esseri che fanno altrettanto.
Lo so, sembra impossibile che l’umano possa abbandonare le perversioni della civilizzazione per fuggire e ridefinirsi nella natura. Eppure ogni tanto palesa quelle attitudini selvagge che, se coltivate, eviterebbero la fine. Sono attimi fugaci, ma così intensi che talvolta rendono quel bipede spelacchiato quasi bello. Parlo delle occasioni in cui si monda dal torbido e si dona, collabora e ama disinteressatamente, allorché ogni suo impulso diventa sincero, l’esperienza una scoperta, il gesto solidale. Philia, eros, agape3 si combinano magicamente fondendosi nella stessa sostanza.
Forse pecco di ingenua fiducia. Di sicuro però, senza questo slancio evolutivo verso l’autenticità, l’umanità non ha più ragione d’essere. Ẻ un peso per se stessa e un danno per le infinite specie che vogliono vivere. Estinguersi a causa di un meteorite sarebbe triste ma accettabile. Per colpa della stupidità dell’essere più involuto sulla terra sarebbe deprimente. E anche un po’ umiliante.
NOTE
*1 Agostino, Soliloqui, 1,3
*2 Dostoevskij, L’Idiota, 1869.
*3 Per i classici greci la Philia è l’amicizia, l’Eros è il desiderio romantico, l’Agape è l’amore spirituale.
Immagine: William Turner, Glauco e Scilla, 1841