2- Autorità e potere

«Prima di cominciare, vorrei informarvi di un piccolissimo dettaglio» proferii senza enfasi.

Il pubblico ministero mi invitò a proseguire con un gesto fiacco della mano.

Schiarii la voce. Il cuore batteva forte perché era una vita che sognavo di dire quello che stavo per dire. Tante volte ero stato sul punto di farlo: scontri di piazza, posti di blocco, occupazioni, reati vari, ma mai la soddisfazione di un pestaggio, di un arresto, di un banale fermo, di un mediocre controllo delle generalità per poter affermare: «dichiaro di non riconoscere l’autorità dello Stato. Sono quindi vostro prigioniero politico!».

A parte gli occhiali del pubblico ministero scivolati dalla gobba del naso fin sulla punta, non un movimento dei muscoli facciali, non un respiro, una scintilla in quegli occhietti di triglia che guarda dalla cesta. Forse solo le occhiaie segnalarono il colpo, tinteggiandosi di un cupo color catrame, prima erano marrone castagno, sicuramente più in tono con il grigio tortora della sua pelle. Il commissario, invece, rimase com’era, con la mano incastrata nel doppio mento, un occhio aperto uno chiuso, bocca allentata da cui scivolava la pallina rosa di chewing gum. La segretaria finse di cercare qualcosa nella borsetta. L’agente davanti alla porta Sfinge era, Sfinge rimase.

Non che mi aspettassi folle in subbuglio, dichiarazioni di guerra gridate dal balcone di Palazzo Venezia o l’ingresso di Mastro Titta1, una maggiore partecipazione, però, direi proprio di sì!

Ricordo d’aver pensato: wow, tutto qui? E adesso che faccio?

Improvvisamente il tempo ripartì: «Splendido!» Il pubblico ministero ricominciò a impastare la pallina di pongo. «Quindi, se non ho capito male, noi potremmo anche andare via!». Si rivolse beffardamente al commissario.

Manganello implose in un asfittico: «E dove andiamo?»

«Ma dove vuole andare, Manganello!». Guardò me: «Verbalizziamo quello che ci ha detto, o basta che lo teniamo a mente?». Guardò il compare: «Lei cosa consiglia?». Tornò a me: «Che si fa in questi casi?»

«Non so» esitai. «In teoria, se non riconosco l’autorità della legge, non ho violato alcuna legge. Per cui potrei anche andarmene…». E poiché nessuno replicava: «Me ne vado?».

Il volto di Pottutto avvinazzò a chiazze: «Mi faccia capire: se non riconosce l’autorità dello Stato, suppongo non riconosca neanche la mia…»

«Beh, direi proprio di no!»

«Non sia così drastico, Dopraho. Ci pensi bene. Ho studiato fino a trentasei anni per essere qui. Potrei offendermi!».

Meditai sollevando lo sguardo: «Ci ho pensato. No!»

«Quella del commissario?»

«Assolutamente!»

«E perché mai?»

«Vuole che glielo spieghi?». Per un attimo mi sembrò di tornare all’esame di diritto penale, quando il professore chiese la differenza fra dolo specifico e dolo generico e io avrei voluto ripetergli tutto il Mantovani a memoria.

«Vede dottore» farfugliai. «Se me lo consente, partirei dal principio…»

«Adamo ed Eva?»

«No, la differenza fra autorità e potere… Diciamo così: c’è l’autorità e c’è il potere. L’autorità è un attributo, assegnato dalle tradizioni, dagli usi, dalla morale o dalla legge, che conferisce capacità a una persona, a un ente, a qualunque cosa di agire. In una parola: autorevolezza. Autorità, da augere, cioè innalzare, elevare. Se esercitata implica un’influenza, diretta o indiretta, assoluta o parziale, un’obbedienza passiva, che non esige spiegazioni.»

«Tipo la mia?» chiese Pottutto tronfio.

«Tipo la sua!» asserii. «E sa che ogni volta in cui mi trovo davanti a persone del suo calibro, penso sempre a Chomsky quando si chiede se l’anarchismo può accettare un’autorità eretta su fondamenta razionali?»

«Che domanda intelligente!» esclamò Pottutto, lisciandosi la barba. «E che risposta si è dato?»

«Certo che sì! Purché l’autorità non si trasformi in dominio. Un genitore, ad esempio. Lo assecondo, lo rispetto, da lui imparo. La mia ragione accetta la sua autorità. Ma il mio volere, che non è fatto di solo raziocinio e fortunatamente prende con le molle il buon senso, di fronte al suo ordine di non mangiare la Nutella…»

«Anch’io la sera ne mangio sempre una cucchiaiata di nascosto da mia moglie!» intervenne Manganello senza che nessuno l’avesse interpellato.

«Anche due!» rinforzò Pottutto con inflessione deridente. «Perché di nascosto?» aggiunse.

«Perché lei, più che l’autorità, c’ha il sadismo dentro!».

Ripresi a parlare: «Chi ha autorità possiede anche il potere, cioè la capacità di fare, di compiere le azioni che da essa derivano e che la esplicano. Prendiamo lei. Possiede sicuramente un’autorità, conferita dall’ordinamento e dilatata dalla devozione pubblica, che le attribuisce il potere di interrogarmi, incarcerarmi, in teoria anche farmi torturare. Mi segue?»

«Come no?» assentì. «Che diceva del torturare?»

«Dicevo che lei è una persona di potere…»

«Così mi lusinga!»

«Davvero!». Aggiunsi: «E non è da tutti! Robert Paul Wolff affermava che, se un ladro mi punta una pistola per derubarmi, io gli consegno i soldi perché riconosco in lui un potere – aggiungo intimidatorio – che mi induce a obbedire. Difficile, però, che possa riconoscergli l’autorità2». Sorrisi: «Anche se mi guarderei bene dal riferirglielo!»

«Eh, già!» convenne Manganello.

Proseguii: «In teoria il potere può essere convenzionale o arbitrario. Convenzionale quando viene esercitato legittimamente. Arbitrario quando è abusivo. Di fatto, però, può capitare, anzi spesso capita, che la norma o la morale o le tradizioni autorizzino pratiche ingiuste, oggettivamente ingiuste, semplicemente perché è utile al sistema, cioè alla loro conservazione. L’esempio classico è la schiavitù di cui parla Henry David Thoreau in Disobbedienza Civile3

«Non conosco. Quindi?»

«Quindi il potere diventa dominio ogni volta in cui si manifesta come arbitrio, cioè come esercizio di una potestà incontrastata. Presente quando Alberto Sordi, ne Il Marchese del Grillo, dice ai galantuomini: “Perché io so io e voi non siete un cazzo”4?».

Manganello frinì una risata trattenuta: «Troppo divertente Alberto Sordi!»

«Manganello, non sia banale!». Il PM lo riprese: «Vuole mettere Gian Maria Volonté?»

«E perché, la mimica di Nino Manfredi?» partecipai.

«Siamo mica qui per parlare di cinema?». Pottutto alzò la voce. «In base al suo ragionamento, io posserrei… possiderei… possetterei… avrei sia autorità, che potere, che dominio…». Sogghignò poi al fido scudiero: «Gliel’ho detto che possiamo fare quello che vogliamo!»

«Ecco perché quando portiamo i ragazzi nei sotterranei e poi diciamo che sono caduti dalle scale nessuno dice niente!» esclamò il commissario.

«Perché quando gli mettete la droga nella tasche?». Pottutto ammiccò un occhiolino.

«E quando lei falsifica i verbali?». Manganello replicò a tono.

«Manganello, non vorrà svelare tutti i nostri segreti!». Il PM s’irrigidì. Poi tornò a me: «Scommetto un mese del suo internamento che c’è un “ma”!»

«E’ una fortuna avere davanti un PM così sagace!» lo adulai.

«Dica dica, sono proprio curioso!».

«Poiché il confine fra l’auctoritas, cioè il potere di fare, e la potestas, cioè il potere su qualcosa, è molto labile, è facile si generino abusi, prevaricazioni, servitù, violenze. Per questo gli anarchici desiderano un mondo senza autorità, cioè potere, quindi dominio, coercizione, oppressione. E cosa rappresenta più di altri questo arbitrio?».

Pottutto fece labbrino. Manganello finse di rileggere gli appunti.

«Vi do un indizio: Stirner lo chiamava fantasma

«Stine? Conosce anche lei Stine?». Il commissario sobbalzò sulla poltrona.

«Chi è Stiner?». Il pubblico ministero domandò a Manganello.

«Stine, l’albanese arrestato ieri per violenza sessuale!». E con occhietti dolci: «A proposito, dopo che gli ho strappato i molari, ha confessato!»

«Stirner, con la erre!» precisai. «È un filosofo dell’ottocento autore del libro l’Unico e la sua proprietà. Un testo fondamentale per l’anarchismo5».

I due replicarono con la faccia inequivocabile dell’ignoranza.

«Stirner definiva lo Stato un fantasma… Certo, dal XIX secolo la società è molto cambiata. Dopo la Seconda guerra mondiale, ad esempio, il post-modernismo, Foucault in particolare, ha dimostrato che il potere non è solo statale, ma si manifesta in tutte le relazioni quotidiane, come l’educazione, la sanità, il governo, che operano fra loro realizzando governamentalità molteplici6. Ciò nonostante, l’abuso istituzionalizzato rappresenta, oggi più di prima, la sublimazione delle quotidiane prevaricazioni, legittimandole. Per questo l’anarchico era e sarà sempre un nemico dell’autorità pubblica. Mi spiace dottore, ma per gli anarchici non esiste alcuna sovranità al di sopra della propria!».

«Questo è un bel problema!» Pottutto bofonchiò, poi riprese a manipolare la pallina di pongo.

 

NOTE

*1 Mastro Titta, all’anagrafe Giovanni Battista Bugatti (1779-1869), famoso boia dello Stato Pontificio.

*2 Robert Paul Wolff, In difesa dell’anarchia, 1999.

*3 Hanry David Thoureau, Disobbedienza civile, 1848

*4 Il Marchese del Grillo, film con Alberto Sordi, 1981.

*5 Max Stirner, L’unico e la Proprietà, 1844.

*6 Michel Foucault, L’etica della cura di sé come pratica della libertà, intervista del 20.1.1984, in M Foucault, Antologia.

 

 

IMMAGINE: Pablo Picasso, Guernica, 1937

A cura di Costanza Ghezzi- Thàlia Servizi Editoriali, www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com

 

1- L’arresto

UNDERGROUND ANARCHICO di Raimondo Maria Dopraho

 

Questa è la mia anarchia, raccontata in maniera alternativa rispetto alla solita scientificità e sistematicità dottrinaria, con uno stile elementare e immediato. Una narrazione in fieri, sviluppata di volta in volta, il più spontanea possibile.

Il taglio è dialogico, espressione più sublime del rapporto paritario. Un dialogo maieutico fra me, il pubblico ministero Ligio Pottutto e il commissario Manganello durante l’interrogatorio che segue il mio arresto.

Agli esimi tutori della legge racconterò tutto. Ma proprio tutto. E sarà uno spasso.

 

 

“Lotta. Più sarà intensa la lotta e più sarà intensa la vita”

  1. P. Kopotkin

 

Sapevo che gli agenti mi avevano cercato sul posto di lavoro. «Mi auguro non gli abbiate detto che ero a nero!», scherzai col direttore quando me lo riferì. Sapevo che mi avevano cercato a casa perché è difficile che un ladro metta a soqquadro l’appartamento di uno che sta peggio di lui. Mai mi sarei aspettato di trovarli allineati in barriera mentre stavo per calciare la punizione più importante del campionato.

Campetto di Mezzana, quello che d’inverno sembra una pista di pattinaggio, d’estate il deserto del Gobi durante una tempesta di sabbia. Piazzato il pallone, vidi Cirri che teneva la testa bassa, Vanni impegnato in un serrato esercizio respiratorio, Remì tremava.

«Tranquilli ragazzi, stavolta faccio rete!» li rassicurai. Perdevamo da tre partite consecutive e in quella stavamo già sotto di due reti: le sorti del campionato dipendevano maledettamente da quel calcio piazzato.

Impiegai un po’ per mettere a fuoco il delizioso bomber blu sopra i pantaloni slavati, lo scarponcino nero e il berretto tipo baseball con fregio ricamato. Avanzai lentamente ipnotizzato dalla targhetta con la scritta Polizia cucita sui giubbini. «Non hai pagato il campo neanche stavolta?» chiesi a Blasi.

«Sei tu Raimondo Dopraho?» ruggì un agente.

«Anche Maria» precisai. Ci tenevo al mio lato femminile.

Avanzò petto in fuori, mascella possente e occhietto infuocato, superandomi. Non potei seguirlo poiché il suo collega mi spintonò e rovesciai all’indietro, inciampando sul corpo del primo, accovacciatosi dietro le mie caviglie. Mi ritrovai steso sull’erba con un ginocchio sulla testa. Chi provava a scompormi le braccia, chi ballonzolava sulla mia schiena come se pigiasse l’uva, qualcosa di enorme si coricò su di me, immobilizzandomi. Dissi che, se volevano mettermi le manette, sarebbe bastato l’avessero chiesto. Anzi lo pensai e basta, perché non riuscivo a respirare.

++++

Mi risvegliai stordito in una cella vuota. Faceva male ovunque, ma almeno respiravo. Pareti graffitate, brandina puzzolente, porta con lo spioncino e uno scarafaggio sul materasso che calciai via prima che tentasse di socializzare. Chiusi gli occhi. Immaginai come avrebbe reagito Leonardo quando la madre, mia moglie, lo avrebbe informato che ero stato arrestato.

«Che coglione!» avrebbe detto. Poi sarebbe tornato a guardare i video sul cellulare.

Cigolò il portone della cella.

«Un po’ in ritardo questo tè!» scherzai.

L’agente, un ragazzotto col naso equino e il baffetto fulvo, per non essere meno simpatico, mi capovolse dalla branda trascinandomi per i capelli.

Legati i polsi e le caviglie con un sacchetto del supermercato, venni scortato nella più classica stanza degli interrogatori. Pareti glabre, tavolo rettangolare da una parte, su cui era adagiata una pila di fogli, qualche penna e una pallina di pongo. Vi sedevano un tizio allampanato con occhialini Cavour, barbetta rossiccia tipo Zach Galifianakis in Una notte da leoni1, camicina bianca, giacca grigia e, alla sua destra, una testa tale e quale al Gesù Stempiato di Duccio Boninsegna2, con le guance butterate e il corpo compresso in una divisa con tre formelle e un’aquila dorata sulla spalla. Davanti alla parete illuminata dalla finestra sbarrata, gobboni su un tavolino tondo, una testa cotonata su busto robusto di donna mi dava le spalle.

Due degli agenti che mi avevano scortato uscirono dalla stanza. Il terzo chiuse la porta e si piazzò davanti con sguardo da Guardia Reale. Neanche il tempo di sedere, che bussarono alla porta. Entrò una tracagnotta in uniforme con due bottigliette d’acqua e tre bicchieri di plastica.

«Le ho portato da bere, dottore!» squittì all’emaciato.

«Mi scusi» egli ne fermò la fuga. «Avevo chiesto anche qualche schiacciatina ai ciccioli» disse. Aveva una voce bassa, leggermente nasale, forse con un impercettibile sigmatismo.

Il volto avvampato che la donna esibì dimostrava tutto il rincrescimento per averle appoggiate su un tavolino senza prestare attenzione al doberman accovacciato sotto che, poverino, probabilmente aveva una fame mostruosa dopo aver inseguito tutta la mattina i lavoratori in sciopero senza riuscire a morderne uno.

«Giusto dieci minuti e arrivano!» sibilò.

Lo smunto si assestò nella poltrona.

Il commissario lo imitò.

La cotonata si volse, ma non feci a tempo a scorgerne il volto.

Il poliziotto a guardia della porta continuò a fare la sfinge.

 Approfittando di quella acquisita normalità, sedetti pure io.

«Cominciamo con le presentazioni» disse la pertica. «Sono il dottor Ligio Pottutto, il sostituto procuratore. Questo a mio fianco è il commissario Manganello, la signora alle sue spalle è Anita Servile». Riempì mezzo bicchiere d’acqua.

«Vuole bere?» chiese. «Magari dopo!» disse. Accese la sigaretta, un paio d’intense aspirate e: «Vuole fumare?» chiese. «Magari dopo!» Guardò l’orologio. «Ma questa focaccia coi ciccioli?». Alzò il telefono, chiese spiegazione del ritardo e riattaccò. «Sono in forno!» farfugliò stranito. «Prima di cominciare, mi permetta un appunto». Accigliato si rivolse al commissario. «Gliel’avevo chiesto cortesemente di non presentarmi indagati in questo stato!».

Il commissario abbassò gli occhi.

Invece io li spalancai. Un pubblico ministero sensibile ai diritti dei detenuti era davvero una bella sorpresa!

«L’ho detto una miriade di volte che mi fanno impressione!». Mi deluse subito. «Capisco che il lavoro è duro e avete bisogno di svagarvi, ma, per favore, portatemeli docciati, cambiati e con una faccia accettabile. Non voglio più ripeterlo!» Puntò il dito su di me: «E lei si pulisca il sangue, che sembra Freddie Krueger!». Mi passò il suo fazzoletto umidiccio.

Il commissario si dissolse e ricompose, tutto sommato, piuttosto velocemente: «Mi perdoni dottore» frinì. «Le garantisco che la prossima volta provvederò personalmente con un po’ di rimmel e fondotinta!».

«Splendido!». Il pubblico ministero spense la sigaretta sgozzandola nel portacenere. «Possiamo cominciare?», guardando me.

«Sono a sua disposizione!» replicai.

«Manganello, lei è pronto?»

«Sono pronto?». Sobbalzò.

«Dotto’, un momento, il computer non parte!». L’assistente con vocina spaurita. «Ho provato tre volte, dottore!»

«Forse se lo faceva una sola e fatta bene!». Pottutto ghignò caustico.

E siccome la segretaria mi fece tenerezza perché continuava a picchiettare i tasti imbarazzata… «Posso?» mi proposi di aiutarla.

«Dove va?»

«Credo di aver intuito il problema». Infilai il caricatore nella presa. «Ora dovrebbe funzionare!». Tornai a sedere.

E in effetti, dopo qualche secondo, sullo schermo del computer apparve una spiaggia tropicale.

«Acceso!» confermò la segretaria.

«Niente male!» ammise il pubblico ministero. «Non si aspetti però che le conceda il patteggiamento per questo!»

«Già, non se lo aspetti!» echeggiò il commissario.

Chissà perché mi venne da pensare alla mia prima cena da detenuto. Me la immaginavo da quando ero nella cella: pollo lesso? Arrosto? Alla griglia? Zuppa? E se zuppa, come? Piccante come la faceva mia nonna? Alle verdure? Del contadino? Araba? Oppure una vellutata per tenersi leggeri? O magari c’è un menù e posso scegliere! Mah, quasi quasi glielo chiedo! Non glielo chiesi. «Sono pronto per cominciare!» dissi.

«Procediamo allora con le generalità!» Manganello ronfò.

«Un momento!». La segretaria si volse nuovamente.

«Che c’è ancora?»

«Il mouse non funziona!»

«Usi il dito!»

«Non lo so fare!»

«Me la concede una cortesia?». Pottutto si rivolse a me con tono gentile. «Mi dà un’occhiata lei, per favore?». Aggiunse: «ma non creda che…»

«Lo so, lo so, nessun sconto di pena!» replicai amabilmente.

NOTE

*1 Una notte da leoni, film, 2009.

*2 Opera del 1284.

NOTE

*1 Una notte da leoni, film, 2009.

*2 Opera del 1284

Immagine: Vincent Van Gogh, Ronda dei carcerati,  olio su tela, 1890.

A cura di Costanza Ghezzi- Thàlia Servizi Editoriali, www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com