ULTIMO DISCORSO DI RAIMONDO MARIA DOPRAHO

Lo accoglie un applauso intenso. Nella piazza vibra rispetto e devozione per quel guerrigliero solitario la cui leggenda ha ispirato migliaia di comunità anarchiche. Dall’epopea della dissidenza clandestina alla creazione di centri antiautoritari, dalla resistenza armata alla trattativa per l’indipendenza, dalla lotta contro l’industrializzazione allo spiritualismo naturista, la sua storia racconta di un uomo che con il pensiero ha bandito l’autorità e con le azioni ha realizzato l’eguaglianza delle molteplicità in cui la natura non è riparo né conforto, ma fratelli, amici, compagni con i quali condividere una nuova esistenza.

Cammina appoggiandosi al ramo levigato che lo accompagna da quando un proiettile sparato da un blindato gli perforò la coscia. Indossa un mantello color ruggine. Il volto è nascosto dal cappuccio, che improvvisamente abbassa con una mano mentre con l’altra saluta i presenti. Ha l’espressione stanca e la carne emaciata, ma gli occhi scuri scintillano in affettuosi abbracci. Mangiucchia il sigaro spento mentre ringrazia con la mano. Una donna gli offre una tazza di tè, che beve in attesa che la folla si accomodi sull’erba.

Osserva le montagne lontane e con lo sguardo scende lentamente fino al bosco, dove chiude gli occhi e respira profondamente, quasi volesse inalarne l’aroma. Si china e raccoglie una pallina di mota. «Questa è tutto!» dice con voce flebile. «Ma anche quello è tutto!» indica il cielo. «Pure quelle!» punta il dito sulle vacche che pascolano distanti. «E questo!» batte la mano sul tronco su cui è seduto. «E voi gli appartenete!» Sorride teneramente agli sguardi carichi di attesa.

Quasi in contrasto con il mito che rappresenta, i suoi gesti sono lenti, le parole sussurrate, a tratti biascicate. Strofina spesso le mani. Volteggia con lo sguardo senza mai posarsi su qualcosa in particolare. Continua a mordicchiare il sigaro. Stringe la tazza di tè e la porta alla bocca. Sembra intimidito da tutta quella attenzione. Come se intimamente la giudicasse esagerata e, al contempo, non volesse manifestare la propria avversione per non sembrare irrispettoso.

Nella folla qualcuno osanna il suo nome. Parte un breve applauso.

Il compagno seduto vicino lo sollecita a parlare con un cenno.

Annuisce con una carezza al suo interlocutore. Osserva fuggente la folla. «Siete più numerosi dall’ultima volta!» proferisce sornione. «Tu mi sembri pure un po’ ingrassato!» Gli stringe il braccio affettuosamente. «Mi fa piacere incontrarvi prima di ripartire…» La nuova sospensione sembra più per distribuire gratitudine che per trovare le parole con cui proseguire. «Questi due giorni sono stati davvero molto piacevoli e istruttivi… Cacchio, avrò preso due chili!» Teatralmente si tocca il ventre. «Scherzi a parte, porterò con me i vostri insegnamenti e sarà un onore condividerli con le comunità che incontrerò prossimamente». Schiarisce la voce. Con la lingua scosta il sigaro su un angolo della bocca. Si alza e si rimette subito a sedere.

«Preferite che stia in piedi o seduto?» chiede.

«Ci tenevo a incontrarvi tutti perché volevo ringraziarvi. La vostra esperienza dimostra che libertà e eguaglianza non sono concetti astratti, ma pratiche concrete realizzabili da uomini di buona volontà.

Avete rifiutato l’ingannevole civiltà, le sue perversioni e le sue false lusinghe e vi siete riappropriati della vostra umanità fuggendo nella natura, quel luogo meraviglioso e incontaminato in cui potete essere voi stessi. Guidati dalla genuinità che le appartiene avete costituito questa comunità forte e solida, dove ciascuno pensa e agisce in simbiosi con l’ecosistema. Avete dimostrato che è possibile vivere senza profitto e senza strutture di dominio. Avete creato un antiautoritarismo simbiotico, paritario e solidale in cui ogni elemento dell’ambiente è imprescindibile. Donandovi al selvaggio avete ripristinato la primordiale armonia grazie alla quale vi identificate nell’unità indivisibile e divenite coscientemente con essa.

Non avete leggi che vi impongono chi essere e cosa fare perché la spontaneità e la condivisione sono regole di vita. Non siete schiavi dei commerci perché soddisfatti i bisogni primari, godete i piaceri del mondo. Non competete perché la gratuità è il vostro premio. Non avete tecnologia che vi renda suoi ingranaggi in quanto le mani sono più che sufficienti per accarezzare la terra e l’istinto vi aiuta a districarvi nella boscaglia. Conoscete il piacere del gesto, la profondità dell’esperienza. Siete finalmente uomini liberi che agiscono insieme a esseri che sono altrettanto.

Questo, non l’ipocrisia, non il pregiudizio, non la finzione, vi rende forti, vivi, felici. E deve riempire d’orgoglio non me, non voi, ma l’umanità intera, perché avete dimostrato che può essere migliore di ciò che è».

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Solleva la mano per fermare l’applauso e prosegue: «Quando ieri sono arrivato, mi avete accolto con entusiasmo che non merito.

Mi avete illustrato le molteplici attività che svolgete, di come verranno trasferite sulle montagne all’arrivo del caldo, di quanto la vostra praticità rispetti e onori l’ambiente. Ed è stato esaltante osservare come progrediate senza modificare, come interagiate senza competere, come solidarizzate senza pretendere. L’armonia con cui vi organizzate, l’affetto attraverso cui comunicate con gli animali, la devozione che riservate alle piante sono la prova che quando l’interesse egoistico non corrisponde al profitto ma si conforma spontaneamente all’equilibrio naturale, è possibile restituire l’esistenza alla sua originaria vitalità, che è semplicemente condivisione dei piaceri offerti dalla natura. Quella schiettezza dei rapporti che ho ritrovato partecipando ai vostri giochi, distribuendo le eccedenze, osservando i bambini che si addestravano sulle creste delle montagne o imparavano a pescare con le mani è la solita degli insetti che gustano il nettare e poi impollinano il pistillo, delle fronde che cercano la luce, dei cuccioli di lupo che si azzuffano, dei volatili che si uniscono in un’unica unità cognitiva.

Rendendo la vostra comunità l’ecosistema stesso, intelletto e corpo operano guidati dal solo istinto consentendo alla volontà di perfezionarsi nella cosa in sé, il tutto in divenire a cui appartenete. Ciò rende il vostro pensiero unitario, poiché vi identificate nell’indivisibile che si trasforma continuamente, pluralista giacché nell’alterità si perfeziona perseguendo il medesimo obbiettivo di vivere, armonico in quanto la non interferenza sulla natura delle cose ne consente la perpetuazione. Il vostro interagire con le molteplicità è reciproco, perché si realizza attraverso relazioni omogenee, dinamiche e cooperanti. Ẻ gratuito, giacché le connessioni non vengono mai contraffatte dall’utile. Ẻ temperante, poiché la volontà di vivere si esprime senza che gli eccessi generino prevaricazione. Siete natura, siete bellezza!

Se la terra è protagonista dei vostri sogni e ambiente delle vostre storie è perché quando l’individuo non è depravato da falsità, non domestica, non sfrutta, non sofistica, non distrugge, né sottostà al tiranno con la speranza di sedere al suo tavolo, è libero. E se è libero cerca e trova godimento nelle cose che lo attorniano, senza bisogni di inganni che ne deformino l’essenza.

Avete rifiutato la falsa civiltà perché siete quella vera. Una civiltà nuova che prospera simbioticamente con l’ecosistema. L’autonomia conquistata vi rende spiriti del creato che realizzano l’interesse personale compiendo il bene universale. Conoscete il giusto. Ed è per questo e in virtù di questo che sapete amare.

Ma della vostra felicità i servitori del male sono invidiosi. Vi temono perché l’autenticità pregiudica le loro false certezze, il loro illusorio benessere. Faranno di tutto per ostacolarvi, perseguirvi, e reprimervi. E una volta trovati vi elimineranno se non vi convertirete o sarete utili ai loro scopi. Diffidate sempre delle loro lusinghe. Sono come gli avventurieri che ingannarono gli indigeni per sterminarli e sfruttare i loro territori. Se necessario combatteteli con voluttà e senza rimorsi. Con l’empio progresso non c’è negoziazione! La natura vi proteggerà. Le altre comunità vi sosterranno. Mentre i gruppi che operano all’interno del sistema continueranno ad eroderlo lentamente affinché smetta di corrompere i deboli e le coscienze si sveglino.

Lasciate la paura ai gretti. Che crepino oppressi dalla società del dominio mentre voi godete nel condividere questa meraviglia!»

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Dopraho si alza. Sospira profondamente, poi conclude sfumando il tono di voce: «Volevo infine regalarvi questo libro» dice. Lo estrae da una tasca del mantello e lo appoggia sul tronco. «Ẻ una raccolta di riflessioni sul rapporto uomo-natura scritte durante questo mio ultimo pellegrinaggio. Sintetizza il pensiero e l’esperienza condivisi con le comunità anarchiche incontrate lungo il cammino. Ve lo consegno perché temo che non ci vedremo per molto tempo…» Solleva la testa e abbozza un sorriso persuasivo: «Ẻ mia intenzione tornare alla terra» sentenzia con tono sfuggente.

La folla rumoreggia confusa.

«Non ho deciso così perché i mastini sono sulle mie tracce. Tutti dobbiamo morire, benché per mano loro sia un’opzione che non ho mai preso in considerazione. Il mio umore è allegro e gioioso. La mia salute va alla grande. Ẻ arrivato però il momento di provare nuove esperienze. E mi piace l’idea di decidere quando e come cominciare. Non dobbiamo essere padroni di noi stessi? Io lo sarò fino alla fine!

Credetemi, non ho rimpianti e sono orgoglioso della mia vita. So di aver dato tutto e ricevuto oltre le attese. Ho solcato terre lontane e ovunque mi sono sentito a casa. Ho amato con passione viscerale e tenerezza premurosa. Ho fraternizzato con ogni tipo di persona e imparato da tutti. Non ho mai avuto padroni, né assaporato la denigrante servitù. Combattere gli uni e liberare dall’altra è stato il mio più grande successo. Ho avuto il privilegio di vivere senza morale, religione, legge perché il giusto non è imposto ma è nella natura. Grazie a lei ho imparato a essere l’altro ed essere tutto. Mi sono lasciato trasportare dalla sua corrente ed è stato possente. Ma adesso il mio corpo è una giara piena il cui contenuto deborderebbe se aggiungessi un’altra goccia. Devo svuotarla e riempirla. L’armoniosa casualità saprà donarmi nuove sembianze. Magari trasformerà la mia volontà in un aquila e proverò l’esperienza di volare fra le ruvide vette dei monti. Magari sarò una mangrovia che guazza nel mare, oppure diverrò un lombrico che scava cunicoli, ingoia terra e fertilizza la terra. Comunque sarà meraviglioso divenire!»

 Conforta i presenti con un altro sorriso.

«Adesso devo proprio andare!» dice. «Porterò con me il vostro coraggio e il vostro ardore. Che la natura vi protegga e vi ispiri sempre. Che la libertà e l’eguaglianza siano il vostro baluardo contro la malvagità dell’incivile progresso». Poi si rivolge alla donna che gli sta vicino: «Posso avere un cicchino che si è alzato il vento?». «Vuole del tè caldo, signor Dopraho?». «Tè caldo?» ci pensa. «Forse è più salutare un goccetto di rum!» se la ride.

Scolato il bicchiere, congiunge le mani e abbozza un inchino. Biascica il sigaro compulsivamente prima degli ultimi abbracci. Tira su il cappuccio del mantello e con agilità si volta verso il sentiero che porta al bosco, nella cui vegetazione poi si dissolve.

 

Si dice che dopo quell’incontro sia stato avvistato presso alcune comunità sulle Alpi. Altri giurano d’averlo visto vagare per mare su una zattera. Altri ancora sono certi che giocasse con i leoni. A me piace pensare che si sia ricongiunto a quella terra che amava tanto e ora volteggi nei cieli come un’aquila o guazzi nel mare come una mangrovia o scavi come un lombrico. Dovunque sia, qualunque cosa sia, starà sicuramente condividendo la felicità con le molteplicità che gli stanno intorno.

Immagine: I cavalli di Nettuno, Walter Crane

STRATEGIA DI CONSERVAZIONE

Fatti, non parole! è il motto della civiltà. E i fatti sono che non si dà niente per niente. Ma quando l’interazione è uno scambio con contropartita, la volontà viene snaturata. Non agisce più spontaneamente, le necessità diventano artefatte e le sue potenzialità represse dalla ricerca spasmodica, affannosa, ossessiva del tornaconto. Di conseguenza, anche la realtà con cui interagisce non è più luogo armonico in cui manifestare la propria autenticità, ma ambiente in cui predare senza bisogno. E poiché la prima regola della mercificazione è che per il profitto vale tutto, sfruttare, saccheggiare, distruggere, uccidere sono azioni compiute senza rimorso. Per di più impunite, in quanto sanzionarle significherebbe riconoscere l’immoralità del sistema che alimentano. Intanto i più deboli soccombono, le biodiversità si estinguono, i viventi vengono manipolati geneticamente o allevati intensivamente, i virus si diffondono, l’aria si fa irrespirabile e poi il buco dell’ozono, il cambiamento climatico, la desertificazione e quant’altro viene ideato dall’allegra brigata grandi affari-politica. Mentre i sempliciotti, veri responsabili del disastro perché basterebbe dessero segni di vita per sovvertire lo stato delle cose, si eclissano nell’uniformità data dagli scintillanti intrattenimenti profusi dal progresso.

La civiltà è infatti quel modello sociale in cui un manipolo di buontemponi gestisce la collettività approfittando della sua apatia. Le dice cosa deve e non deve fare, come interagire, pensare, divertirsi, godere addirittura. Attraverso la legge la disciplina. Con la morale ne colpevolizza le trasgressioni. Con l’economia la munge e con la socializzazione la solubilizza nell’obbedienza, la sola verità che le è dato conoscere. L’individuo moderno crede di essere libero perché può scegliere il padrone, ma non è mai stato tanto represso. Lo spazio in cui agisce e la direzione che segue sono programmati. Il tempo è un algoritmo di adempimenti da svolgere. Pure l’affettività è ormai preconfezionata. Della sua naturale essenza non è rimasto niente. Non sa cosa significhi essere padrone di se stesso. E quando si illude, è solo perché il controllo è così invasivo che non teme la sua autonomia.

Una volta i filosofi discutevano se l’uomo fosse corpo o anima. Oggi è evidente che la civiltà ha cancellato entrambi. Il primo è merce di scambio, la seconda è rimossa dall’utile che ne deriva. E lui cosa fa? Niente. Neanche un sasso è tanto indifferente quando un piede lo schiaccia!

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Dal punto di vista personale la noncuranza è una strategia conservativa. Forse non proprio virtuosa, ma se gli irresoluti sono più numerosi degli audaci un motivo ci sarà. Il problema casomai è quando impongono la loro ignavia sperando di trarne profitto. Ma si sa, la viltà si alimenta della doppiezza.

Certo, ogni tanto qualcuno si rende conto che forse non è come gli hanno fatto credere. Ma in un ordine fondato su valori mercantili, anche le rivoluzioni che saltuariamente lo agitano diventano rivendicazioni di rango volte a ottenere le medesime possibilità di chi spadroneggia i processi di potere. Pensa alla controcultura degli anni sessanta che reclamava i diritti delle donne o dei neri fino a quel momento esclusi dal sistema capitalista. Dopo lotte e sacrifici hanno finalmente ottenuto il risultato di essere reazionari più di coloro che avversavano.

La remissività è nella natura umana. L’uomo è un essere fragile e la sua fragilità, come tutte le cose del creato, ha un valore ambivalente. Se da una parte lo rende capace di opere artistiche straordinarie, di invenzioni scientifiche surreali, di autocoscienze complesse che fanno la fortuna degli strizzacervelli, mi piacerebbe comunque capire come si può affermare con certezza che le formiche, gli elefanti o le mangrovie non abbiano i loro Michelangelo, Einstein e Freud, dall’altra lo rende l’unico essere vivente che per spirito di conservazione regredisce anziché progredire. Teme il cambiamento perché convinto che al male non ci sia fine e così si affida all’autorità di turno. In questo modo, se la morsa improvvisamente asfissia, può sempre dire che la responsabilità è sua. Senza mai disobbedire, però.

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Eppure in natura ogni essere è autonomo e, quando prevista, la gerarchia è una necessità a cui il singolo può decidere di non aderire. Per questo la rivoluzione è prima di tutto un atto spirituale che consiste nel rompere con l’ordine costituito per cominciare un’esistenza che con esso non abbia niente a che fare. Finché si crede che qualcuno o qualcosa possa cambiare la trama della propria vita non si è padroni di se stessi!

Faccio un esempio. L’uomo sta distruggendo l’ambiente e la sesta estinzione1 è già iniziata. Da più parti si propone di ripristinare il patto con la natura in cui la sua sacralità sia declinata al futuro e non al passato. Che in termini concreti significa applicare una serie di strategie correttive in cui le persone devono rinunciare a parte dei confortevoli privilegi materiali elargiti dal progresso e i governi devono impegnarsi a trovare soluzioni che lo orientino verso scelte ecosostenibili.

Pensiero stupendo, mi viene da canticchiare. Meglio non dire, però2.

Sono adorabili questi profeti dell’ecologismo che desiderano salvare il mondo come i turisti bramano proteggere gli animali che vivacizzano i loro safari!

La verità è che la denaturalizzazione è una realtà che ha molteplici cause. Non serve intervenire sul riscaldamento climatico se non si impedisce lo sfruttamento intensivo, non si pone un freno alla crescita demografica o non si contrasta la deforestazione e l’inquinamento. Non basta correggere la singola azione quando opera in un sistema marcio. Se non si agisce radicalmente sull’economia che genera sopruso, sull’industrializzazione che preda l’ambiente, sulla tecnologia che trasforma e consuma e soprattutto non si elimina il principio per cui il profitto prevale sul resto, la fine è certa. E il dramma sfiorerà i sottili neuroni del sempliciotto soltanto quando toccherà il suo portafoglio.

Finché le persone non cessano di collaborare col male, ogni proposta è un pour parler. Utilissimo per nutrire chi riempie i salotti televisivi o vendere libri, un po’ meno per evitare la rovina. Non è infatti al futuro che bisogna guardare, ma al presente. E il presente è che la catastrofe può essere fermata solo eliminando la società del dominio. Occorre che ogni individualità si convinca che deve essere padrona di se stessa, che può esserlo soltanto svincolandosi dai pregiudizi che la determinano e che deve operare in un ambiente che premi il disinteresse e stimoli la spontaneità. Una consapevolezza che matura personalmente risolvendo le fragilità nell’abbandono e si concretizza con scelte radicali che portano a una nuova era silvestre in cui la ragione utilitaristica lascia il posto all’ascolto, al fiuto, al sapore, alla contemplazione, alla connessione e alle altre infinite capacità sensoriali ignote al barbaro civilizzato, che la natura invece riesce a stimolare.

Rifugiarsi nel selvaggio e difenderlo a ogni costo e con tutti i mezzi possibili è ciò che deve essere fatto per se stessi, per l’alterità e per l’ambiente, luogo in cui la volontà si perfeziona nell’armonia reciproca. Se ciò non diventa scopo spirituale prima ancora che esistenziale, oltre alle scontate implicazioni ambientali e alla perpetuazione della gerarchia, le soddisfazioni personali saranno autocompiacimenti transitori, le consolazioni retoriche e la volontà un nulla che, a confronto, il nichilismo è un’esplosione di speranza.

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Quando un frugoletto disegna, non riproduce i canyon di Manhattan, le auto ferme in tangenziale o i siti di smaltimento dei rifiuti tossici. Traccia le curvature delle montagne, raffigura gli animali e gli alberi e fra il sole e le loro chiome abbozza qualche nuvoletta e stormi di uccelli. Questo perché l’uomo non può negare di essere stato, un tempo, felice come i cervi di bosco3. E un animo puro a quell’armonia originaria si ispira e aspira. Ẻ infatti a quest’impulso primordiale e selvaggio che il ribelle tende quando fugge dalle macerie dell’anima per recuperare la sublime capacità di decidere della propria vita.

Immagina cosa sarebbe se domani non esistesse la civiltà. Verrebbe meno lo sfruttamento, la violenza, le predazione, scomparirebbero le città, le industrie, il cemento, la tecnologia, le istituzioni e tutto ciò che conosciamo. Saremmo noi e la natura. Nudi nella sua immensità. Spaventati certo, perché abituati a temere l’orso che si avvicina indiscreto e non l’estorsione dell’autorità, ma dopo verremmo travolti dal piacere dei colori, degli odori, della freschezza, dalla curiosità della scoperta, dal desiderio, quasi un bisogno, di simpatizzare con gli animali, di svagarsi in un prato o divertirsi fra gli alberi. Ci abbandoneremmo esaltati, attoniti per non averla apprezzata prima, ma anche delusi di averla offesa per troppo tempo. Saremmo volontà unica perché non l’amore per i soldi, non la fede, non la fama, non la giustizia… datemi solo la verità, diceva Thoreau4. Che consiste nel respirare come gli alberi, nel correre come gli animali, nel divenire come le correnti dei mari, nell’essere equilibrio di interazioni paritarie e affettive con gli esseri del mondo.

La voglia di vivere si realizza nella natura selvaggia perché se il corpo determina la specificità dell’intelligenza, dei bisogni, delle capacità, la sostanza è la stessa delle molteplicità che la popolano e si autodetermina attraverso la condivisione identitaria con esse. Una natura che non è riserva che sollazza i ricchi, né ristoro dall’esistenza alienante del civilizzato. Non è fonte di vita, energia, benessere che va protetta e conservata perché utile o per simpatia. Non è il deus sive natura che divinizza il mondo5, tantomeno l’eterno uno concesso da Dio all’uomo per favorire nuove esperienze che ispirino fiducia in se stessi6. Non è mezzo per un fine, né sistema o teoretica. Non si racchiude in formule meccaniche o categorie ordinabili. Non è definibile se non come vita. Banalmente vita. Immanentemente vita in cui le azioni di attori si intrecciano formando un flusso condiviso senza ideatori, iniziatori, proprietari, padroni7. Ẻ semplice volontà cangiante in cui quella di ogni essere si perfeziona contribuendo all’autocoscienza universale del suo divenire.

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Mentre il civilizzato si affanna a cercare la felicità bramando scampoli di esistenza che ricordino esperienze piacevoli, il libertario sa dove e come trovarla. Anche se non esiste un manuale del bravo ribelle e tutto è lasciato all’improvvisazione e alla sperimentazione, dissolta l’individualità nella comunione con la natura, sente che deve sostituire il profitto con la gratuità. Le cose di cui ha bisogno, quelle più preziose, non si comprano. Ci sono. Sono lì, disponibili a tutti perché tutti ne godano. Disinteressato alle superfluità materiali, non chiede, ma dà. Si offre alle alterità per unificarsi nell’universale. In questo modo le relazioni esaltano l’antiautoritarismo, poiché l’eguaglianza delle diversità favorisce la simbiosi, e la cooperazione, in quanto il benessere personale dato dalla partecipazione al divenire è realizzabile solo se condiviso.

Gratuità, antiautoritarismo, cooperazione… non male come inizio!

Ricominciare dallo stato di natura è pertanto l’unica via per riappropriarsi del sé. L’autodeterminazione è possibile dove niente è artefatto, imposto, manipolato, pregiudicato dall’ipocrita mano umana, dove le differenze si combinano, dove la vita è un’avventura e morire equivale a vivere, dove il gesto è spontaneo, il sentimento profondo, la scoperta sorprende, la sensualità esplode. Ẻ nell’impervio cortese del selvatico che l’uomo deve addentrarsi con la curiosità del bambino, sperimentare con la vivacità del ragazzo, cooperare con la maturità di chi conosce il giusto. Luogo incontaminato dove esso non si negozia e non si sofistica, ma è carnale e celebrale, stimolato da quel senso morale che solo essa sa offrire.

Contro gli effetti della necrofila mercificazione dello scibile la soluzione esiste e se apri la finestra è proprio davanti a te. Anche se stamani c’è un po’ di nebbia che copre le montagne, hai due soluzioni: raggiungerle per cominciare una nuova vita, oppure buttarti di sotto. Morire è più dignitoso che arrendersi.

Preferisci il mare? Vero, anche la sua immensità inebria, ma interagire con un crostaceo, un mollusco o un cefalopode è un po’ più complesso che con una mucca o un lupo. Un passo alla volta!

NOTE

*1 Leakey Richard e Lewin Roger, La sesta estinzione, Bollati, 2015.

*2 Patti Pravo, Pensiero stupendo, canzone del 1978.

*3 Friedrich Holderlin, Iperione, 1797.

*4 Henry David Thoreau, Walden, 1854.

*5 Baruch Spinoza, Etica, 1677.

*6 Ralph Waldo Emerson, Nature, 1836.

*7 James Lovelock, Gaia, 1979.

Diversamente da Lovelock, non credo che la terra sia un unico organismo, Gaia appunto, capace di autoregolarsi e di replicare ai fattori che turbano gli equilibri naturali. L’intreccio (Termine usato anche da Bruno Latour in La sfida di Gaia, 2020, ma riconducibile a Humboldt in Kosmos, 1845) delle azioni compiute dagli attori organici e inorganici è infatti spontaneo e casuale, assolutamente privo sia della soggettività unitaria del superorganismo, che della provvidenzialità Assoluta riconosciuta dai filosofi naturalisti fino al materialismo scientifico del XIX secolo. Ẻ interazione delle volontà egoiste che condividono il medesimo scopo, la vita, per il quale realizzano condotte simbiotiche che producono il tutto armonico. Di cui peraltro sono consapevoli grazie alle molteplici connessioni spontanee che reiterano la vitalità dell’estasi.

Immagine: Luca Cranach, L’età dell’oro, 1530.

ORGOGLIOSO DI ESSERE STATO UN ECCELLENTE SOMARO

La scuola non mi è mai piaciuta. Ero piccolo e già mi sembrava una coercizione sadica. Non capivo perché dovevamo apprendere cose che volevano altri e dovessimo ascoltare degli sfigatelli attempati. Odiavo i fatiscenti edifici quadrati in cui ci incarceravano, i banchi in cui ci incatenavano, il suono del gesso sulla lavagna, i cessi sempre sporchi… vogliamo parlare del lezzo stagnante di cui erano intrise le aule? Per questo quando entravo in classe mi piazzavo sempre vicino alla finestra dove per tutta la mattinata fissavo le chiome degli alberi ondeggiare al vento immaginando che da dietro i loro tronchi apparisse un cervo, un orso, anche un umilissimo topino che catturasse la mia fantasia. L’unica eccezione la lezione di religione. Anche se forse il merito era del decolté della professoressa.

I momenti più divertenti invece si verificavano quando l’argomento sfiorava la realtà contingente. L’insegnante cambiava registro vocale come se fosse spiato dal KGB e assumeva un atteggiamento sacrale trasformando il discorso in un’apologia dell’ordine costituito. Mazzini era un eroe nazionale, non un terrorista. Mussolini un dittatore, non un eletto dal popolo. La Costituzione dava dignità ai cittadini, non legittimava lo Stato. E così via. Tanto entusiasmo manieristico e il malcelato desiderio di conservazione mi parevano la parodia del miglior Sordi.

Ogni tanto per giustificarli mi dicevo che non lo facessero apposta, che davvero fossero persuasi della giustezza del sistema di cui erano servi fedeli e partecipassero convinti alla sua conservazione. Salvo poi convenire che la cosa sarebbe stata ancora più infida perché se gli abusi possono essere fisici e psicologici, non è scritto da nessuna parte che i primi siano più gravi dei secondi.

Quando mi resi conto che la manipolazione aveva effetto sui miei compagni mentre su di me generava l’assoluta indifferenza, cominciai a dubitare di essere nell’ordine: un anaffettivo, un sociopatico, un pazzo che sarebbe finito in manicomio prima ancora di scopare. E così una mattina decisi che avrei cominciato a fingere con falsa leggerezza. Il piano era conformarmi al convenzionalismo imperante finché non sarei stato libero di esprimere la mia opinione. Ero giovane e fiducioso, non potevo immaginare che un adulto può riuscirci solo se vive in una baita a quattromila metri.

C’è un episodio in terza media che probabilmente fece da spartiacque fra ciò che ero e ciò che sono stato poi. Durante un’interrogazione affermai che le nazioni sorgono sullo sterminio delle popolazioni indigene e feci l’esempio degli Stati Uniti. La professoressa sussultò: «Ma è grazie a loro che siamo un paese democratico!». «Secondo me gli indiani stavano meglio prima!» le replicai mentre andavo al banco. Fu una tragedia. Convocarono i miei genitori, coinvolsero lo psicologo dell’istituto, dovetti fare ammenda e trascorsi i giorni di sospensione togliendo le foglie secche dal giardino della scuola. Non lo dissi a nessuno ma stare nella natura anziché in classe era quello che volevo. E così cominciai a pensare che essere a-normale non fosse poi così male.

Fu allora che si rafforzò in me la convinzione che il potere è una efferatezza che si conquista con l’arroganza malvagia e si mantiene con l’intimidazione perversa. Ma che può essere raggirato ignorandolo ed eluso sfruttandolo come lui fa con noi. E così se da una parte assecondavo la volontà delle istituzioni per non avere problemi, dall’altra le usavo per togliermi qualche soddisfazione. Come quando dopo un bel voto feci pressione sul professore di tecnica perché parlasse con il collega di educazione fisica, nonché allenatore della squadra di calcio della scuola che mi teneva sempre in panchina a causa della reciproca antipatia. E alla prima partita da titolare segnai due goal. Tiè!

Non ricordo invece come e quando il mio io ostile sia diventato insubordinato. Quando cioè ho maturato una consapevolezza libertaria. Forse il fatto che le uniche autorità che conoscevo erano quella violenta di mio padre, quella manipolatrice dei maestri e quella viscida dei preti, aveva progressivamente esaurito il mio ottimismo. Forse l’esperienza mi aveva insegnato che gli arroganti non sono mai gli ultimi e quando lo sono è perché scimmiottano i primi. Forse anarchici si nasce e in me è germogliato subito il seme. Non so. So però che sono sempre stato orgoglioso di essere considerato un eccellente somaro.

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Sono passati così tanti anni da allora che ho smesso di contarli. Ma ho sempre avuto ben chiaro che esistono tre tipi di persone: i dominatori, i servi e i liberi.

I dominatori sono coloro che usano l’autorità per esercitare un potere che spesso diventa arbitrio. I servi sono coloro che si adattano alle situazioni e le sfruttano anteponendo l’interesse alla dignità. Sono persone remissive alle circostanze, rispettose delle leggi dietro cui si nascondono, accondiscendenti per profitto. Replicano i soliti gesti, desiderano le medesime banalità, sognano di dare un senso alla propria nullità. Si fanno chiamare resilienti perché coglioni suona male.

I liberi pretendono di essere se stessi. Non conoscono il pregiudizio e ogni esperienza è una scoperta. Considerano la socializzazione oppressiva, le regole servono ma quelle stabilite dagli altri sono prigioni, l’economia mercifica lo scibile affinché i soliti si arricchiscano, la morale è di chi non sa cogliere il giusto, l’autorità… beh, quella va semplicemente annientata! Non hanno bisogno di una guida, si affidano al mondo che li attornia per orientarsi. Si mimetizzano nell’ombra per non essere coartati, si rivelano nel creato, dove l’unico dovere è essere felici. 

Non c’è bisogno che ti dica a quale delle due categorie appartengono gli insegnanti e tutti i manipolatori che a essi si ispirano, artefici della volontà di potenza dei loro dominatori. Perché nella società moderna il Potere non può perdere tempo a educare col manganello. Si affida ai suoi subalterni per modellare i giovani a un futuro raggiante. Il suo.

Chi vuol essere se stesso pertanto, più che le stimmate del ribelle, deve possedere lo spirito del deviato, come i fautori del controllo sociale definiscono colui che ignora i diritti e le norme sociali. E non potrebbe essere diversamente. I primi sono stabiliti dal sistema per giustificare i doveri che le seconde impongono. Il libertario, ovverosia colui che è animato dalla volontà di vivere, nega ciò che la ostacola e pretende un ambiente armonico in cui interagire spontaneamente. Un mondo alla rovescia1 letale per chi ha bisogno di quello ordinario per trarre profitto.

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Da studente mi turbava che la mia materia preferita fosse anche la più manipolata. Amavo la storia. Non faticavo a studiarla. Mi divertiva ripeterla. Con facilità mandavo a mente le date, confrontavo le gesta dei condottieri, comparavo corsi e ricorsi storici con l’entusiasmo di un novello Vico. Mi sembrava una metafora che spiega la vita. Ne coglievo la straordinaria forza etica che dava sostanza alle azioni umane. Come quel gioco in cui unendo i punti sul foglio bianco la penna disegna una forma reale, conoscere il passato mi pareva il modo più appropriato per definire il presente. Ovviamente non avevo la capacità e la possibilità di svincolarmi dalla propaganda storiografica e dovetti attendere l’università per studiarla da autodidatta con la passione del ricercatore che insegue l’antidoto al male oscuro.

Ho cominciato leggendo Tucidite1, probabilmente il primo a considerarla come il prodotto delle azioni umane. Capito poco o niente, ho spostato la mia attenzione ai romani Livio e Tacito2 con l’intenzione di comprenderne la tecniche narrative. Mi sono poi immerso in svariate opere medioevali per cogliere l’influenza dell’annichilimento religioso, dopodiché ho divorato ogni testo mi capitasse fra le mani giungendo alla conclusione che: sino a quando i leoni non avranno i loro storici, i racconti di caccia continueranno a glorificare i cacciatori, come recita un vecchio adagio africano. E forse è a causa di questa sensazione di impotenza che più leggevo, più apprendevo, più mi sembrava di allontanarmi da quell’essenza che stavo cercando.

Finché non ho incontrato nuovamente Hegel.

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Ci eravamo conosciuti la prima volta al liceo quando il buon Abbagnano mi aveva spiegato il suo idealismo. Ero rimasto suggestionato dal concetto di assoluto immanente e condividevo che esso potesse essere colto in un istante non sempre ripetibile. Di contro disapprovavo, non poteva essere altrimenti, che la libertà esistesse perché lo Stato la concede ai cittadini. Uno a uno e palla al centro.

Quando però ci siamo ritrovati, ho compreso la grandezza delle sua opera. La sua visione della storia come successione razionale di accadimenti che rappresenta lo spirito del mondo attraverso quello dei popoli che si succedono nel tempo mi ha entusiasmato. Ovviamente dissentivo che i tedeschi fossero gli unici ad averlo incarnato, che fosse circoscritto alle sole questioni umane e che la filosofia rappresentasse il momento in cui comprendere che l’assoluto è Dio manifestatosi attraverso lo spettacolo delle passioni. Ma l’idea che esistesse un’anima universale che diviene nel tempo passando da un’entità all’altra, spogliata dalla fenomenologia, dal razionalismo dialettico e dal propagandismo, era affine alla mia concezione di unità in divenire creata dalla semiosi delle infinite molteplicità4 di cui ero consapevole grazie alle numerose e variegate esperienze empatiche con la natura.

Ebbene sì, anche se per un breve periodo, mi sono sentito egheliano. Un egheliano magari un po’ eterodosso, ma convinto che esistesse un assoluto che l’individuo può conoscere.

La realtà è, infatti, composta da esseri in continuo divenire. Divenire che si perpetua anche dopo la morte, quando diventano altro. Si nasce, si muta, si perisce, si rinasce. E così in eterno. In questo fluire perpetuo della materia, ogni singola volontà si trasforma incessantemente attraverso le infinite relazioni con gli elementi che la circondano per cogliere la partecipazione al tutto e poi ricominciare mutando per trovarla ancora. Questo divenire universale in cui ogni essere si fonde nella cosa in sé è lo spirito del mondo di cui ho sempre percepito prima, compreso poi l’esistenza.

Concepita come narrazione della totalità delle connessioni che operano nell’ambiente, la storia diventa così il racconto dell’evoluzione unitaria dei suoi costituenti. Un’evoluzione che non è sviluppo teleologico né ciclico, ma casuale, dato dalle combinazioni improvvise e imprevedibili che uniscono le volontà nell’unità dinamica, viva e pulsante. Una Storia con la S maiuscola, che narra la fusione dell’umano e non umano senza più differenze e prevaricazioni, senza vincoli e senza scopi, se non quello di perpetuarsi nell’armonia eterna. Un racconto universale che ignora la sistematica esposizione di fatti, che non è più l’esaltazione del dominatore di turno reso anaffettivo dall’avidità, che invece testimonia la grande terra-foresta5 dove le interazioni paritarie, cooperanti, sinergiche, solidali rendono gli attori artefici del bene comune. La natura.

NOTE

*1 Raoul Vaneigem, Il libro dei piaceri, Ortica Editore, 1979.

Tucidite, La guerra del Pelopponeso, 460 ac.

*2 Ab Urbe Condita, 9 ac per il primo e Historiae e gli Annales, 14 dc per il secondo.

*3 Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, raccolte e pubblicate nel 1837.

*4 L’eterogenesi dei fini è stata formulata da Vico, che la concepisce come possibilità di arrivare a conclusioni opposte rispetto alla finalità previste e ripres da V. Pareto nel Trattato di Sociologia generale del 1916, come non corrispondenza fra le conseguenze oggettive e la relazione mezzi-fini concepita dal soggetto.

*5 Così Davi Kopenawa definisce quello che i “Bianchi” chiamano “mondo intero” in La caduta del cielo, Nottetempo, 2010.

Immagine: John Martin, Pandemonium, 1841

IL GIOCO DI UNA GIORNATA QUALSIASI

La logica del dominio è globalizzata. Il mercato detta le regole, lo Stato esegue imponendole a Roma come a Tokyo, a Madrid come a Sydney, a Islamabad come a Antananarivo. Lavoro, commercio, sentimenti, relazioni, consumo, ogni attività è subordinata ad una contropartita. Una mercificazione delle scibile che identifica talmente l’individuo con i beni da renderli un corpo unico.

Gli effetti di questo stravolgimento esistenziale sono molteplici, ma fra tutti si rileva la disumanità, cioè l’incapacità sensoriale e spirituale di cogliere la naturalità originaria; l’annullamento delle potenzialità personali, limitate al mediocre adattamento servile; il soffocamento dei propositi ribelli, o anche solo innovatori, volti ad ascendere i processi di potere per conseguire maggiori profitti. Ovvio che, in questo contesto, i piaceri tossici e le speranze necrofile diventino l’unica rievocazione della sensualità perduta.

L’irreversibilità del sistema rende impossibile ogni alternativa. Possibile invece la sua evoluzione, ma solo in peggio. Al ribelle la scelta: follia o diserzione. E se diserzione, che si manifesti con la dissidente interruzione di ogni sua pratica e con l’unione di persone affratellate che, evitato lo scontro con il Potere, sviluppino dinamiche clandestine fondate sull’antiautoritarismo, sul personalismo, sul pluralismo, sull’autarchia e sulla gratuità. Ma soprattutto sulla naturalitudine, cioè la capacità di concepirsi natura. Il creato deve diventare l’universo personale in cui la volontà spazia liberamente per realizzare le proprie attitudini sensoriali. E ciò è possibile solo rinunciando ai surrogati artificiosi ed estendendo la nicchia ecologica antropica1 all’universalità affinché essa si moltiplichi spontaneamente nelle sue infinite possibilità.

Tanto salda sarà la determinazione dei ribelli, tanto dissociante si svilupperà la loro azione, tanto coordinati saranno gli autogoverni, tanto inarrestabile sarà l’autonomia. Tanto il Potere, pur di mantenere la sovranità sulla maggioranza asservita, arriverà a trattare, legittimandoli di fatto. E magari non potrà fare a meno di riconoscere loro il diritto di astensione e cesserà di ostacolarne la sovranità. Quanto ai garzoni di stalla2 che si oppongono all’autosufficienza libertaria per conservare i propri privilegi, l’unica strategia è ignorarli. Chi vuole vivere si disinteressa della morte!

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Per confrontare gli effetti della società moderna con quella anarchica, posto che quest’ultima può essere rappresentata solo in base alle numerose, ma ancora relative, pratiche clandestine, e che non è possibile predire il futuro, facciamo un gioco.

Dopo tutto giocare è la base dell’educazione libertaria!

Immaginiamo la giornata di tre soggetti: l’omologato, colui che pratica le regole della società civile; il refrattario, ovvero l’attivista che a essa si adegua nonostante la disprezzi; l’illuminato, che invece la rifugge per vivere in una comunità anarchica. E siccome esistono modelli anche molto diversi fra loro, scelgo quella che pratica la biosimbiosi, cioè condivide con la natura l’esperienza esaltante della vita selvaggia.

L’ALBA DI UN DI UN GIORNO QUALSIASI

Squilla la sveglia e l’OMOLOGATO sobbalza di soprassalto come se avesse fatto un brutto incubo. Seduto sul letto con la fronte fradicia e una pesante ipossia, si guarda intorno tramortito. Non riconosce né il posto in cui si trova, né la persona che dorme a suo fianco. Eppure sa che nelle prossime ore lo attende l’ennesimo intermezzo molesto fra un sonno e l’altro.

Ciondola fino al bagno, fa colazione in piedi, si veste a puntino, saluta la moglie con la mano perché detesta l’odore di quella crema con cui si impiastriccia il viso, calza gli occhiali da sole. «Vogliamo andare?» grugnisce alla prole. Al solito l’ascensore è pieno. «Entrate voi, io faccio le scale!» sperando si verifichi un improvviso blackout. Sgomma nel parcheggio condominiale: non vede l’ora di immergersi nel traffico per mandare a quel paese più persone possibile.

 

Il REFRATTARIO spenge la sveglia e si riaddormenta. Profanarla è uno dei pochi piaceri che la società civile gli concede. Si alza fregandosene d’aver perso la coincidenza perché il negozietto di antiquariato è suo e non ha orari. Ma l’ufficiale giudiziario sì ed è già davanti all’ingresso per sfrattarlo. Due anni senza pagare l’affitto più che inadempienza sono un’occupazione. Riflettere su questo addolcisce il risveglio. E sapere che l’inserviente pubblico dovrà tornare perché ha trovato abbassata la saracinesca è l’unico motivo per cui asseconda la richiesta della moglie di portare la figlia a scuola.

 

La sveglia dell’ILLUMINATO è la lingua del cane allo spuntare della prima luce. Lo libera in giardino e già che è lì butta un po’ di mangime alle galline che starnazzano allegre. Agli altri animali si concederà più tardi perché è il momento di chiamare i bambini. Oggi per loro è una giornata speciale. La mattina partecipano a una lezione di orientamento nel bosco, nel pomeriggio alla rottura della cagliata. E infatti sarà per l’eccitazione di imparare cose nuove, sarà per l’aria ancora pungente, prima si saziano con le uova appena sfornate, poi lo aiutano ad accumulare le foglie che verranno utilizzate come concime. Sua moglie invece sta bussando ai vicini per raccogliere gli alimenti che utilizzerà nella preparazione del pranzo comune. Come cuoca non è alla sua altezza, ma migliorerà. Quanto a lui, osserva i figli immergersi nel bosco e poi si gode il tepore del sole che sbuca da dietro le montagne.

LA MATTINA

La mattina dell’OMOLOGATO è come il giorno precedente, quello successivo e così per i prossimi trent’anni. Giunto in ufficio, riordina gli appunti al computer, risponde al telefono, riceve i clienti. Ẻ dipendente di un’agenzia immobiliare per cui l’approccio sgargiante con l’arzilla signora a cui deve mostrare un appartamento del centro è di rito. Quello con il suo barboncino un po’ meno. E infatti le chiede gentilmente se può lasciarlo in auto dopo averlo rimosso dalla propria caviglia.

Tornato alla base, di nuovo computer e telefono. L’appuntamento delle undici è saltato e potrebbe concedersi un caffè alla macchinetta se le cialde non fossero finite. Sbriga le ultime faccende e alle dodici e cinquantanove afferra il panierino. Si alza dalla scrivania attento a non fare rumore e con circospezione scivola lungo il corridoio che percorre a passo di pantera finché una voce grida il suo nome. Ẻ il capo, che lo richiama perché la cliente ha minacciato di far causa all’agenzia per maltrattamento di animali.

 

Dopo aver accompagnato la figlia a un isolato da scuola perché non vuole che gli amici vedano che è con il padre, il REFRATTARIO si rintana nel negozio. Riordina le cianfrusaglie e si piazza dietro il bancone, dove non trova di meglio da fare che sfidare Billo71 a una partita a scacchi on line. Di tanto in tanto saluta con una smorfia lugubre i passanti. Alle dieci e trenta cessa ogni impegno per fumare un sigaro. Alle undici compra il giornale. A mezzogiorno la solita telefonata della moglie in cui si lamenta delle colleghe, del tempo, delle zanzare, della forma delle nuvole, dei reumatismi e di quant’altro le venga in mente in quei trentaquattro fottuti minuti di logorrea. Riattacca che è stremato, ma trincerarsi dietro questa ritualità collaudata è l’unico modo per non finire come Michael Duglas in quel famoso film che spara a tutti3.

Poco prima dell’ora di pranzo finalmente arrivano gli amici del Raggio Nero. Li aspettava impaziente. Chiude a chiave, li interroga eccitato perché non vede l’ora di rivitalizzare le sue abilità sovvertitrici. Propongono di rivestire di pellicola trasparente il monumento a Giuseppe Mazzoni in piazza del Duomo. «Tipo Dexter Morgan?»4 chiede confuso. «Perché non ti piace?» replica uno di loro. «Meraviglioso!» risponde rassegnato.

 

L’autunno è sempre un periodo di fermento nella comunità anarchica. Le famiglie si organizzano nelle attività agrosilvopastorali in maniera da raccoglie quanto dona la natura. Una parte verrà utilizzata per l’inverno, l’altra sarà distribuita fra chi ha bisogno. E così il nostro ILLUMINATO trascorre gran parte della mattinata all’aria aperta raggruppando nelle casse la verdura di stagione. Se avrà tempo, più tardi porterà le eccedenze allo smistamento.

Prima di avviarsi verso la piazza in cui pranzerà insieme agli altri membri della comunità, distribuisce il cibo agli animali che soggiornano vicino casa. I maiali e i cavalli a cui ha costruito un confortevole riparo dalle intemperie, le caprette che scorrazzano instancabili nel prato, le due mucche golosissime del fieno che cresce rigoglioso dopo il torrente. Raccoglie anche qualche fungo e ammucchia gli avanzi per i lupi perché la natura è scambio reciproco attraverso cui i suoi elementi si completano.

Sta rientrando a casa quando ricorda che deve raccogliere i ricci delle castagne. Ma non c’è fretta e dopo essersi intrattenuto coi vicini che organizzano un’orgia per il plenilunio, a cui non parteciperà perché già occupato con un’altra coppia, passa da casa per ritemprarsi con un assaggio abbondante di stufato. Torna indietro per versare un po’ d’acqua nel pentolone sia mai la moglie si accorga che ne ha mangiato troppo. Perché rinunciare alla società del dominio per lo stato di natura estingue ogni forma di subordinazione, tranne quella verso la consorte.

POMERIGGIO

Il pomeriggio dell’OMOLOGATO trascorre fra smancerie ipocrite con i clienti, alienazione davanti al computer, picchi fantasiosi per ammorbidire il boss su quell’aumento che tanto gli servirebbe per pagare il mutuo. Il momento più appagante quando fa le fotocopie. Consumare una risma riproducendo ora la mano, ora la guancia, ora il dito medio è sempre una gran bella soddisfazione. Quello più convulso quando verso le sette meno due minuti si alza dalla scrivania attento a non fare rumore e con circospezione scivola lungo il corridoio che percorre a passo di pantera finché una voce grida il suo nome. Ẻ il capo, che lo richiama per consegnargli la lettere di licenziamento.

Fortunatamente la giornata sta finendo, altrimenti chissà quali altre soddisfazioni gli riserverebbe.

 

Il pomeriggio del REFRATTARIO comincia con un balzo di creatività artistica stimolato dall’ennesima cartella esattoriale. Non la pagherà come non ha pagato le altre. Non è tipo da fare discriminazioni. Con i fogli realizza dei simpatici origami a forma di rana che pone sulla cassapanca del XIX secolo che gli piace tanto. Nella partita a scacchi on line concede a Salsiccia90 un rapido matto del barbiere. Legge il giornale e qualche pagina di una rivista anarchica. Caffè a metà pomeriggio e solo verso le sei entra quello che sembra il primo cliente della giornata. La sua gestualità rileva una certa insicurezza e così: «Se ha bisogno dica pure!» il nostro eroe interviene cortese. Il tipo scuote la testa, fissa la strada e poi: «Via Roma è da queste parti?»

Neanche è uscito che si ripresentano i compagni del Raggio Nero. Dopo una lunga interlocuzione sulla fase distruttrice di Bakunin, il Rosso arriva al punto: hanno modificato il piano pensando a un’azione «bella tosta». Si tratta di scrivere una frase, la appunta su un foglio temendo che nel negozio siano installate delle cimici, sulla facciata del duomo. Il refrattario rilascia un’espressione contorta: «E io che dovrei fare, tenere il sacchetto con le bombolette?»

 

Dopo aver consegno le casse al deposito l’ILLUMINATO raggiunge la grande piazza dove la comunità si ritrova ogni giorno per condividere il pranzo. Pasto frugale e mentre tutti i bambini giocano nel bosco e gli adulti si dividono fra chi fa una pennichella, chi passeggia e chi chiacchera, raggiunge il fico che ha rivitalizzato quando ormai sembrava morto. Ne abbraccia il tronco. Si accovaccia fra le radici, che accarezza con intensità. Appoggia le mani sulla corteccia grigiastra, poi chiude gli occhi rimanendo immobile in attesa che le fronde sussultino. Improvvisamente anche il suo corpo vibra, anzi guizza, come attraversato da una scarica intensa.

Sarà il figlio maggiore a destarlo quando qualcuno invita i comunardi, fra loro si chiamano così in memoria della Comune di Parigi, a tornare nella piazza. Si è sparsa la voce che in mattinata un tizio sia stato trovato a rubare nella rimessa alimentare. Un fatto insolito in un aggruppamento che rifugge il profitto. Ecco perché quando il tipo emaciato fa il suo ingresso il brusio è frastornante.

Il Poeta, famoso per i versetti in rima che è solito recitare la sera davanti al fuoco, llustra i fatti e poi gli concede la parola. Questi afferma di essersi allontanato dalla comunità capitalista a cui appartiene perché non riusciva a mantenere i suoi quattro figli e che da giorni vaga senza una meta. Gli chiedono da quanto è fuggito, dice di non saperlo. Gli chiedono se lo hanno seguito, risponde che ci hanno provato ma temendo il bosco sono tornati indietro. Gli chiedono dov’è la sua famiglia, replica che si trovano in una catapecchia abbandonata sulla collina. Gli chiedono il motivo per cui aveva scelto quella comunità, risponde che col suo lavoro guadagnava bene, ma… Costretto al silenzio dai fischi di disprezzo, riprende a parlare piangendo a dirotto.

Confortato con pacche sulle spalle, qualche parola gentile e del rum fatto in casa, uno gli domanda che lavoro facesse. «Sono un programmatore» risponde. «Ottimo. Allora programma per domani di pulire il porcile!»  Quando tutti scoppiano a ridere il sole sta già tramontando.

LA SERATA

La serata dell’OMOLOGATO inizia nel momento in cui trova parcheggio nello spazio riservato ai portatori di handicap. Trascorre minuti fissando la specie di Moloch5 in cui abita. Sale in casa, cena in famiglia con i figli che tappezzano il pavimento di sugo, la moglie che non smette di ciarlare, le tette delle soubrette che ballettano in televisione. Segue il solito filmetto con i cattivi astuti, belli e grandi chiavatori, bacetto alla signora e buona notte. Tutto in appena un paio d’ore.

Avrebbe voluto raccontarle cosa è successo in ufficio, ma è meglio così perché adesso può sfogare la sua onnipotenza facendo zapping. Gli basta un filmetto osé per infilare la mano nelle mutande. E’ in ginocchio sul tappeto quando la maniglia della porta cigola.

 

La serata del REFRATTARIO è identica a quella dell’omologato fino al bacetto alla moglie, allorché raggiunge la vetrinetta dei liquori, prende una bottiglia e si chiude in quello che ormai è il suo ufficio. Apre la finestra e seduto sulla tazza del cesso osserva le auto sfrecciare lungo la via, il gruppo di ragazzi che biascica davanti al bar, le creste ombreggiate dei palazzi, sopra i quali il cielo nero viene falciato dal pallido bagliore della luna. La libertà ha sempre un prezzo e il prezzo è l’impossibilità di condividerla.

Anche il ferro ha un prezzo e gli è costato quasi quanto la statua d’oro di Budda che sta nella vetrina del suo negozio. Ma adesso lo sente caldo fra le mani. Lo gira, lo rigira, lo impugna e finalmente punta la canna alla tempia. Spara. Silenzio. Tutto è come prima. Qualche secondo di vuoto e «Cazzo è successo?» gorgoglia frastornato guardandosi intorno come a cercare tracce d’inferno. Si è dimenticato di caricarla. Ma ormai è troppo tardi per rimediare. Anche stavolta è passata la voglia di ammazzarsi.

 

La serata dell’ILLUMINATO è più vivace del solito. Riunitasi la comunità intorno al grande fuoco, la cena è abbondante e i balli sfrenati. La festa per quel nuovo arrivato durerà fino a notte inoltrata, ma ormai è troppo stanco. Peraltro i figli sonnecchiano sull’erba con la testa appoggiata alle gambe della madre, che sorride divertita.

Con lei in testa alla formazione, lui in fondo con il figlio piccolo sulle spalle, si inerpicano lungo il sentiero che sale la collina attraversando il bosco. Quando si dirada l’abbaio dei cani accoglie la famiglia. Una pecora li imita scatenando lo starnazzio delle galline. Allora anche i gufi bubolano. E così i lupi ululano, gli asini ragliano, i cavalli nitriscono, i cervi bramiscono, le rane gracidano in un concerto surreale che solo quello che sembra il ruggito di un leone zittisce. Ma forse è l’alcol che fa effetto.

Allettati i bambini, i due tornano in giardino per gustare qualche attimo ancora della potenza inebriante della notte. «Vieni a letto?» lei gli fa capire che ha freddo. Lui indica l’amaca. «Rimango qui un altro po’!» le risponde. Con quel manto stellato lassù, il fruscio del vento nel bosco e quelle meravigliose lucciole, non si sa mai cosa potrebbe accadere.

NOTE

  • Espressione usata da Telmo Pievani in La natura è più grande di noi, Solferino, 2022.
  • Espressione utilizzata da Michael Onfray, La politica del ribelle, Fazi editore, 1997.
  • *2 Un giorno di ordinaria follia, film del 1993.
  • Dexter, serie televisiva andata in onda in Italia dal 2006 al 2013.
  • Mostro del film Cabiria, 1914.
  • Immagine: Franz Marc, I grandi cavalli azzurri, 1911.

IL PATRIDIOTA

Giudicare è una pratica comune a tutti gli esseri. L’uomo giudica il prossimo come la pianta giudica un insetto, o un animale giudica chi invade il suo territorio. E non potrebbe essere altrimenti dato che ogni organismo è dotato di intelletto, attraverso cui coglie l’essenzialità delle cose, e di sensibilità, con cui le modula al sé. Che il destinatario non apprezzi non può pertanto essere un motivo per impedirlo. Inoltre trincerarsi dietro il non giudicate, per non essere giudicati1, oltre che un approccio liberticida, è un controsenso, dal momento che lo stesso Cristo, a cui i neutralisti si richiamano, non escludeva l’opinione, ma sollecitava a non essere giudice del tuo prossimo2 con occhio malato3, cioè a formularla senza pregiudizi o sentimenti negativi.

Detto questo, preciso che il mio pensiero nei confronti dei patrioti non è influenzato né dagli uni né dagli altri. Ne conosco a centinaia e ho avuto modo di riscontrare che, presi individualmente, fanno quasi tenerezza. Un po’ come i mastini che, tolta la divisa, li ritrovi a scherzare in coda in pasticceria la domenica mattina. Chiaro, quando sento uno di loro esaltare la patria e la nazione, non posso fare a meno di pensare che sia un idiota. Però non è quell’idiota che si proferisce a chi fa l’idiota, più un idiota detto a chi idiota si è ritrovato. Ẻ un idiota di incoraggiamento, diciamo. Con l’augurio che con un po’ d’impegno possa rinsavire.

Lo so, esagero. Anche il patriota ha una sua sensibilità e dovrei rispettarla. Ma rispettare chi ostacola l’altrui essenza è ignobile, la propria è stupido. Forse sono così radicale perché disprezzo i dogmi. Sono affine al dubbio e accolgo la casualità come una possibilità, per cui ho un’istintiva repulsione verso tutto ciò che è verità preconfezionata. E dopo la religione, la patria è forse il massimo esempio di un pacchetto infiocchettato a puntino.

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Quando il principio incontestabile diventa immaginativo si parla di idealismo.

L’idealista è l’assertore di un ideale al quale crede incondizionatamente e per il quale spesso è orgoglioso di essere intransigente. Può avere risvolti pratici, ad esempio il razzista è talmente difensore dell’uguaglianza che non accetta il diverso, oppure spirituale, ad esempio il religioso è così fervente che manderebbe all’inferno chi non lo è. Partendo dal rifiuto della realtà, considerata troppo disordinata e imprevedibile, contrappone ad essa una fantasia ordinatoria e rassicurante. La assolutizza attribuendole i connotati della suprema giustezza e opera per realizzarla. E siccome l’evidenza glielo impedisce, l’ideale diventa un’incurabile ossessione.

Si dice che l’anarchia sia una forma di idealismo. Si dice anche che sia un’utopia, che gli anarchici siano violenti, brutti e cattivi. Si dice tante cose! Quando il Potere vede minacciati i suoi privilegi, replica agli antagonisti con argomentazioni suggestive in maniera che il sempliciotto si senta un sofista aderendo ad esse. Cionondimeno, se con idea si intende una visione pratica dell’essere e con idealista colui che ne persegue il modello, certamente l’anarchico può definirsi tale. A differenza della maggior parte degli idealisti però, come non vuole che altri gli impongano la loro scelta, non impone la propria. Forse per questa sua estrema eticità il Potere non esita a reprimerlo.

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Anche i patrioti sono idealisti. Idealizzano la terra in cui sono nati o vivono. La amano. Sentono di appartenere ad essa. Provano verso tutto ciò che sta entro i suoi confini un legame affettivo che li affina all’ambiente naturale, li identifica nei pregi e difetti delle persone, li porta ad apprezzare la lingua, le tradizioni, la religione, la cultura, la storia e tante altre cose che conoscono per sentito dire, ma che creano quella sorta di anima collettiva attraverso cui credono di realizzarsi come uomini migliori.

Individuata questa condivisione di intenti, occorre poi un’organizzazione che la cementifichi realizzandone gli obbiettivi. Nasce così la nazione. E qui cade l’asino. Finché si tratta di valorizzare il passato, l’ambiente o un intercalare per tollerare la realtà ci può stare. Quando però si inventa un sistema che con le sue istituzioni costringe all’obbedienza chi ne farebbe volentieri a meno, si chiama violenza.

Accade infatti che i patrioti erigono confini, si danno istituzioni, plasmano la società, impongono la nazione e le sue regole a chiunque si trovi al suo interno e ne esibiscono ostilmente l’autorità a chi sta fuori. Puniscono chi dei primi non la accetta e non vedono l’ora di sterminare i secondi. E quando le contingenze impediscono loro di imporsi, non si accontentano di venerare i simboli, sventolare le bandiere, celebrare Costituzioni, ormai teorizzate e non praticate ovunque, bensì reprimono chi rifugge quella svilente pantomima.

Se si esaltassero quando vince la nazionale, si emozionassero con le Frecce Tricolori o glorificassero le banalità del Presidente di turno nella cameretta di casa, sarebbero affari loro. Invece pretendono la condivisione. E se non la ottengono la ingiungono prima con le buone attraverso la propaganda, poi con le cattive attraverso l’emarginazione.

Quando si è convinti di essere nel giusto finisce spesso che diventare ingiusti sia giusto. Cosa fa la differenza? Semplice, l’antiautoritarismo. Posso idealizzare ciò che voglio ma se obbligo gli altri ad accettare o adeguarsi alla mia idea sono solo un despota. Peraltro patetico perché senza trono. Ecco perché gli anarchici non pretendono di cambiare la società civile ma vogliono svincolarsi da essa.

Poiché peraltro l’dea di patria si reifica nello Stato e lo Stato è la massima espressione del dominio, niente è più autoritario dell’imperio di un’entità astratta che si impone sugli individui e fa l’interesse dei centri di potere che la promuovono, i suoi partigiani sono fra i più attivi complici della disuguaglianza. Operano come paladini dell’ingiustizia non meno dei suoi artefici e forse per questo ostentano tanta arroganza. Basterebbe studiare la storia per capire che l’integralismo è il concime di gerarchie e soprusi. Ma perché svegliarsi da una catalessi tanto confortevole?

Due sono le spiegazioni che do alla loro intransigenza. Una razionale, in virtù della quale lo Stato è un mezzo necessario per realizzare l’interesse personale, vedi il borghese che desidera ordine per mantenere e migliorare il proprio stile di vita. Una psicologica. Il patriota medio è quel tipo che non emerge nei processi di potere o non spadroneggia quanto vorrebbe. Per compensare questa frustrazione, quindi accrescere l’autostima, proietta il sé nell’idea di nazione e si identifica nel dominatore assoluto. In realtà vorrebbe soggiogare l’umanità, ma si accontenta dei cittadini del suo paese.

Come il folle delirante deforma la realtà, il fanatico la manipola in funzione del suo ideale. Nella mistificazione ideologica che lo pervade non si rende conto però che se si annulla per l’ideale può essere annullato, consentendo al Potere di usarlo per mantenere privilegi e privilegiati. Il suo gridare “siam pronti alla morte, l’Italia chiamò” diventa la colonna su cui erigere quel regno dell’eticità4 che giustifica ogni arbitrio. Sempre per il bene della patria, però!

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Per l’amor di Dio, un paese pur ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via5, dice il poeta. E infatti il libertario prima lo boicotta con della sana disobbedienza civile, poi fugge. Egli sa infatti che il patriottismo è l’embrione del nazionalismo, per cui un falso principio inventato dai despoti per schiacciare il supremo principio di libertà, come dice Bakunin.

Non può accettarlo e sente il dovere di osteggiarlo. Denigrate le sue rappresentazioni e violate le sue prescrizioni, si rifugia nella natura dove diventa cittadino del mondo, come Diogene si definiva quando gli chiedevano quale fosse la sua patria. Un cosmopolitismo da intendersi non nell’ottica illuminista, per cui occorre mettere da parte le specifiche differenze sociali e politiche per creare un’unità fra Stati, che è illusoria nonché funzionale al loro tornaconto, quanto nel significato di assenza di confini.

La scelta è radicale e produce effetti sia nelle relazioni sociali, che rispetto all’ambiente. Il presupposto è che in natura ognuno è padrone dello spazio che trova, dove è libero di realizzarsi come più gli aggrada. Ẻ nomade in quanto non vincolato da frontiere reali o immaginarie. E quando invece è stanziale, il territorio non è immutabile e non esistono barriere. L’individuo che vive lo stato di natura è spontaneo, quindi senza determinazioni. Ora è qui, ora è là e ovunque è casa. Non ha bisogno di una patria perché in ogni luogo è se stesso. La terra è la sua comunità.

Non quella predicata dalla società del dominio dove qualcuno comanda e tutti obbediscono, dove i diritti sono negativi e la socializzazione è conformismo. Tantomeno può considerarsi la mera associazione di libertari. Quando infatti le persone si riuniscono con principi e scopi comuni, possono trasferirsi da un luogo a un altro, uscire e rientrare quando vogliono, oppure sciogliere e modificare gli accordi presi. Niente è definitivo perché in natura tutto è mutevole. Inoltre il libertario che fugge dalla società del dominio abiura il primato umano per un pluralismo fattuale in cui le relazioni fra entità siano paritarie. Poiché infatti ciascuna contribuisce al divenire consentendo alle altre di identificarsi in esso, pregiudicarne l’essenza sarebbe come danneggiare la propria.

Si tratta pertanto della comunità costituita dalle infinite molteplicità che animano l’ambiente in cui vive. Dall’albero più maestoso al microrganismo impercettibile, ogni essere che partecipa attivamente o passivamente all’ecosistema è un compagno con il quale condividere la volontarietà, ciascuno agisce in autonomia ed è responsabile delle proprie scelte; la spontaneità, non ci sono costrizioni eteronome ma libera e paritaria manifestazione delle sovranità; l’autogestione, personalità che cooperano armonicamente affinché le cose divengano senza interferenze e per quello che sono; la cooperazione, si opera per realizzare l’appagamento comune necessario al proprio; lo scopo, la reciproca connessione che consente di condividere il tutto.

Chi abita la società del dominio ha bisogno di falsità per compensare la propria disgregazione esistenziale. Chi vive la natura è in ogni cosa. E in questa infinita moltiplicazione del sé la volontà si identifica nell’unità indivisa. Fosse circoscritta in spazi definiti, la spontaneità sarebbe governata, l’armonia delle interazioni non più autentica ma programmata, la percezione dell’identità deformata. Le sue potenzialità verrebbero irrimediabilmente represse portandola al lento ma inevitabile annientamento. Cosa di fatto impossibile in natura visto che l’obbiettivo di ogni organismo è vivere. Possibilissima invece nel mondo civile, essendo governato dal tanatofilo umano.

NOTE

*1 Matteo, 7.

*2 Giacomo 4,12.

*3Matteo 6,23.

*4 In questo senso: G Le Bon, Psicologia delle folle, 1895.

*5 Cesare Pavese, La luna e i falò, 1949.

*6 Hegel, Fenomenologia dello spirito, 1807.

Immagine: Oskar Zwintsher, Il dolore, anno nd

RAZIONALITA’ DEMENTE

Caratteristica universale degli esseri viventi è quella di associarsi in comunità per difendersi e perpetuarsi. Ma se per tutti vale la regola biologica della cooperazione e l’eventuale leader agisce nell’interesse del gruppo, l’organizzazione umana è verticistica e il capo ne approfitta. Ogni tanto scappa qualche eccezione, solertemente repressa per non dare il cattivo esempio.

Con la tirannia il despota domina perché investito di una sacralità religiosa o pagana intangibile. La democrazia invece scarica sull’elettore la responsabilità della propria sottomissione. La prima si forma in maniera semplice: prendi un ragazzino bullizzato dai coetanei o a cui il padre ha dato qualche labbrata di troppo, lo fai crescere con quella sana instabilità che lo renda psicopatico e da adulto sarà un’eccellente sterminatore. E che fai, non obbedisci a uno sterminatore? Più complessa invece la genesi della democrazia: quando qualcuno ha troppo, gli altri non hanno niente e così prima rumoreggiano, poi schiamazzano, poi minacciano. Per tenerli buoni si inventano religioni, distrazioni e ogni tanto si dà loro qualche contentino. Una volta domesticati sorge però il problema che vogliono vestire come il padrone, cacciare insieme a lui, disporre dei suoi beni, mangiare al suo tavolo. Insomma, diventano presuntuosi. E allora si invitano al banchetto, ovviamente non nella sala principale perché la stalla è più confortevole, dove potranno scegliere gli avanzi che più li aggradano.

Mentre nella tirannia c’è un despota, sai che è quello e lo odi o lo ami, il governo del popolo istituzionalizza la gerarchia con la complicità dei sudditi. E tutto si svolge in maniera liquida. Per mantenere il laibniziano migliore dei mondi possibili, non servono guerre, quelle sono più utili all’economia, non serve violenza, almeno finché qualcuno non reagisce. Ẻ sufficiente indottrinare a scuola, governare le famiglia, educare con i media, isolare i dissidenti in maniera che la collettività scelga di obbedire. Robetta per la propaganda dei nostri Signori. Che intanto continuano ad abbuffarsi grazie a chi lavora per loro, consuma i loro prodotti, ottempera le loro regole temendo di tornare a rosicare ossa spolpate.

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In democrazia tre sono i soggetti istituzionali: Il potere economico, quello governativo o politico e i cittadini. Il primo e il terzo sono preesistenti al secondo. Il primo usa il secondo, che non disprezza affatto, per controllare il terzo. Il secondo fa quello che dice il primo a discapito del terzo. Il terzo è manipolato dal primo, ma obbedisce al secondo. Per farla semplice: i Signori, ovverosia gli oligarchi, le categorie professionali, le industrie e tutti i centri di potere che sfruttano per arricchirsi, decidono cosa e come deve essere la società affinché il loro profitto prosperi. Il governo esegue applicando le leggi, imponendo la socializzazione conformista, reprimendo i dissidenti e quant’altro ammansisca la massa, che accetta tacitamente perché obbedire è l’unico modo che conosce per andare a letto tranquilla. La democrazia non è pertanto la conseguenza di un atto di forza. Non è stata imposta. Ẻ il primo sistema giuridico che si fonda sull’inerzia. E infatti per inerzia va avanti.

Non ci sono dubbi che passare da un regime tirannico a uno illusorio sia stata una trasformazione rilevante. Ma se una cosa è migliore di un’altra, non è detto che lo sia in assoluto. Il popolo infatti ha accettato la democrazia non perché convinto che fosse la scelta corretta, non è neanche mai stato interpellato1, ma perché era l’unica alternativa a cui adeguarsi. E si è convinto che fosse quella giusta perché anche il miserabile poteva sperperare il salario nei beni reclamizzati dal mercato. Abituato a cibarsi di pane e cipolle, a indossare gli abiti dei nonni e avendo alle spalle la guerra, soprattutto dovendosi i fascisti riciclare nell’ombra, il sistema democratico era pertanto l’offerta che non si poteva rifiutare2.

Il consenso tacito della collettività è pertanto una scelta razionale perché finalizzata a un’utile. Sembrava e sembra infatti la soluzione più idonea a realizzare l’interesse dei Signori di accrescere la ricchezza approfittando della complicità collettiva e della massa di evitare la miseria grazie alla certificazione della subordinazione. E così la ragione, la capacità che secondo Kant avrebbe dovuto far uscire l’uomo dalla minorità, anziché liberarlo dalle catene, gliene ha fornite di più confortevoli. Poi gli ha dato la chiave e lo ha invitato a chiudere il lucchetto con un rassicurante: «Tranquillo amico, sono per il tuo bene!» «Per il mio pene?» «Ho detto per il tuo bene, idiota!» Al che il poveretto lo ha chiuso imbarazzato, ringraziando pure.

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Detto che la democrazia è una scelta razionale, si può affermare che sia anche giusta?

Si dice razionale un ragionamento che arriva per deduzione a una conclusione ed è vero, quindi giusto, quando lo è ogni suo connettivo logico. Passando dalla teoria alla pratica, una scelta si definisce tale quando produce un risultato utile, indipendentemente dal fatto che i mezzi per conseguirlo siano corretti o sbagliati. La contraddizione fra il principio e la sua applicazione è evidente e spesso rileva in termini morali. Ma nessuno ci fa caso perché la morale serve per punire i presuntuosi che si autodeterminano.

Di questa incoerenza è permeata la democrazia.

Peraltro, oltre agli abbietti motivi che l’anno determinata, osservando in maniera imparziale le sue dinamiche, si scopre che i principi di cui si dichiara paladina sono falsi. E poiché è falso ciò che non corrisponde al vero, cioè la realtà delle cose smentisce le premesse, sono ingiusti.

Solo qualche esempio. Non è vero che la democrazia garantisce l’eguaglianza in quanto propone un’economia fondata sul libero mercato dove il più forte detta le regole. Non è vero che assicura la libertà perché impone il monopolio del potere con la violenza e lo mantiene con l’intimazione dei mastini, l’estorsione del tributo, la vischiosità delle istituzioni, erodendo al contempo, grazie anche alla crescente invasività della tecnologia, gli spazi in cui essa può manifestarsi. Non è vero che opera nell’interesse collettivo perché, per definizione, realizza quello della maggioranza. Non è vero che le persone non sono in grado di autodeterminarsi perché quando non sono interdette dal profitto o manipolate da chi persegue il proprio, dimostrano di saper e poter agire nell’interesse comune. Non è vero che la complessa modernità esige che le decisioni siano prese da professionisti della politica perché l’individualità non è mai demandabile, perché se le persone fossero davvero così incapaci lo sarebbero anche di scegliere i rappresentanti, perché essi delegano a loro volta ad altri esperti spogliandosi delle funzioni istituzionali. Non è vero che… Qui mi fermo perché il presuntuoso non è chi si reputa superiore, ma chi primeggia approfittando delle debolezze altrui.

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Di solito quando taluno decide sulla base di premesse che ritiene corrette e poi si rivelano sbagliate, la prima cosa che fa è correggersi trovando soluzioni più appropriate. Non è questo il caso. Nonostante tutto, la democrazia è ancora considerata il miglior sistema giuridico possibile. I Signori non mollano l’osso e i sempliciotti sono talmente sedotti dalla loro protervia che ogni alternativa viene definita sobillatrice. E allora come trovare il giusto in questa fantasmagorica falsità?

Ẻ giusto ciò che è bene.

Bene è però uno di quei termini che significano tutto e il loro contrario. Per l’economia è bene sfruttare gli individui in nome della crescita. Per la politica è bene usare la collettività per mantenere i privilegi. Per il capo è bene umiliare il sottoposto perché sia di esempio. Per la massa è bene l’indifferenza per non aver grattacapi. E così via. Si tratta pertanto di un concetto relativo, che varia in base al tempo e al luogo, alla percezione personale o sociale. Qualcuno ha provato a oggettivarlo, ma le conclusioni sono sempre contaminate o dal mediocre interesse o dall’assolutismo idealistico.

Per definirlo occorre quindi cambiare il punto di vista. Il riferimento non può essere esclusivamente la società umana perché il miasma che la caratterizza ammorba ogni suo aspetto. Al tempo stesso non può essere cercato nel trascendente a cui l’animo aspira quando percepisce la multidimensionalità, ma non la spiega perché i suoi istinti sono annichiliti dalla materialità. La soluzione è guardarsi intorno e scoprire che oltre le cimiere, oltre i grattacieli, oltre il traffico, oltre la realtà travisata dei notiziari o quella mistificatoria dei post, oltre la castrazione del lavoro e la dipendenza da profitto, esiste un mondo incontaminato che una volta ci apparteneva e in cui potevamo essere liberi perché non determinati da regole imposte ed eguali perché vivere era un interesse condiviso con i suoi elementi. Lo so, non sembra messo bene, ma neanche noi lo siamo. E forse tornare a completarci a vicenda gioverebbe a entrambi.

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Per capire cosa è il bene a cui deve tendere l’uomo bisogna quindi partire dal presupposto incontrovertibile che è un essere della natura. Ẻ natura. Ciò che lo devia da tale identità danneggia lui e l’armonia circostante. Esattamente come accade per gli altri organismi.

Non posso chiedere a un cavallo di spostare un macigno o a un’aquila di marciare in fila. Non perché l’uno non abbia la forza e l’altra la coordinazione, tantomeno perché non sono intelligenti, in quanto ogni essere lo è a modo suo e nel contesto di riferimento. Quanto perché l’indole dell’equino è correre libero, del volatile è sfrecciare nel cielo. Se vengono costretti ad agire diversamente dal loro istinto o non ci riescono o soffrono. Allo stesso modo il dominio, da cui deriva il dovere civilizzante, travisa l’essenza umana. In natura infatti la prevaricazione è funzionale alla conservazione non al profitto e le uniche regole sono quelle necessarie alla sopravvivenza non all’accumulazione. Così per i non umani, così sarebbe per l’uomo se le prigioni che ha creato non gli impedissero di vivificarsi nelle infinite connessioni con le molteplicità.

Affinché le interazioni siano simbiotiche occorre quindi un ambiente armonico dove le volontà esplorino la realtà e vivano la profondità dell’esperienza. E poiché solo la natura, essendo intrinsecamente incorrotta, può garantire il fine ultimo di fondersi nell’unità, essa è il bene supremo. Per cui giusto è ciò che è naturale, cioè secondo natura: ogni essere deve manifestarsi per ciò che è, ogni processo deve svolgersi così com’è. Ingiusto è ciò che contraffà la sostanza e manipola la processualità alterando l’armonia in cui le entità si realizzano. Giusto è quello che la conserva, protegge, magnifica. Ingiusto è quello che ne sabota, condiziona, deturpa, altera, soggioga, violenta, modifica, distrugge l’autenticità. Ovverosia quanto prodotto dalla civiltà dalla prima domesticazione ad oggi.

Piante e animali lo sanno e usano la coscienza e l’intelletto per perpetuarsi e l’istinto per abbandonarsi alla sua armonia. L’uomo, invece, ancora si affida all’illusione che il solo pensiero possa renderlo migliore di quello che è. Se però non ha ancora capito che la conoscenza non è superficiale deduzione, ma autocoscienza universale della cosa in sé3, forse non è così tanto intelligente.

NOTE

*1 Con riferimento al referendum del 2.6.1946, come può considerarsi attendibile la scelta fra due sistemi giuridici di cui uno ha portato alla dittatura e alla guerra?

*2 Citazione dal film Il Padrino, 1972.

*3 Secondo Gustav Theodor Fechner la ragione consente di conoscere la dimensione corporea dei viventi, non la loro spiritualità: “la nostra coscienza è chiusa alla loro”, afferma in Nanna o l’anima delle piante, 1848

Immagine: David Hockney, Bigger spash, 1967

VIOLENTO SARAI TU!

Siamo materia e materia torneremo, una volta qualcuno ha detto. Ma siamo anche coscienza in quanto dentro di noi scorre un soffio vitale che ci rende consapevoli della presenza nel mondo. Una consapevolezza che, in barba all’antropocentrismo utilitaristico, appartiene sia agli umani che ai non umani, agli esseri animati e ai non animati, come sanno coloro che posseggono la capacità di connettersi con la natura. E come la scienza smentisce per continuare a depredarla impunemente.

Materia e soffio vitale si plasmano nei corpi dando vita alla sostanza: il sé. Sé cosciente. Sé agente. La volontà. Infinite seità identiche nella reciproca differenza, che si armonizzano interagendo per partecipare al tutto. Questo equilibrio delle molteplicità è l’armonia naturale.

Che non significa che le specie vivono in pace e amore, benché quando il leone sente l’odore della gazzella, la ama così tanto che la mangerebbe. Significa, invece, che la vita è un incessante simbiosi in cui ogni entità dipende dalle altre e, a sua volta, agisce su di loro realizzando insieme il divenire universale. Ecco perché la cooperazione, non il dominio, consente la sopravvivenza e l’evoluzione. Così è per tutti gli esseri viventi e così sarebbe per l’uomo se si donasse alla natura.

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Ma per donarsi alla natura bisogna essere puri. Superare l’inquietudine della finitudine non con artifici che creano disarmonia, ma abbandonandosi alla casualità che caratterizza il divenire. Invece, l’uomo desidera la luna come l’imperatore Caligola1 e ora si inventa la morale per sfruttare il senso di colpa, ora crea il governo per sottomettere i sudditi, ora escogita un rango per asservire l’inferiore, ora assoggetta l’ambiente. Sempre domina per sedurre l’eternità. In fondo aveva ragione Demostene in quella che è forse la sua citazione più famosa: nulla è più facile che illudersi, perché ciò che ogni uomo desidera, crede anche che sia vero.

Se però nelle relazioni con il prossimo l’arroganza può essere sufficiente per obliare la precarietà, con la natura non funziona. Pur addomesticandola, avvelenandola, distruggendola, essa dimostra sempre la propria superiorità, consolidando l’inferiorità antropica. E non intendo soltanto le impressionanti manifestazioni di forza di cui continuamente dà sfoggio, che l’uomo definisce calamità perché lo umiliano. Basta infatti osservare l’erbetta che cresce fra le crepe dell’asfalto per comprendere quanto la sua potenza vitale sia manifestazione incontrovertibile di supremazia. E di fronte a tanta maestosità il superbo soffre e si vendica. Se Lucifero, carico di risentimento e rabbia perché cacciato dal regno dei cieli a causa della sua protervia, promette dolore e sofferenza, l’umano distrugge, brutalizza, minaccia con inesorabile fervore quel regno naturare da cui ormai è escluso. A nulla vale la lacrima che nascondono dietro il braccio per ciò che poteva essere e forse non sarà mai2.

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Ovviamente non tutte le persone hanno il coraggio dell’insolente rivalsa, La maggior parte si limita a non capacitarsi del motivo per cui se il lupo mangia l’agnello o l’edera parassita asfissia gli alberi, il più evoluto del pianeta non possa distruggerlo.  

Sia chiaro, la violenza è un fenomeno naturale, l’uomo è solo il più malvagio a realizzarla. Quella praticata dai non umani infatti non soddisfa alcuna bizzarria poiché è funzionale alla sopravvivenza. Il predatore vuole sostentarsi e i maschi si scontrano per copulare o per il territorio. Quando gli animali non hanno fame, non cacciano. Se non devono accoppiarsi non si azzuffano. Solo se intimoriti aggrediscono. Stessa cosa vale nel mondo vegetale: il punteruolo rosso, ad esempio, non attacca le palme perché lo infastidisce il ciuffo di foglie che orna la cima della pianta, ma perché è un parassita che di essa si nutre.

Che si tratti di cibarsi, riprodursi o semplicemente reagire a un pericolo, in natura la violenza perpetua la volontà. Al contrario, l’uomo la perpetra per soddisfare i capricci. In fondo rispetto ai mammiferi, ai primati, agli uccelli, agli anfibi eccetera è un bambinone che ha solo quattro milioni di anni!

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La differenza fra il non umano e l’umano non è quindi l’intelligenza, ma la violenza. Questi è infatti l’unico essere che la pratica anche se non è necessaria.

Quando l’uomo freccia un cinghiale, il suo atto è dominante, ma consente la conservazione propria o del gruppo di appartenenza. Così come se uccide il felino che sta per attaccarlo. In entrambi i casi essa è tollerata dalla natura. La vita dell’uno vale l’altra e vinca il migliore. Quando invece  si barda come un marine per esporre un trofeo sulla parete oppure ricorre agli allevamenti di massa o all’agricoltura intensiva per soddisfare il mercato, quando tortura gli animali per i sadici esperimenti scientifici oppure devasta e inquina l’ambiente, nega l’alterità e danneggia l’armonia universale.

In natura infatti ogni organismo è volontà agente e le infinite volontà si connettono continuamente per condividere il divenire. Nel momento in cui questa dinamica viene pregiudicata o interrotta seguono alterazioni che inibiscono o negano la possibilità del singolo di realizzarsi in esso. Cionondimeno l’uomo devasta, distrugge, stermina senza pietà. E lo fa in nome del profitto, la più efficace trappola mentale che definisce la moralità delle condotte in base ai benefici che ne derivano.

Pensa a qualunque nefandezza compiuta e vedrai che quello è sempre la causa. Profitto che genera accumulazione. Accumulazione che produce autorità. Autorità che diventa potere e ineluttabilmente delirio di onnipotenza che si manifesta in arbitrio. L’industrializzazione, la scienza, la tecnologia, la civilizzazione in generale, altro non sono che metodi violenti per acquisire potere, in cui un manipolo di delinquenti genera privilegi esclusivi approfittando della remissività della massa, illusa che basti essere complici per poterlo conseguire.

Gli animali e le piante accumulano per necessità, non per il piacere di essere più autorevoli, e ogni entità sta bene quando, soddisfatti i bisogni primari, gode di ciò che la natura offre. L’uomo no, non si accontenta. Come Odisseo ha bisogno di esplorare nuovi mondi. Non importa se la sua ciurma viene divorata da Polifemo, trasformata in maiali dalla maga Circe o impazzisce al canto delle sirene. Il lieto fine è il ritorno a Itaca, la materialità che sana l’irrequietezza che lo perseguita.

Di fatto l’umano è vittima di un autoinganno dove tutti sono manipolati e manipolatori. Una massa di pericolosi psicopatici! Ma la cura esiste ed è la vita selvatica, attraverso cui realizzare se stessi nell’armonia universale. Tornare a quell’Eden che i folli rinnegano, dove l’identità delle sostanza è eterna felicità.

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La civiltà è come un banchetto dove chi prima arriva spera di prendere il cosciotto più grosso, ma tutti seguono le regole del padrone di casa che ha già il piatto pieno.

Nascosto dietro le tende, protetto dall’ombra, c’è l’anarchico. Non gozzoviglia al tavolo dei signori. Disprezza la loro falsa magnanimità. Sa che la loro opulenza è immorale e compiacerli significa essere correi delle loro nefandezze. Non ha bisogno di ingozzarsi, stordirsi, sorridere, ammiccare, sottomettersi per illudersi di essere felice. Semplicemente lo è perché possiede già tutto. Per questo se ne sta lì, in attesa del momento giusto per rovesciare i vassoi.

Certo, poi deve scappare per evitare la ritorsione e non sarà libero finché non costruirà la propria realtà indipendente. Ma potrà sempre trovare rifugio nelle comunità clandestine che disertano l’imperio dell’oppressore, attraverso cui eroderlo lentamente e collaborare con le altre per disgregarlo definitivamente. Oppure potrà fuggire e creare realtà affrancate dalle perversioni del profitto, aliene agli echi della socializzazione conformista, nascoste dalla morsa delle molteplici articolazioni del dominio, dove la spontaneità è scelta incondizionata, la fratellanza è benessere condiviso, la pluralità è esaltazione dell’individualità, la cooperazione è complicità creativa e la partecipazione alla natura è una festa.

E non avrà bisogno di violenza, a meno che non assuma le forme della rivolta contro un atto ingiusto, cioè contro natura, perché l’armonia sarà il suo nutrimento e la pluralità il riflesso della propria essenza. Tantomeno porterà rancore verso chi rifiuta tale bellezza. Avrà compassione del servo e un affettuoso disprezzo del suo soverchiatore, ormai ricordi di una brutta esperienza. Nelle narrazioni intorno al fuoco l’uno è il poveretto che si illude di realizzare le proprie potenzialità dimostrando di essere lo schiavo migliore, l’altro la metafora del frutto marcio che prima o poi cade diventando cibo per vermi.

Che la violenza rimanga ai civilizzati. E si scannino fra loro!

NOTE

*1 Albert Camus, Caligola, opera teatrale del 1939.

*2 Alexandre Cabanel, L’angelo caduto, 1868.

Immagine: Alexadre Cabanel, L’angelo caduto, 1868

 

LAVORO? NO, GRAZIE

C’è un momento della vita in cui si diventa adulti. Non è il primo pelo sotto le ascelle o il primo bacetto con la lingua, né la prima volta che si schianta l’auto del babbo col foglio rosa. Ẻ quando cessano gli obblighi scolastici e si entra nel mondo del lavoro. Ẻ lì che colui che fino al giorno prima era un ragazzo, improvvisamente diventa uomo e… e finalmente può essere sfruttato dal sistema.

Il lavoro è la ripetizione di una determinata prestazione manuale o intellettuale per un tempo indefinito. Ogni giorno il netturbino svuota la campana di vetro alle cinque di mattina. Il medico prescrive ricette ai pazienti perché non ritornino. L’avvocato smista caffè per difendere il cliente, il magistrato li beve, ma quello del pubblico ministero è sempre più buono. L’impiegato perfeziona le tecniche di origami. L’operaio osserva il passaggio della trama ricordando malinconicamente le dita perse. E così via. Se alla routine narcotizzante aggiungiamo che è una costrizione in quanto la società del dominio non offre alternative per sopravvivere e che è sempre disciplinato da altri, siano essi il padrone, il capo o i clienti, davvero pochi sono i fortunati che vanno a lavorare senza sperare che l’autobus non sfondi il guard rail.  

Certo, una soluzione ci sarebbe, pure abbastanza anticonformista: darsi al crimine. Ma oggi con tutta questa tecnologia è un casino anche delinquere!

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Di fatto lavorare è una pratica immorale e innaturale. Immorale perché implica essere sfruttati e sfruttare, perché la vita non può consistere nell’arricchire altri o nella rincorsa delirante alla materialità, perché in epoca di industrializzazione provoca direttamente o indirettamente danni ambientali. Senza considerare che il lavoro, qualunque esso sia e comunque venga svolto, sottrae tempo ed energie che altrimenti potrebbero essere destinati allo svolgimento di attività piacevoli, agli affetti, alla contemplazione della natura, al gioco e all’amore. E poiché viene svolto tutti i giorni, tutti gli anni finché si è troppo vecchi per godere l’esistenza, se non si ha rispetto per se stessi, non si può averlo degli altri.

Ẻ invece innaturale perché nonostante l’umano faccia lo sborone, è uno dei tanti organismi del creato. Dove non esiste subordinazione e il sacrificio e l’impegno sono funzionali alla vita, non alla superfluità che la nega. I non umani predano per nutrirsi, lottano per la sopravvivenza, cooperano per difendersi ed evolvere, dopo di che si esaltano abbandonandosi all’armonia che li circonda. Al contrario l’uomo, benché si narri di un tempo in cui giocare con i fratelli animali e interagire con le amiche piante lo esaltasse, crea finzioni malefiche perché incapace di cogliere la bellezza circostante. Difficile provare se tale deficienza logico-emotiva sia dovuta a un difetto congenito o se durante l’evoluzione abbia subito un trauma che lo ha traviato. Di certo le sue aspirazioni e le sue condotte non hanno niente a che vedere con la bellezza di questo mondo. Sarà mica che l’estinzione del Cretaceo, anziché da un asteroide, è stata provocata dallo schianto di una navicella spaziale occupata da questa specie malvagia?

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Se lavorare è immorale e innaturale, allora perché si lavora?

Come sempre quando mi pongo queste domande, anziché cercare nei libri, interrogo le persone. Diversamente da Socrate, però, attraverso il dialogo non aiuto il mio interlocutore a “partorire la verità”1 in maniera spontanea. Mi limito ad ascoltare. Spesso trattenendo la risata.

Finito l’esperimento, le risposte più gettonate sono state le seguenti:

   A-Medaglia di legno a: “il lavoro permette di realizzare le proprie potenzialità”.

Ovverosia, siccome l’uomo possiede capacità che altrimenti non saprebbe utilizzare, le riversa nella sola attività che, volente o nolente, è costretto a compiere. Alienati.

   B-Al terzo posto si piazza: “gli uomini hanno bisogno di uno scopo”.

Si tratta di individui privi di interessi e consapevolezza di sé, che per pigrizia, timore, indolenza, si rifugiano nell’obbedienza. Sono come gli agorafobici che si nascondono nella gabbia domestica. Patologici.

   C-Sul secondo gradino del podio si piazza: “si lavora per il bene della società”.

I sostenitori di questa teoria asseriscono che se nessuno lavorasse, sarebbe il caos perché scemerebbe la coesione, la condivisione dell’interesse pubblico e la partecipazione alla stessa organizzazione sociale. Non ci sarebbe sviluppo e progresso e, ecco l’inevitabile chiusura apocalittica: «Sarebbe l’anarchia!». «Tipo quella dei vostri neuroni?» avrei tanto voluto replicare.

Il lavoro è pertanto un dovere. E come tutti i doveri, va adempiuto. Chissà perché però essi vengono sempre stabiliti da chi pretende che altri li assolvano!

Quando l’umanità estinguerà il debito morale con l’autorità e ciascuno potrà decidere per se stesso, l’interazione non sarà coercitiva ma partecipativa. E il lavoro un malinconico ricordo di chi dovrà trovare un nuovo modo per sfruttare il prossimo. Integralisti.

   D-The winner is: “si lavora per soldi”.

Il lavoro è un mezzo, il denaro un fine. Fine che serve per realizzare il benessere personale. Ma il benessere è il soddisfacimento dei bisogni, che possono essere primari o secondari. E quando ho domandato a quali si riferissero, le risposte sono state nell’ordine: spese domestiche, tecnologia, mezzi di trasporto, viaggi e via discorrendo. «E il mangiare?» Ho chiesto. «Quello ce lo consegna a casa il pachistano!» hanno risposto. Pragmatici.

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Dall’esperimento risulta pertanto che il lavoro viene percepito sia come uno strumento di sviluppo personale, poiché accresce l’autostima intorpidita dai vincoli collettivi o svilita dall’inettitudine, sia sociale, in quanto non conviene rimanere ai margini dei processi di potere.

Nessuno degli intervistati invece ha fatto riferimento alle necessità essenziali. Eppure fra loro erano presenti soggetti non abbienti. Perché? Ci sono tre tipi di povertà: quella imprevista e provocata da fenomeni naturali, come la siccità, o casuale, tipo la carestia; quella indotta dal colonizzatore che sfrutta manodopera e risorse del suolo occupato, vedi il terzo mondo; quella dei paesi colonizzanti, che si manifesta quando non vengono soddisfatti gli standard definiti da chi mantiene e accresce i propri privilegi. In questo contesto, i bisogni primari e quelli secondari diventano un tutt’uno per cui il pasto non può essere frugale ma luculliano, la scarpa non è sufficiente calzi bene ma deve essere firmata, la vacanza non è il salutare ozio ma fare zumba in un resort sperduto chissà dove. E così via. Chi può permettersi di uniformarsi a questi modelli imposti dal mercato è in, chi no è out perché non contribuisce al suo sviluppo. Certo, in un sistema così fluido ogni tanto qualcuno scala i processi di potere, ma in cambio di quanti altri che invece li discendono?

Quindi che fare?

Supponiamo che Tizio sia stato licenziato. Siccome ha cinquant’anni non riesce a trovare un altro impiego. Presto la sua vita da modesta diventa squallida perché nella società civilizzata non si fa niente senza pagare e non si paga se non si lavora. Arrivato il giorno in cui non può comprarsi da mangiare, divorato dalla fame ruba un grappolo di banane al fruttivendolo. Questi lo vede, chiama le forze dell’ordine e lo arrestano. Ripresosi dalla degenza in ospedale, finisce in prigione. Se invece il nostro amico scegliesse di vivere in un ambiente de-civilizzato in cui il profitto non è indispensabile per la sopravvivenza, potrebbe cogliere dall’albero il grappolo di banane oppure il vicino potrebbe donargliene una cassa. Nello stato di natura, unica alternativa possibile alla società del dominio in quanto le soluzioni intermedie presentano sempre forme di potere, non solo si ha coscienza dei bisogni primari perché il sé non è contraffatto dalla artificiosità, ma i modi per soddisfarli sono infiniti. Più difficile assolvere quelli artificiali, dato che non esistono.

Per cambiare bisogna però avere il coraggio di abiurare la civiltà e la creatività per realizzare la propria personalità. Uno slancio che richiede di ignorare la propaganda, rinunciare al superfluo e alla sofisticazione e, soprattutto, abbandonare lo staus quo per crearne uno nuovo. Cosa di fatto impossibile per la maggior parte delle persone. Perché se il capitalismo ha un merito è quello di aver perfezionato tecniche di ingegneria sociale che hanno aggraziato il giogo. Un tempo il lavoratore era costretto a obbedire pena la frusta. In democrazia invece ciascuno può scegliere se essere deriso, disprezzato, isolato finché qualche teppistello gli dà fuoco, oppure socializzarsi producendo e consumando nell’interesse suo e della collettività. Chi partecipa è un bravo cittadino, chi non lavora è un debosciato, un fancazzista, un nullafacente, un accidioso, un sociopatico che non è degno di beneficiare dello straordinario privilegio offertogli dalla civiltà di essere servo di se stesso. E poiché a nessuno piace sentirsi un reietto, visto peraltro che la schiavitù dei bisogni almeno dà un senso alla vita, il lavoro diventa cardine su cui si fonda la società del dominio e strumento di controllo sociale.

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Il progresso è irreversibile e gli illusi che provano a cambiarlo al suo interno o vengono assorbiti diventando complici a loro volta, tipo i vari movimenti antagonisti che la politica ha annichilito, o producono effetti più dannosi della causa, vedi le politiche ambientaliste che ipocritamente fanno gli interessi del capitale. Una volta intrappolati nella sua rete, è come se le persone accettassero l’inevitabile sorte con gaudiosa rassegnazione.

Poi ci sono i ribelli che si oppongono al sopruso. Scioperano, boicottano, sabotano, manifestano per sostituire il regime con un altro. Perché se anche fossero concessi maggiori diritti, in un sistema servile sarebbero sempre servi di qualcuno. La disuguaglianza è infatti endemica alla società del dominio in quanto il progresso ha bisogno che l’individuo sia egoista, indifferente, competitivo, prevaricatore. L’unica possibilità di affrancamento è non farne parte. Negare i suoi principi, le dinamiche, le manifestazioni e fuggire dalle sue grinfie. Nonostante i tentativi, molti rimangono nella rete. Ogni tanto però qualcuno riesce a liberarsi e costruire realtà volontarie, senza profitto, biosimbiotiche e autarchiche.

Volontarietà significa che ciascuno è libero di scegliere cosa fare, con chi stare, come determinarsi. Non è assenza di ordine, ma possibilità di definirlo personalmente. Chi rifiuta la civiltà, desidera vivere nella natura selvaggia. Deve quindi appropriarsi di un luogo incontaminato dove poter essere se stesso. E poiché gli Stati hanno ormai occupato ogni spazio disponibile, deve difenderlo a ogni costo. Quando poi la violenza dei mastini diventa intollerabile, ne trova un altro. Libertà è anche la soddisfazione di eludere l’arroganza del tiranno.

Assenza di profitto significa invece sovvertire l’ideale civilizzante per cui ogni condotta sia funzionale a interessi artificiali, il primo dei quali è il denaro. Finché scopo dell’azione è l’utile, la volontà è contaminata. Quando invece si concede genuinamente all’armonia è libera. Libera di fondersi con l’ambiente per identificarsi nella cosa in sé. Questa è la biosimbiosi attraverso cui l’individuo raggiungere la felicità.

Infine l’autarchia, ovverosia l’autosufficienza data dall’unione con l’ecosistema, fondamentale affinché non si crei un’autogestione di tipo mercantile. Nello stato di natura ciò che la terra produce è sufficiente al soddisfacimento dei bisogni materiali e spirituali. L’uomo accetta i suoi doni e se indispensabile, produce senza modificare e poi divide le rimanenze. E così raccoglie, caccia, pesca, edifica, si difende e lavora non perché qualcuno gliel’ha imposto ma perché condivide le regole e gli obiettivi della comunità a cui appartiene. Che non è solo il gruppo di persone con cui spartisce il territorio, ma l’intera biocenosi.

In questa meravigliosa epifania non si è condannati a far salire il macigno sul monte per vederlo cadere a pochi passi dalla cima, così da godere della fatica di ricominciare2. Il lavoro è solo un passatempo qualsiasi. In fondo, hai mai visto uno scimpanzé che timbra il cartellino? Un faggio che consegna le pizze o un acero che costruisce grattacieli? Anche le formiche non seguono mica le scie dei feromoni lasciate dalle compagne perché sono laboriose come vogliono farci credere, ma perché non vedono l’ora di uscire dal nido e godersi l’aria fresca!

NOTE

*1 Platone, Teeteto.

*2 Albert Camus, Il mito di Sisifo, Bompiani, 1942.

Immagine: Antonio Cifronti, Il ciabattino, 1720.

LA GRANDE BELLEZZA

Parlare di bellezza è difficile perché non esiste una definizione assoluta. E non esiste in quanto ognuno ha la presunzione di avere la propria. A ragione, peraltro. Perché quando mi emoziono innanzi a un’immagine, una melodia o un ricordo struggente, quell’esplosione di sentimenti è mia, solo mia, ed è una delle poche cose che posticipa il proposito di farla finita.

Tutti credono di conoscere il significato, ad esempio, di parole come libertà o eguaglianza, ma quando chiedi loro di applicarle scoppiano le guerre! Questo perché certi concetti oltre che astratti in quanto non conoscibili attraverso la realtà, o meglio, apofatici rispetto ad essa, sono anche iperonimi, cioè comprendono più significati. Quello di bellezza non è da meno e come sempre in queste circostanze meglio affidarsi all’empirica. L’esperienza personale può sembrare un parametro banale, ma cosa non lo è in una realtà peritura?

Primo caso. Osservo il Gruppo del Sassolungo e mi emoziono. Qui è semplice: la maestosità delle Dolomiti sprigiona l’immensa potenza della natura innanzi alla quale anche l’animo più arido percepisce la propria finitezza.

Secondo caso. Quando guardo C’era una Volta in America la storia irrisolta di Noodles e dei suoi compagni commuove sempre. Il motivo è evidente: “i veri paradisi sono i paradisi che si sono perduti” diceva quel mattacchione di Proust riferendosi alla nostalgia di ciò che è stato, poteva essere e non sarà più.

Terzo caso. Ascolto una musica di Chopin e la sua capacità di cogliere le venature degli stati d’animo tocca l’anima. Facile anche questa: era semplicemente un genio e come tutti i geni aveva dimestichezza con la cosa in sé.

Potrei proseguire ma ogni ulteriore esempio confermerebbe che la bellezza è un ménage a trois: l’attore interagisce con l’oggetto, quando improvvisamente appare l’emozione che si diverte col primo. Primo che apprezza assai consapevole che quel momento di autenticità sia precluso dall’ordinario, dove la realtà si impone e annienta la personalità asservendola alla morale e alla funzionalità socializzante.

Si può pertanto definire bellezza ciò che consente alla volontà di percepire l’infinito a cui appartiene e di provare al contempo un senso di languido spaesamento dovuto al desiderio, quasi un bisogno, di congiungersi a esso. Ẻ l’attimo precedente l’estasi dell’unione, che può compiersi esaltando la volontà oppure svanire immalinconendola. Detto diversamente, è la qualità che il soggetto coglie nell’oggetto grazie alla quale la propria identità può fondersi con esso acquisendo coscienza del sé quale parte del tutto in divenire. Una rivelazione potente che esplode nell’emozione, l’espressione più sincera della soggettività.

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Ogni entità è volontà che reagisce agli stimoli interni ed esterni in maniera fisiologica e cognitiva. Un animale gioisce, soffre, gode consapevolmente esattamente come l’umano. Idem le piante, benché la scienza lo neghi perché la ragione non comprende il sensibile. Quanto agli oggetti inanimati, vero che sembrano morti, sapessi però quanto calore c’è sotto la loro scorza dura! La realtà è quindi costituita da infinite volontà interagenti, ognuna diversa dall’altra. E siccome il processo simbiotico è soggettivo, non può essere uniformato né concettualmente né concretamente. Di sicuro però vale il principio dell’hic et nunc: occorre che il referente sia un determinato oggetto, quello e non un altro; occorre che nel momento in cui il soggetto si relaziona ad esso, la volontà sia sensibile alle sue qualità.

Ẻ evidente che il mare da Capoliveri non è come la pozza che si forma intorno al tombino quando piove. Quindi è indubbio che alcune cose siano oggettivamente più belle di altre. Se però quando osservo il panorama non sono ispirato o sono distratto, mi lascia indifferente. Così come può lasciare indifferente chi non possiede la capacità o non riesce a coglierne la maestosità. Ecco perché la bellezza, oltre ad essere provocata, è casuale, istantanea e sempre personale.

Difficile capire se sia una virtù dell’oggetto a cui l’attore si abbandona, oppure se sia “negli occhi di chi guarda”, come diceva mia nonna. Ẻ la storia dell’uovo e della gallina. Chi è nato prima? Ancora una volta al dubbio soccorre l’esperienza: se per me è bello, anzi è un capolavoro, Il deserto dei Tartari di Buzzati, per mio nipote è un testo noioso perché non ci sono sparatorie o sesso sadomaso. Sono giovani, che ci vuoi fare! Se per me è bello il film Schindler’s List, qualcun altro invece lo detesta perché brucerebbe gli ebrei, oppure lo ama perché si indentifica in Amon Goth. Sono razzisti. Vorresti, ma mica li puoi eliminare! Indipendentemente dalle caratteristiche di ciò che provoca il turbamento quindi, se l’agente non possiede l’attitudine, se non percepisce la sostanza, se la volontà non si indentifica nella sua essenza, non c’è emozione, non c’è bellezza.

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Nonostante queste ovvietà, l’estetica, quella dottrina che studia il fenomeno artistico, si è spesso concentrata sul referente definendo una serie di criteri variabili nel tempo e nel luogo attraverso cui assolutizzarla in maniera da non subire l’ingannevole sensibilità dell’osservatore. Superando il gusto autoreferenziale l’oggettivizzazione prende peraltro due piccioni con una fava: da un lato l’individuo non si autodetermina ma si affida a chi gli dice cosa e come pensare e per cosa e come emozionarsi, quindi lo controlla. Dall’altra si crea una pletora di esperti che non basterebbero i campi di pomodori del meridione per farli lavorare tutti.

Per questi professionisti del concetto un corpo, un’azione, un’immagine è bella quando si conforma a parametri definiti. E così la condotta deve uniformarsi a principi morali condivisi, vedi chi salva il suicida afferrandolo alla sprovvista perché togliersi la vita è considerato moralmente riprovevole -Capitasse a me lo denuncerei per violenza privata!-; l’opera pittorica deve possedere armonia, simmetria, prospettiva, il giusto chiaroscuro, eccetera; quella musicale deve considerare la frequenza, il ritmo, la metrica, la sinergia fra voce e andamento e così via; quella cinematografica deve rispettare canoni fotografici, narrativi, interpretativi, registici e bla bla bla. In questo modo il bello non è più una miccia sensuale che rischia di deflagrare nelle mani dell’inetto, ma viene ingabbiato nel giudizio, assimilato a un calcolo matematico, adattato a uno schema prefissato affinché gli impulsi siano prevedibili.  

Eppure mi innamoro di una ragazza non perché ne ho misurato la simmetria degli zigomi, sezionato le labbra o soppesato le dimensioni delle poppe. Non credo comunque avrebbe molto appeal approcciarla con il metro da sarto o la bilancia! Mi innamoro perché guardandola negli occhi il pensiero svanisce, la fantasia si inebria di immagini e sensazioni vivaci e la mia volontà si scioglie nella sua. Il mio non è un giudizio, ma un sentimento spontaneo e irrazionale. Quello stesso che a volte mi fa commuovere, trepidare, eccitare.

La ragione non potrà mai conoscere il bello perché è sempre contaminata. Anche quando si vanta di essere disinteressata, è interessata a dimostrare la propria integrità. Predefinirlo significa manipolare l’individualità subordinandola a criteri mutevoli. Al massimo può interpretarlo o rappresentarlo. Al contrario invece l’istinto è quella attitudine che consente di cogliere le sfaccettature del mondo trasformandole in propellente della volontà. Certo, anche i sensi possono essere educati. Se vivo in un contesto che esalta l’armonia delle forme, probabilmente sarò propenso a preferire Leonardo a Kandinskij. Però il primo lo giudico in base alle sensazioni artefatte stimolate dalla ragione, nel secondo mi immergo e frullo fra i suoi elementi come una pallina nel flipper. Dove sarò più felice?

Per mediare fra queste posizioni antinomiche la cultura mercificante fa leva sulla maggioranza. Se opinione comune dice che la Gioconda è bella, deve essere bella per tutti. A parte che quel ritratto mi è sempre stato antipatico perché la tipa sembra tirarsela un po’ troppo, il conformismo favorisce le vendite ma porta alla mediocrità. La società civilizzata che su esso si fonda è la prova dell’annichilimento umano e la sua fiducia nel progresso è impegno a ad annullare i pochi sprazzi di genuinità rimasti. E non potrebbe essere altrimenti quando si impedisce all’essere di manifestarsi per quello che è. Limitare le potenzialità della volontà significa uccidere l’individualità. La ragione non accede al bello, ma lo distrugge. Diversamente, la volontà pura può coglierlo perché è desiderio di vita pulsante che si manifesta attraverso l’istinto.

Non la devi immaginare come uno spiritello che guida il corpo, giacché è impercettibile e indefinibile. Ẻ in tutti gli organismi e nell’unità costituita dai medesimi. Ẻ impulso primigenio di conservazione e perpetuazione insito in ogni entità. Il suo unico scopo è fondersi nel tutto, la cosa in sé, a cui appartiene ontologicamente, quella processualità in divenire delle molteplicità a cui si unisce sviluppando connessioni simbiotiche con l’alterità.

Generalmente questo processo si compie attraverso l’interazione fra organismi. Ma può avvenire anche quando la singola volontà percepisce la grande bellezza attraverso una figurazione della sua unità. Ẻ il caso del panorama mozzafiato. Mentre il soggetto lo osserva, la volontà avverte la vitalità degli elementi che la costituiscono, coglie le infinite connessioni che la animano, si indentifica nelle loro trasformazioni, e diviene essa stessa. Ovviamente l’interdipendenza non è reale, ma rilevarne la possanza la eternizza a sua volta, seppur fugacemente. E così il nostro amico vibra tutto emozionato!

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“La bellezza salverà il mondo” dice Dostoevskij ne L’idiota. “Quale bellezza salverà il mondo?” chiede il giovane Ippolit al principe Miskin2. La risposta che dà lo scrittore russo è l’affrancamento dalla tragedia della realtà cupa, enigmatica, violenta da cui il protagonista cerca di emergere.

Ẻ un inizio, ma non è sufficiente. La semplice fuga è fine a se stessa. Occorre creare le condizioni affinché la volontà possa perpetuare la vita, non esaltare la morte celebrata dalla società del dominio. In fondo che ci vuole, basta essere ciò che si è: natura. La bellezza non è pertanto il vero aristotelico o l’idea platonica che diventa corpo, non è la perfezione divina o l’armonia delle forme, non è mai definita in funzione di un giudizio, né è astratta, ma è lo stato di natura. Quel luogo incorrotto in cui il pathos di Dionisio reifica ciò che Apollo ha negato. Solo in questo ambiente incontaminato infatti la volontà è libera di identificarsi nell’unità, fra esseri che fanno altrettanto con l’obbiettivo condiviso di partecipare al divenire eterno.

Lo so, sembra impossibile che l’umano possa abbandonare le perversioni della civilizzazione per fuggire e ridefinirsi nella natura. Eppure ogni tanto palesa quelle attitudini selvagge che, se coltivate, eviterebbero la fine. Sono attimi fugaci, ma così intensi che talvolta rendono quel bipede spelacchiato quasi bello. Parlo delle occasioni in cui si monda dal torbido e si dona, collabora e ama disinteressatamente, allorché ogni suo impulso diventa sincero, l’esperienza una scoperta, il gesto solidale. Philia, eros, agape3 si combinano magicamente fondendosi nella stessa sostanza.

Forse pecco di ingenua fiducia. Di sicuro però, senza questo slancio evolutivo verso l’autenticità, l’umanità non ha più ragione d’essere. Ẻ un peso per se stessa e un danno per le infinite specie che vogliono vivere. Estinguersi a causa di un meteorite sarebbe triste ma accettabile. Per colpa della stupidità dell’essere più involuto sulla terra sarebbe deprimente. E anche un po’ umiliante.

NOTE

*1 Agostino, Soliloqui, 1,3

*2 Dostoevskij, L’Idiota, 1869.

*3 Per i classici greci la Philia è l’amicizia, l’Eros è il desiderio romantico, l’Agape è l’amore spirituale.

Immagine: William Turner, Glauco e Scilla, 1841

DECIDERE DI ABBANDONARE LA CIVILTA’ PER LO STATO DI NATURA NON E’ UNO SCHERZO

Quando parlo di stato di natura le obbiezioni di solito sono di quattro tipi:

C’è il possibilista con riserva per cui: «Ma come posso lasciare la famiglia?» Con la variante: «Ma dove vado?» oppure «Ma come faccio a…?» «Come fai cosa?» «Come faccio. Punto!» chiude stizzito la questione. C’è il pratico: «Ma nel tuo stato di natura come si campa?» «La natura dà tutto quello che serve!» «Tutto, tutto?» «Tutto!» «Anche internet?». C’è l’interessato che ora fa il fatalista: «Capisco cosa vuoi dire, ma questo è il mondo!» «Il tuo, non il mio!» «E che vorresti fare, distruggerlo?» «Ma solo per ricostruire!». C’è il negazionista che, se morigerato: «Ẻ impossibile!» Se verace: «Per me sei fuori di testa!» Vorrei rispondergli che non è vero, ma se sono anarchico, forse un pochino a-normale lo sono davvero.

Pur con le proprie specificità ognuno di loro concepisce l’ordine esistente come unica alternativa possibile. Che siano scettici, complici o remissivi, non comprendono il cambiamento perché temono di perdere la miseria che dà un senso alle loro vite. Preferiscono adattarsi alla realtà e lamentarsi è il massimo del loro dissenso. Ma non li biasimo. Dopo tutto, anche i microcefali vogliono solo sopravvivere! Certo, sarebbe preferibile evitassero la presunzione del giusto e non impedissero di perseguire la felicità a chi non ha intenzione di arrecare loro alcun tipo di danno, ma fra tante specie perfette, ci stava che la natura ne creasse una che non lo fosse.

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Le persone sono abituate a ragionare per certezze e quando vengono meno le inventano. Al contrario il libertario sana il dubbio con l’esperienza. Non ha paura di negare l’ordine esistente. Lo scardina, lo erode, lo elude per creare il proprio. Non gli basta rifiutare il conformismo, la socializzazione, l’economia, il governo, il dominio. Deve distruggere per rifondare, con la consapevolezza che la vita è un continuo sperimentare, sbagliare, rimediare.

Se una volta infatti l’obbiettivo era il “gran giorno” in cui dalla rivoluzione sarebbe sorta un’umanità libera ed eguale, la violenza sadica dei mastini, l’assuefazione conformista della massa e soprattutto l’involuzione umana provocata dalla tecnicizzazione, hanno portato a concepire un’anarchia che si spoglia dalle miserie del servo consenziente senza bisogno di vestire quelle del guerrigliero intransigente. Oggi l’anarchico è consapevole che la dittatura della crescita economica, l’etica della competizione, la catalessi uniformante sono irreversibili. Il civilizzato è ormai separato dalla natura, quindi spogliato della sua essenza. Ne ignora ritmi e cicli, ne disprezza le manifestazioni, ne deturpa la bellezza, preda e distrugge per sentirsi migliore. Siamo all’assurdo che la teme e prova a dominarla. Non ci riesce e la stermina. Con la complicità di chi preferisce illudersi che, prima o poi, una mano provvidenziale eviti la catastrofe emendando le responsabilità.

Riappropriarsi del creato, un mondo vivente in cui l’assoluta diversità caratterizza l’individualità, è pertanto l’unica opzione possibile: la naturalizzazione dell’umano è il presupposto della sua evoluzione.

Il primo passo è negare il profitto quale causa di qualunque devianza e respingere ciò che lo alimenta. Esso è la più maligna delle illusioni perché giustifica ogni arbitrio. Una volta eliminato, spariscono gli artifici manipolatori che lo perpetuano: dallo Stato che lo protegge alla religione per cui è grazia divina, dall’economia che lo diffonde alla morale che lo legittima.

Il secondo è abbandonare la civiltà per immergersi nella natura selvaggia. Solo un rapporto diretto, sincero, paritario con i suoi elementi, consente all’individuo di conoscere ed essere padrone di se stesso, volontà pura agente, e trovare in essa la propria perfezione. Perché quando la volontà è disinteressata, quindi libera, attraverso le infinite relazioni partecipa alla processualità indivisa con l’unico scopo di realizzare la propria potenzialità. Una scelta che è volontaria perché non imposta, spontanea perché non determinata, ugualitaria perché ogni soggetto contribuisce per quelle che sono le sue attitudini, armonica perché condiviso è l’interesse di garantirne la perpetuazione. Una simbiosi incessante che rende il singolo universale e l’universale singolo, eternandosi reciprocamente.

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Per capire cosa intendo con l’espressione stato di natura, immagina di trovarti in una città qualsiasi. Non occorre sia New York o Singapore. Va benissimo qualunque strada o piazza di uno dei nostri quartieri. Ovunque palazzi, cemento, auto sfreccianti e parcheggiate in doppia e terza fila, persone che zampettano frettolose, altre che grugniscono al cellulare, manutentori che trapano l’asfalto, operai che fanno i trapezisti sui ponteggi. Ops, ne è caduto uno! L’aria puzza di rancido ed così pesante che non riesci a respirare. La testa scoppia per il frastuono dei clacson, delle grida umane, del rombo dei motori, della sirena delle ambulanze…

Chiudi gli occhi e concentrati sul respiro. Annulla intorno fluttuando insieme a lui. Una, due, dieci volte… Non ho detto che devi addormentarti!

Adesso riaprili!

Il cielo è terso, la luce è nitida e l’odore di erba pizzica il naso. Intorno vedi terra rigogliosa e fiori e animali che pascolano liberi. C’è pure un boschetto che si inerpica sulla collina. Ti volti e il ruscello è così trasparente che quasi ti butteresti dentro. Vicino ci sono alcune capanne, da cui il fumo di un falò ascende ipnotico…

Benvenuto nello stato di natura, dove ciò che conosci, ciò che la civilizzazione ha imposto come giusto e inopinabile, per magia sparisce per lasciare il posto alla natura selvaggia. Niente è contaminato, colonizzato, addomesticato. Non troverai un grattacielo o una fabbrica. Non ci sono auto, né cemento, tantomeno infrastrutture, tecnologia, internet, lavoro, commercio, ma solo animali che vagabondano, piante rigogliose, terra fertile e l’aria riempie i polmoni inebriando i pensieri di ossigeno. Le persone si riuniscono in gruppi nomadi che ora stanno sulla rive, domani le trovi sul monte, dopodomani stanziano sulla vicina scogliera. Raccolgono, cacciano e pescano. Le eccedenze vengono divise equamente perché ciascuno possa praticare la profondità dell’esperienza. Non hanno bisogno di sofisticazioni e artifici, si realizzano dissolvendosi nella biocenosi. Quando invece stazionano in un luogo per più tempo, coltivano rispettando la fertilità del suolo e godendo della spontaneità dei suoi prodotti. E se incontrano altri gruppi nomadi, mangiano e bevono davanti al fuoco, poi glorificano tanta magnificenza. Non si guerreggia e non si compete giacché non esiste accumulazione e ciò che è mio è tuo non perché lo impone qualcuno, ma perché sono felice di aiutarti e so che faresti la stessa cosa con me. Intanto i bambini giocano con l’ambiente sperimentando pericoli e potenzialità per affrontare le sfide future, circondati da animali da cortile che zampettano in spazi aperti perché il loro benessere vale quello dell’uomo e quello delle altre specie. Quelli selvatici osservano incuriositi. Vorrebbero partecipare, ma sono ancora diffidenti. Mentre gli alberi inondano l’aria di un profumo, ma di un profumo che… Ah no, sono i nostri amici che si stanno divertendo!

La natura non dissimula, né ha bisogno di doveri o perversioni. Ẻ pratica, empirica, corporea, sensuale, spontanea. Sviluppa rapporti affettivi che appassionano la volontà. Ẻ vero, a volte sembra crudele e spietata. Ma la minaccia non sarà mai come nella società del dominio, dove i predatori violentano, abusano, coartano per il mediocre profitto. In natura si preda per sopravvivere, non per riempire il salvadanaio. E quando le esistenze si equiparano, la lotta è leale e la casualità dell’esisto perpetua comunque il ciclo della vita.

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Per creare lo stato di natura due sono le possibilità: o si sceglie di edificarlo nella società del dominio, oppure si nega l’ordine costituito e si fugge dove esso esiste già eludendo la repressione dei suoi aguzzini.

Consideriamo la prima ipotesi. L’anarchico che risiede nella società del dominio prova a mediare con esso, ma ne viene sempre soggiogato. Vive in ambienti opprimenti, ottempera le sue regole, almeno quelle che non può fare a meno di trasgredire, è condizionato dalla sua morale mercanteggiante. E siccome la miseria del barbone non è auspicabile, deve lavorare. Per cui ogni giorno suona la sveglia, ingurgita frettolosamente una pastina confezionata con del caffè liofilizzato, prende l’auto per andare nell’ufficio di un qualunque palazzo della zona industriale, un bel loculo di due metri per uno con vista sul cesso comune che nessuno pulisce da anni. Qui trascorre ore interminabili con l’unico intermezzo del pranzo. Finito il turno, dopo un tempo eterno passato a bestemmiare nel traffico, finalmente si fionda sul divano per scolare tutta la birra che ha in frigo in maniera da dimenticare che è così tutti i giorni, tutto l’anno, tutta la vita e ormai è troppo esausto per rimediare a tanta idiozia. Ora, mi dici come il nostro eroe può trovare tempo e voglia di edificare un mondo alternativo?

Supponiamo invece che abbia ricevuto un’eredità da un misterioso zio d’America o abbia vinto la lotteria per cui non è costretto a lavorare. Vivere la natura rimanendo nella società del dominio implica però non interagire con la sua selvaticità, bensì creare un surrogato che si adatti all’ambiente civilizzato, quello urbano. E siccome il nostro campione abita in un appartamento al quarto piano, tempesta ogni angolo della casa di palme, felci, calathee, dracaene, sanseverie, orchidee, bonsai e altro. Compra anche un maialino, due galline e un cane. L’entusiasmo è alto e trascorre le giornate ad innaffiare le piante, dare da mangiare e pulire gli escrementi degli animali. Quando però invita a cena la morosa, per non sembrare pazzo trasferisce tutto in terrazza e chiude le serrande. La serata va alla grande, ma il giorno dopo il povero maialino è assiderato e le galline sono volate via. Una si è schiantata contro il muso di un autobus, l’altra si è impigliata nei cavi elettrici che passano sotto il balcone. Al cane non è andata meglio poiché si è infilato nel compattatore del camion dell’immondizia dopo essersi lanciato per recuperare quella che stava arrostendo. Distrutto nell’anima, il nostro prode sfoga la disforia con i video di shuffle dance, ignorando che le piante stanno seccando una dopo l’altra. E così finisce la sua esperienza con la natura.

Morale: non si può creare lo stato di natura rimanendo nella società del dominio.

L’anarchico deve dire basta e ricominciare altrove. Deve abbandonare la casa in cui abita, gli amici del calcetto, il lavoro che tanta soddisfazione dava ai suoi creditori, il chiasso della città, ma anche le abitudini, gli affetti ostacolanti, i confort e le suggestioni della vita civilizzata. Deve cercare un luogo incontaminato in cui di essa non ci sia traccia. Solo l’individuo che interagisce in un ambiente in cui è se stesso può sentirsi uomo!

Ma dove può andare se la società del dominio ha colonizzato ogni spazio disponibile sulla terra?

Scartata la possibilità di addentrarsi nell’oceano in cerca di un’isola deserta a causa della scarsa confidenza con gli squali, opta per la montagna. Fra le Alpi e Appennini scegli le prime perché sono più lontane e non c’è il rischio che qualcuno venga a bussare. Per non lasciare tracce medita di raggiungerle a piedi. Studiata la cartina ci ripensa e arriva in treno in un paesino dal nome impronunciabile. Si inerpica sulla prima montagna e bivacca in un bosco, che abbandonerà presto perché non sopporta gli schiamazzi dei turisti che passano da un sentiero attiguo. Cammina e cammina finché non trova un luogo inaccessibile dove può costruire la sua prima dimora da anarchico e appropriarsi della vita selvaggia che desiderava. Passano i giorni, passano i mesi ed è sempre più un elemento della natura. Unità fra infinite unità. Adesso è un uomo libero fuso con la realtà attraverso le connessioni con le sue molteplicità. Non è solo vivo, è felice. Perché cos’è la felicità se non la volontà che scopre la sua universalità?

E quando lo desta il ronzio di un drone, anziché reagire, la civiltà è sempre molto efficiente se deve reprimere, fugge insieme ai compagni che condividono la sua esperienza sovversiva. E se ne andranno ogni volta che il dominio proverà a inibire la loro libertà. In questo modo non solo eviteranno l’oppressore, ma la comunità crescerà, si moltiplicherà e i ribelli saranno così numerosi, forti e uniti che il Potere preferirà lasciarli perdere e accontentarsi di vessare chi del giogo non può fare a meno.

In conclusione: nella società del dominio la felicità è un rischio che le persone preferiscono evitare. Ẻ più comodo inseguire il profitto, assuefarsi alle sofisticazioni, osservare remissivamente le regole garanti l’ordine costituito, delegare la responsabilità per scaricare i sensi di colpa, alienarsi in pratiche socializzanti e così via. Di contro, per realizzare lo stato di natura bisogna rinunciare alla materialità, abbandonare la civiltà, vivere l’unità del creato. Ciò implica creatività, sacrificio e dedizione, soprattutto all’inizio quando spaventa lasciare l’apatica confortevolezza del vecchio mondo. La scelta è fra tirare avanti senza uno scopo o trovarlo dando dignità alla propria esistenza divenendone protagonisti. E se per molti la felicità è un’impresa troppo faticosa, per gli anarchici tornare alla natura è invece una cosa spontanea. Naturale, direi.

immagine: Albrecht Duret , La grande zolla, 1503.