ORGOGLIOSO DI ESSERE STATO UN ECCELLENTE SOMARO

La scuola non mi è mai piaciuta. Ero piccolo e già mi sembrava una coercizione sadica. Non capivo perché dovevamo apprendere cose che volevano altri e dovessimo ascoltare degli sfigatelli attempati. Odiavo i fatiscenti edifici quadrati in cui ci incarceravano, i banchi in cui ci incatenavano, il suono del gesso sulla lavagna, i cessi sempre sporchi… vogliamo parlare del lezzo stagnante di cui erano intrise le aule? Per questo quando entravo in classe mi piazzavo sempre vicino alla finestra dove per tutta la mattinata fissavo le chiome degli alberi ondeggiare al vento immaginando che da dietro i loro tronchi apparisse un cervo, un orso, anche un umilissimo topino che catturasse la mia fantasia. L’unica eccezione la lezione di religione. Anche se forse il merito era del decolté della professoressa.

I momenti più divertenti invece si verificavano quando l’argomento sfiorava la realtà contingente. L’insegnante cambiava registro vocale come se fosse spiato dal KGB e assumeva un atteggiamento sacrale trasformando il discorso in un’apologia dell’ordine costituito. Mazzini era un eroe nazionale, non un terrorista. Mussolini un dittatore, non un eletto dal popolo. La Costituzione dava dignità ai cittadini, non legittimava lo Stato. E così via. Tanto entusiasmo manieristico e il malcelato desiderio di conservazione mi parevano la parodia del miglior Sordi.

Ogni tanto per giustificarli mi dicevo che non lo facessero apposta, che davvero fossero persuasi della giustezza del sistema di cui erano servi fedeli e partecipassero convinti alla sua conservazione. Salvo poi convenire che la cosa sarebbe stata ancora più infida perché se gli abusi possono essere fisici e psicologici, non è scritto da nessuna parte che i primi siano più gravi dei secondi.

Quando mi resi conto che la manipolazione aveva effetto sui miei compagni mentre su di me generava l’assoluta indifferenza, cominciai a dubitare di essere nell’ordine: un anaffettivo, un sociopatico, un pazzo che sarebbe finito in manicomio prima ancora di scopare. E così una mattina decisi che avrei cominciato a fingere con falsa leggerezza. Il piano era conformarmi al convenzionalismo imperante finché non sarei stato libero di esprimere la mia opinione. Ero giovane e fiducioso, non potevo immaginare che un adulto può riuscirci solo se vive in una baita a quattromila metri.

C’è un episodio in terza media che probabilmente fece da spartiacque fra ciò che ero e ciò che sono stato poi. Durante un’interrogazione affermai che le nazioni sorgono sullo sterminio delle popolazioni indigene e feci l’esempio degli Stati Uniti. La professoressa sussultò: «Ma è grazie a loro che siamo un paese democratico!». «Secondo me gli indiani stavano meglio prima!» le replicai mentre andavo al banco. Fu una tragedia. Convocarono i miei genitori, coinvolsero lo psicologo dell’istituto, dovetti fare ammenda e trascorsi i giorni di sospensione togliendo le foglie secche dal giardino della scuola. Non lo dissi a nessuno ma stare nella natura anziché in classe era quello che volevo. E così cominciai a pensare che essere a-normale non fosse poi così male.

Fu allora che si rafforzò in me la convinzione che il potere è una efferatezza che si conquista con l’arroganza malvagia e si mantiene con l’intimidazione perversa. Ma che può essere raggirato ignorandolo ed eluso sfruttandolo come lui fa con noi. E così se da una parte assecondavo la volontà delle istituzioni per non avere problemi, dall’altra le usavo per togliermi qualche soddisfazione. Come quando dopo un bel voto feci pressione sul professore di tecnica perché parlasse con il collega di educazione fisica, nonché allenatore della squadra di calcio della scuola che mi teneva sempre in panchina a causa della reciproca antipatia. E alla prima partita da titolare segnai due goal. Tiè!

Non ricordo invece come e quando il mio io ostile sia diventato insubordinato. Quando cioè ho maturato una consapevolezza libertaria. Forse il fatto che le uniche autorità che conoscevo erano quella violenta di mio padre, quella manipolatrice dei maestri e quella viscida dei preti, aveva progressivamente esaurito il mio ottimismo. Forse l’esperienza mi aveva insegnato che gli arroganti non sono mai gli ultimi e quando lo sono è perché scimmiottano i primi. Forse anarchici si nasce e in me è germogliato subito il seme. Non so. So però che sono sempre stato orgoglioso di essere considerato un eccellente somaro.

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Sono passati così tanti anni da allora che ho smesso di contarli. Ma ho sempre avuto ben chiaro che esistono tre tipi di persone: i dominatori, i servi e i liberi.

I dominatori sono coloro che usano l’autorità per esercitare un potere che spesso diventa arbitrio. I servi sono coloro che si adattano alle situazioni e le sfruttano anteponendo l’interesse alla dignità. Sono persone remissive alle circostanze, rispettose delle leggi dietro cui si nascondono, accondiscendenti per profitto. Replicano i soliti gesti, desiderano le medesime banalità, sognano di dare un senso alla propria nullità. Si fanno chiamare resilienti perché coglioni suona male.

I liberi pretendono di essere se stessi. Non conoscono il pregiudizio e ogni esperienza è una scoperta. Considerano la socializzazione oppressiva, le regole servono ma quelle stabilite dagli altri sono prigioni, l’economia mercifica lo scibile affinché i soliti si arricchiscano, la morale è di chi non sa cogliere il giusto, l’autorità… beh, quella va semplicemente annientata! Non hanno bisogno di una guida, si affidano al mondo che li attornia per orientarsi. Si mimetizzano nell’ombra per non essere coartati, si rivelano nel creato, dove l’unico dovere è essere felici. 

Non c’è bisogno che ti dica a quale delle due categorie appartengono gli insegnanti e tutti i manipolatori che a essi si ispirano, artefici della volontà di potenza dei loro dominatori. Perché nella società moderna il Potere non può perdere tempo a educare col manganello. Si affida ai suoi subalterni per modellare i giovani a un futuro raggiante. Il suo.

Chi vuol essere se stesso pertanto, più che le stimmate del ribelle, deve possedere lo spirito del deviato, come i fautori del controllo sociale definiscono colui che ignora i diritti e le norme sociali. E non potrebbe essere diversamente. I primi sono stabiliti dal sistema per giustificare i doveri che le seconde impongono. Il libertario, ovverosia colui che è animato dalla volontà di vivere, nega ciò che la ostacola e pretende un ambiente armonico in cui interagire spontaneamente. Un mondo alla rovescia1 letale per chi ha bisogno di quello ordinario per trarre profitto.

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Da studente mi turbava che la mia materia preferita fosse anche la più manipolata. Amavo la storia. Non faticavo a studiarla. Mi divertiva ripeterla. Con facilità mandavo a mente le date, confrontavo le gesta dei condottieri, comparavo corsi e ricorsi storici con l’entusiasmo di un novello Vico. Mi sembrava una metafora che spiega la vita. Ne coglievo la straordinaria forza etica che dava sostanza alle azioni umane. Come quel gioco in cui unendo i punti sul foglio bianco la penna disegna una forma reale, conoscere il passato mi pareva il modo più appropriato per definire il presente. Ovviamente non avevo la capacità e la possibilità di svincolarmi dalla propaganda storiografica e dovetti attendere l’università per studiarla da autodidatta con la passione del ricercatore che insegue l’antidoto al male oscuro.

Ho cominciato leggendo Tucidite1, probabilmente il primo a considerarla come il prodotto delle azioni umane. Capito poco o niente, ho spostato la mia attenzione ai romani Livio e Tacito2 con l’intenzione di comprenderne la tecniche narrative. Mi sono poi immerso in svariate opere medioevali per cogliere l’influenza dell’annichilimento religioso, dopodiché ho divorato ogni testo mi capitasse fra le mani giungendo alla conclusione che: sino a quando i leoni non avranno i loro storici, i racconti di caccia continueranno a glorificare i cacciatori, come recita un vecchio adagio africano. E forse è a causa di questa sensazione di impotenza che più leggevo, più apprendevo, più mi sembrava di allontanarmi da quell’essenza che stavo cercando.

Finché non ho incontrato nuovamente Hegel.

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Ci eravamo conosciuti la prima volta al liceo quando il buon Abbagnano mi aveva spiegato il suo idealismo. Ero rimasto suggestionato dal concetto di assoluto immanente e condividevo che esso potesse essere colto in un istante non sempre ripetibile. Di contro disapprovavo, non poteva essere altrimenti, che la libertà esistesse perché lo Stato la concede ai cittadini. Uno a uno e palla al centro.

Quando però ci siamo ritrovati, ho compreso la grandezza delle sua opera. La sua visione della storia come successione razionale di accadimenti che rappresenta lo spirito del mondo attraverso quello dei popoli che si succedono nel tempo mi ha entusiasmato. Ovviamente dissentivo che i tedeschi fossero gli unici ad averlo incarnato, che fosse circoscritto alle sole questioni umane e che la filosofia rappresentasse il momento in cui comprendere che l’assoluto è Dio manifestatosi attraverso lo spettacolo delle passioni. Ma l’idea che esistesse un’anima universale che diviene nel tempo passando da un’entità all’altra, spogliata dalla fenomenologia, dal razionalismo dialettico e dal propagandismo, era affine alla mia concezione di unità in divenire creata dalla semiosi delle infinite molteplicità4 di cui ero consapevole grazie alle numerose e variegate esperienze empatiche con la natura.

Ebbene sì, anche se per un breve periodo, mi sono sentito egheliano. Un egheliano magari un po’ eterodosso, ma convinto che esistesse un assoluto che l’individuo può conoscere.

La realtà è, infatti, composta da esseri in continuo divenire. Divenire che si perpetua anche dopo la morte, quando diventano altro. Si nasce, si muta, si perisce, si rinasce. E così in eterno. In questo fluire perpetuo della materia, ogni singola volontà si trasforma incessantemente attraverso le infinite relazioni con gli elementi che la circondano per cogliere la partecipazione al tutto e poi ricominciare mutando per trovarla ancora. Questo divenire universale in cui ogni essere si fonde nella cosa in sé è lo spirito del mondo di cui ho sempre percepito prima, compreso poi l’esistenza.

Concepita come narrazione della totalità delle connessioni che operano nell’ambiente, la storia diventa così il racconto dell’evoluzione unitaria dei suoi costituenti. Un’evoluzione che non è sviluppo teleologico né ciclico, ma casuale, dato dalle combinazioni improvvise e imprevedibili che uniscono le volontà nell’unità dinamica, viva e pulsante. Una Storia con la S maiuscola, che narra la fusione dell’umano e non umano senza più differenze e prevaricazioni, senza vincoli e senza scopi, se non quello di perpetuarsi nell’armonia eterna. Un racconto universale che ignora la sistematica esposizione di fatti, che non è più l’esaltazione del dominatore di turno reso anaffettivo dall’avidità, che invece testimonia la grande terra-foresta5 dove le interazioni paritarie, cooperanti, sinergiche, solidali rendono gli attori artefici del bene comune. La natura.

NOTE

*1 Raoul Vaneigem, Il libro dei piaceri, Ortica Editore, 1979.

Tucidite, La guerra del Pelopponeso, 460 ac.

*2 Ab Urbe Condita, 9 ac per il primo e Historiae e gli Annales, 14 dc per il secondo.

*3 Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, raccolte e pubblicate nel 1837.

*4 L’eterogenesi dei fini è stata formulata da Vico, che la concepisce come possibilità di arrivare a conclusioni opposte rispetto alla finalità previste e ripres da V. Pareto nel Trattato di Sociologia generale del 1916, come non corrispondenza fra le conseguenze oggettive e la relazione mezzi-fini concepita dal soggetto.

*5 Così Davi Kopenawa definisce quello che i “Bianchi” chiamano “mondo intero” in La caduta del cielo, Nottetempo, 2010.

Immagine: John Martin, Pandemonium, 1841