A TUTTI… (da Don Chisciotte)

A tutti gli illusi,
a quelli che parlano al vento.
Ai pazzi per amore,
ai visionari,
a coloro che darebbero la vita per realizzare un sogno.
Ai reietti,
ai respinti,
agli esclusi.
Ai folli veri o presunti.
Agli uomini di cuore,
a coloro che si ostinano a credere nel sentimento puro.
A tutti quelli che ancora si commuovono.
Un omaggio ai grandi slanci,
alle idee e ai sogni.
A chi non s’arrende mai,
a chi viene deriso e giudicato.
Ai poeti del quotidiano.
Ai ” Vincibili ” dunque,
e anche agli sconfitti che sono pronti a risorgere e a combattere di nuovo.
Agli eroi dimenticati e ai vagabondi.
A chi dopo aver combattuto e perso per i propri ideali,
ancora si sente invincibile.
A chi non ha paura di dire quello che pensa.
A chi ha fatto il giro del mondo e a chi un giorno lo farà.
A chi non vuol distinguere tra realtà e finzione.
A tutti i cavalieri erranti.
In qualche modo,
forse è giusto e ci sta bene,
a tutti i teatranti .
[Don Chisciotte – Miguel De Cervantes]

COS’E’ LA FELICITA’

COS’E’ LA FELICITA’

Il Potere si è fatto furbo: non ordina, seduce. Promette benessere in cambio del corpo, necessario per lavorare, e della mente, necessaria per consumare. Con una mano aliena in fabbrica, in ufficio, in strada o dovunque paghino tre soldi da dissipare in consumi imposti ed estorsioni legalizzate, nell’altra tiene la caramella dell’accettazione sociale con cui premia chi si illude di realizzare la propria felicità se genera quella del più forte. Intanto l’economia si frega le mani, la politica è sempre più lorda di pervertimento, la massa affonda nella melma compiacendosi del suo sapore.

La chiamano socializzazione, ma è l’espediente attraverso cui controllare l’individuo. E per chi disattende il dovere di dissolversi in essa, quei pochi recalcitranti isolati, disprezzati, emarginati dalle sue dinamiche comandate, i mastini sono sempre pronti. A qualcosa dovranno pur servire!

Aveva ragione La Fontaine quando diceva che “il nostro nemico è il nostro padrone”. Con il capitalismo tecno consumistico però, esso non ha più un volto umano ma corrisponde al ruolo che ciascuno assolve per assimilarsi al branco. L’annientamento del sé in cambio del riconoscimento sociale quale unica fonte di felicità.

Ma è proprio necessario essere infelici per avere la felicità?

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Tanto per cominciare, si dice “sono felice”, non “ho la felicità”. Sembra una sciocchezza, ma le parole sono importanti e queste affermano che essa è uno stato personale che attiene all’essere, non all’avere. Ẻ un sentimento, non un bene di consumo che si può smerciare. Avere non è essere felici, ma sembrare felici.

Trattasi poi di uno stato soggettivo, per cui è difficile trovare sia una definizione universale, che un’uniformità di cause scatenanti. Può essere determinata da condizioni personali come l’età: una cosa può generarla a venti anni e non a cinquanta; lo stato sociale: l’affamato gioisce davanti a un tozzo di pane che invece disgusta l’abbiente; la personalità: io sto bene quando scrivo, Mevio quando fa i calcoli matematici. Solo per fare qualche esempio. E, come se non bastasse, muta pure per il soggetto stesso che, senza motivo apparente, oggi può rallegrarsi di un evento, che forse domani lo rattristerà. Siamo tutti così volubili!

Il capitalismo ha provato a standardizzarla omologando personalità, bisogni e desideri: un lavoro profittevole, maggiori comodità, l’arrivismo sfrenato, possedere più beni, consumare fino all’esaurimento, eccetera. E poi ha colonizzato ogni luogo col suo modello di società uniformata, reazionaria e conservativa affinché l’individuo fosse manipolabile, prevedibile, volontariamente succube.

Ma trattasi di finzioni che provocano uno stato di sospensione momentanea. Uno “stare bene” determinato dal riflesso sociale, quindi eteronomo, non soggettivo. L’illusione distrae, non cancella il baratro. In questo modo, infatti, la volontà affoga in artifici consumati i quali deve crearne di nuovi in un circolo vizioso e senza fine. Non bisogna essere illuminati per capire che i beni, i traguardi, gli interessi, i desideri, gli egotismi, i profitti creano bagliori di appagamento temporanei e subordinati alla contingenza, pertanto effimeri.

Perché invece la felicità sia piena e vera occorre svincolare la volontà da qualunque determinazione indotta. Deve godere di ineludibile spontaneità. Spontaneità che per manifestarsi richiede un ambiente che non ne pregiudichi le potenzialità. Un luogo incontaminato dove l’individuo diventa padrone esclusivo della propria sovranità e finalmente si percepisca non come entità isolata che si barcamena per sopravvivere, bensì come elemento di uno spazio, di un tempo, di una materia mutevole, senza principio né fine. In esso non simula eternità, è eterno.

Spogliatosi della precarietà insita nell’essere e che la socialità amplifica, la sua volontà contempla senza condizionamenti, instaura connessioni sensoriali e intellettive, si immerge nella sostanza delle cose producendo identità empatiche. Ora è pianta, ora è animale, ora è roccia, ora è vento e così via in un’immedesimazione simbiotica fra molteplicità che diventa fusione nella comune partecipazione. Replicata l’esperienza all’infinito svanisce la relatività in luogo di una partecipazione esaltante, senza regole, né tempo, né confini, illimitata e indeterminata, in cui vivere, non sopravvivere, nella condivisione dell’unità in continuo, eterno divenire.

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Asserire che l’unica forma di felicità è quella data dalla relazione genuina con la natura che porta a fondersi nella sua immensità non significa scegliere una vita selvaggia o sollecitare lo sviluppo di chissà quali attitudini sciamaniche. Non si tratta di essere primitivi della foresta o Baba che rifuggono la materialità per cercare l’elevazione spirituale. Vuol dire invece ripristinare l’equilibrio naturale che le artificiosità hanno pervertito.

La volontà si realizza quando sfoga gli istinti, soddisfa i bisogni, afferma le proprie possibilità, impara a relazionarsi attraverso l’autodeterminazione. E perché ciò avvenga deve evolvere in totale spontaneità, senza doversi adattare ai condizionamenti né obbedire alle imposizioni. Solo se pura, completamente libera dalle necrofile subordinazioni mondane che ora la ammorbano, spesso ne alterano l’essenza, trova la propria identità. Per questo ha bisogno di svilupparsi laddove niente è contaminato, guarda caso il suo ambiente primigenio.

Quanto gli artefatti creati dal consorzio sociale sono effimeri e fuorvianti, tanto l’ordine naturale è spazio entro il quale la volontà prende forma in tutta la sua integrità. La purezza si conquista con la libertà, ma la libertà si esercita e si mantiene quando, eliminati gli artefatti, si relaziona spontaneamente con le diversità, creando connessioni armoniche che consentano la condivisione e la partecipazione all’evoluzione di cui è parte. La Natura non è una fuga, ma lo stato in cui scoprire e realizzare se stessi. Una perfezione che, se condivisa con affini, è piacere sublime.

Riconoscere il primato dell’autenticità rispetto all’obbedienza coartata o automatizzata implica innanzi tutto rifiutare ciò che deprava le coscienze trasfigurando il sé: dalla logica del profitto alle idee fisse, al progresso barbaro e schiavizzante causa di ogni perversione. Divenuti padroni di se stessi, occorre dedicarsi a un’esistenza diretta ed empatica con l’ecosistema affinché l’alterità sia identità. Nessuna sofisticazione. Nessuna superfluità. Nessuna gerarchia. Nessuna prepotenza e malversazione. Nessun costrutto artificiale o obbligo prescritto da forze preordinate. Nessuna trasgressione alla propria indole. Ma entità interagenti, cooperanti e adattative, spontaneità che si relazionano in maniera egualitaria per compiere l’obbiettivo condiviso di perfezionarsi attraverso la biosimbiosi.

Quando la volontà è pura e opera in un ambiente non condizionato da pulsioni predatorie e distruttive, quelle esaltate da qualsiasi logica del dominio, dominio che nella nostra epoca prende forma di progresso civilizzante e omologato, è padrona di se stessa e istintivamente cerca l’identità nelle molteplicità che animano il mondo. Impara a connettersi ad esse, crea quelle interrelazioni che la portano alla percezione prima, alla fusione poi nel divenire universale della vita. Ed è nell’estasi dell’indistinta unità delle cose, che il dare e ricevere amore infonde felicità.

 

foto da Google Immagini

L’EGUALE LIBERTA’: LEGGE NATURALE DI RECIPROCITA’

Una società nevrotica difficilmente accetta i cambiamenti, le contraddizioni, le diversità. Il divergente mette in dubbio le sue convinzioni e induce a reazioni ai limiti del persecutorio. Viviamo l’epoca dell’ideologia woke dove principi giusti come il rispetto e la tolleranza verso il prossimo vengono pervertiti diventando paranoia. Con la conseguenza che qualunque manifestazione non conforme ai dettami preconfezionati si considera sessista, razzista, bullista, ipocritamente divisiva. Ma quando si ostacola il pluralismo attraverso principi che diventano persecutori si ha sempre tirannia. Soprattutto se il conformismo perbenista che lo propone e diffonde mira allo sfruttamento di nuovi mercati.

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Si definisce condotta offensiva quella che lede l’onore, il prestigio, in generale la dignità di una persona. Ẻ tale qualunque azione verbale o fisica, almeno al pensiero è lasciato il piacere di concepire le peggiori sordità, che turba o danneggia la personalità altrui. Non fosse che questa enunciazione rischia di comprendere uno spettro di condotte che sbilancia gli interessi sempre e troppo a favore della presunta parte offesa. Se infatti mi rivolgo a qualcuno dandogli dell’imbecille senza motivo, è ovvio che si offenda e reagisca. Ma se invece si è comportato da imbecille, dovrebbe ringraziarmi per averglielo ricordato.

La riconoscenza è virtù di pochi anche quando uso l’ironia, oppure mino i valori intimi dell’interlocutore scoprendone la fragilità. Faccio un esempio: Tizio invoca il suo dio per aiutarlo a realizzare un tale obiettivo. Caio sente e lo apostrofa più o meno scherzosamente che non esiste e se esiste ha cose migliori da fare. Tizio risponde che è un cafone perché non rispetta la sua fede e lo manda all’inferno. A quel punto Caio replica che l’inferno è sulla terra anche per colpa dei babbei come lui. E poi si sa come va a finire.

Questa situazione dimostra come le relazioni personali operino su un crinale periglioso, dove basta un niente per cadere nel precipizio. La sensibilità religiosa di Tizio ha infatti turbato quella agnostica di Caio, che con una battuta ne ha minato le convinzioni. Certo, il primo poteva evitare di vagheggiare in sua presenza. Il secondo doveva ignorarlo poiché i fanatici non perdono occasione per manifestare il loro integralismo. Se però comparare i peccati serve solo a chi vuole omologare le condotte, di sicuro non si può nascondere che la reazione di Tizio sia sproporzionata.

Sproporzione che è ancora più evidente quando ci si sofferma sulla causa scatenante lo scontro. Che non è la diversa visione della vita di cui ciascuno è custode geloso, non è la libertà di Tizio di credere nelle favole, né quella di Caio di deridere gli illusi. E’ bensì il tenore dell’affermazione di quest’ultimo percepita dal primo come lesiva. Per capire se e quando la reazione è fuori luogo basta quindi valutare la veridicità delle parole che l’hanno provocata. Se sono vere, cioè empiricamente incontestabili, offendersi è sbagliato o, quantomeno, esagerato. Semplice!

Tornando all’esempio, poiché è apodittico che il religioso sia un illuso, sarebbe stato molto più dignitoso per Tizio farsi una bella risata e riflettere sull’idiozia dei propri convincimenti.

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Situazioni di questo tipo si presentano molto più frequentemente di quanto si pensi perché la mente comune è intrisa della logica del dominio in cui necessariamente la prevaricazione deve realizzarsi o essere ostentata. Le persone non sono ciò che sono, ma l’immagine che vogliono altri abbiano di loro o che altri hanno creato e loro condiviso. Ciascuno è una maschera sociale che deve essere riconosciuta e accettata, pena la perdita dell’autostima. E in un contesto competitivo, nessuno vuole smarrirla perché ritrovarla è un bel casino.

Se a questo si aggiunge che la morale sociale, le leggi e tutte le regole imposte hanno innalzato il livello di suscettibilità, magari fosse sensibilità!, si spiega come oggi le persone agiscano determinate esclusivamente dalla emotività isterica dei bravi consumatori e non come uomini coscienti di sé.

Per fare un paragone, l’omologazione ipocrita e artificiosa dei comportamenti ha portato a una deformazione delle relazioni paragonabile a quella subita dal sistema immunitario a causa dell’ipertrofia terapeutica: quando non c’erano i vaccini, le medicine si assumevano di rado e il medico era una figura mitologica, la malattia era un evento naturale, a volte doloroso, spesso tragico, ma sempre parte dell’esistenza. La precarietà della vita terrorizzava allora come oggi, eppure la fitoterapia1 più o meno rudimentale era l’unica salvezza e non esistevano artifici o sofisticazioni dietro cui nascondere l’angoscia della transitorietà. Adesso invece, fra il mito del superuomo in salsa narcisistica, l’ossessione dell’igiene, l’uso salvifico dei farmaci istigato dai media e la fragilità interiore acuita dal sistema che induce a trovare sicurezza in condotte compulsive, senza dimenticare l’influenza dell’industria farmaceutica assunta a rango di oligarchia, sono tutti ipocondriaci che si ammalano come marmocchi.

Quando l’interferenza umana altera l’ordinario equilibrio delle cose ne corrompe l’attitudine. Poiché infatti la natura insegna che il divenire è armonia delle spontaneità, ogni ingerenza, sia pure quella che ipocritamente si definisce progresso, se concepita come ricchezza, confortevolezza, sofisticazione, semplicemente azione funzionale a una materialità interessata, la contamina generando precarietà e, di conseguenza, squilibrio. E come accade ogni volta di fronte alle fragilità, l’individuo reagisce, così gli è stato insegnato, nascondendosi dietro l’arroganza del dominio se ha il potere, attraverso illusioni indotte se lo subisce.

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Diverso è il discorso per l’anarchico. Egli concepisce le relazioni non come competizione, ma come sintesi. La sua realtà è costituita da pluralità di entità (animali, vegetali, pure i bipedi!) che si fondono armonicamente attraverso la partecipazione condivisa. Una biosimbiosi che è attitudine, ma che si compie solo dopo aver rifiutato la logica del dominio.

Rifuggendo il profitto che la fonda perché ostacolo alla fusione col tutto, le relazioni non sono sottese agli ordinari rapporti di forza, ma tendono reciprocamente all’armonia. Non solo quella umana, ma del biotipo in cui interagiscono. L’individuo è la comunità. Come direbbe Leopold: “allarga i confini per includervi il suolo, le acque, le piante, gli animali o, collettivamente, la sterra stessa… in una “eticità della terra” che esalta il comune “diritto di esistere”2.

In questo contesto non c’è bisogno di artefatti. Non ci sono maschere. La singola azione non è mai prevaricatrice. Ciascuno vive l’esistenza uniformandosi ai ritmi e alle leggi della natura. Quella da cui nasce e in cui ritorna con la morte. E quando l’obiettivo è fondersi nell’identità simbiotica in cui ogni essere è essenziale, non predare per interesse, l’unità diventa amore delle molteplici peculiarità. Molteplicità che partecipano alla processualità dell’esistenza in funzione del bene comune, che è semplicemente vivere. Non si domina, emargina, elimina, sopraffà l’altro perché necessario al compimento del sé, che si realizza nella condivisione.

Ecco perché nella comunità spontaneamente antiautoritaria le relazioni sono dirette, sincere, istintive, prive di sofisticazioni tanto con le entità materiali e immateriali, di cui ciascuno gode la magnificenza, tanto con i propri simili. Si chiama eguale libertà ed è quella legge universale che disciplina armonicamente l’azione di chiunque abiti il mondo. Consiste nel conoscere se stessi e legittimare gli altri in una coesistenza che esalta le pluralità senza vincoli imposti. Ma se per gli animali e le piante la giustizia è endemica, l’uomo, corrotto sin dalla nascita, deve emanciparsi dalla logica del dominio per imparare con l’esperienza ad essere natura.

Prima è necessario il rifiuto razionale delle imposizioni come la morale e la legge, le religioni, le ostentazioni, i pregiudizi, e tutto ciò che contraffà la volontà in funzione di un qualunque profitto. Dopo di che, divenuto padrone di sé, l’individuo può affidarsi all’istinto affinché essa trovi la propria identità nelle cose del mondo. Ẻ un processo spirituale e pratico al contempo, mentale ed etico, che opera come un’impollinazione, dove il polline, la volontà, mediante gli agenti impollinatori, le relazioni spontanee, crea la gamia, l’identificazione con le entità, e la seguente produzione del seme, l’estasi data dalla partecipazione al tutto. Una fusione edificata sulla reciprocità, in cui l’eguaglianza è garanzia di libertà e la libertà si compie solo quando tutti sono eguali.

Ovviamente chi non vuole evolversi ha pari dignità di esistere, ma la sua vita è un’inutile spreco di energia e un fastidio per chi ha capito che la verità è nella bellezza. Per questo, finché gli anarchici sono costretti a presenziare alla società del dominio, e così sarà finché essa non si estinguerà o sarà consentito loro di separarsi, vista l’inutilità del combatterla, offendere e irridere i conformismi dei suoi paladini non è solo strategico, è un piacere.

NOTE

*1- La fitoterapia è l’uso delle piante o degli estratto per curare le malattie e mantenere il benessere psicofisico.

*2- Aldo Leopold, Pensare come una montagna, Piano B edizioni, 1949.

IMMAGINE: August Macke, Giardini Zoologici, 1913

IL SUICIDA E’ PADRONE DI SE’ MA NON E’ UN LIBERTARIO

La vita è la cosa più importante che abbiamo perché senza di essa mancherebbe il resto. Eppure rispetto coloro che si suicidano. Il loro gesto profuma di quell’intenso “vaffanculo” che solo un ribelle può gridare.

AL contrario disprezzo gli integralisti dell’esistenza ad ogni costo che lezzano di quell’artefatto tipico delle persone fragili e insicure, bisognose di omologarsi al gretto idealismo per trovare una propria identità. Si ergono sul trono e tronfi declamano il più classico dei luoghi comuni, la più banale delle falsità: “la vita è un dono!”

Ma quale dono! Siamo carne che nasce, muore e si ricrea nel ciclo continuo della vita. Siamo materia. Materia che evolve in materia, che perisce diventando altra materia. Adesso è corpo umano, poi sarà pianta, animale o roccia, comunque sempre involucro con cui la singola volontà si manifesta, muta, compie nella processualità naturale. “La verità di un essere è il suo stesso corpo” dice Michael Onfray1. Senza di esso gli abitanti del mondo non potrebbero definirsi e determinarsi, non potrebbero identificarsi nel divenire universale.

Ma se il corpo è mezzo della volontà in azione ed essa ne dispone a piacimento per realizzare la propria natura, ne consegue che può compierla fra gli infiniti modi consentiti dal creato. Compresa l’autodistruzione.

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Tale autonomia non piace a chi del prossimo ha bisogno per soddisfare il proprio interesse. E così sono nati gli artifici che ingabbiano la volontà. A partire dalle religioni, il più secolare strumento di usurpazione dell’io, che concepiscono la morte come un portale, anziché valutarla per quello che è: un comunissimo evento fisico. Con un dio, qualunque dio, proprietario e padrone della vita, all’individuo non rimane che maneggiarla con cura per non farlo arrabbiare. In quest’ottica è inevitabile che il suicidio diventi un affronto imperdonabile al suo dominio.

La Bibbia lo aborrisce perché “chi uccide se stesso uccide un uomo”2, cioè l’essere che Egli ha creato “a sua immagine e somiglianza”3. E quando domanderà conto “della vita dell’uomo all’uomo”4, sarà meglio che il suicida trovi una scusa credibile.

L’islamismo, il competitor monoteista più agguerrito, non è meno intransigente. Dice infatti il Profeta che Allah è colui che fa vivere o morire e guai a scalfirne l’autorità perché chi “si suicida strozzandosi continuerà a strozzarsi nel Fuoco dell’Inferno (per sempre) e chi si suicida pugnalandosi continuerà a pugnalarsi nel Fuoco dell’Inferno”5.

Laddove invece il senso di colpa non è un dogma, come avviene per gran parte dei sincretismi orientali, le persone hanno una visione più chiara della realtà e la consapevolezza di sé si scontra con i modelli innaturali imposti dalla contingenza creando un corto circuito. Ecco perché quando da quelle parti qualcuno dice “vado a fare due passi!”, i familiari lo fissano coi lucciconi non sapendo se tornerà o meno.

Comunque interpretate, studiate, proposte, le religioni sono una “catalessi mentale”, come dice Armand. Impediscono all’individuo di essere padrone di se stesso inducendolo all’obbedienza volontaria verso qualcosa di illusorio.

Per questo il disinibito uomo moderno le ha sostituite con teismi più pragmatici, capaci tuttavia di conseguenze assai più devastanti. Statolandia ci chiama cittadini, ma ci tratta da servi. La Scientocrazia ci battezza uomini, ma ci reclama cavie. La prima si impone in nome di un bene comune che realizza il tornaconto dei Grandi Affari. La seconda ci subordina al progresso. Progresso che è sempre profitto, profitto che ingrassa i Grandi affari. Sempre lì si torna! Entrambe non accettano che l’individuo disponga del proprio corpo, quindi della propria vita, come vuole: l’’una lo assoggetta alla sua autorità limitando la possibilità di dispone, l’altra ne riconosce il primato perché da morti non si può produrre e consumare.

Così il suicida diventa un povero disadattato affetto da terribili disturbi psichici o psicosociali che perde il senno, anziché accettare il sistema che gli viene imposto con serena rassegnazione o rampante entusiasmo. E mentre terapeuti, psicologi, psichiatri e altri si interrogano su come i media riescano a omologare meglio di loro, i sociologi solleticano la responsabilità collettiva asserendo che il desiderio di farla finita è causato dalla mancata integrazione nel gruppo di appartenenza6. In questo modo non solo viene impedito all’individuo di scegliere se vivere o morire, ma è costretto a sorbire il giudizio dei moralisti e l’invadenza degli intrepidi salvatori che, beffa nella beffa, diventano “eroi” perché non si sono fatti gli affari loro. In epoca di delatori è inevitabile che gli impiccioni vadano in Paradiso!

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Non sono interessato alle motivazioni che inducono al suicidio. Servono ai familiari e agli amici per non sentirsi in colpa. Prevenirle invece è il disperato tentativo di chi non accetta la possibilità che qualcuno si sottragga al suo controllo.

Il dolore fisico, il disagio sociale, le patologie psichiche, gli eventi nefasti, le esperienze traumatiche e quant’altro sono tutte scuse dietro cui si cela la vera causa: l’assenza di speranza nel futuro che certifica la natura mortale. L’uomo teme la fine più di ogni altra cosa e la esorcizza ideando soluzioni consolatorie e di facile consumo.

Quando Tomas Shelby va a trovare l’amico Barney in manicomio gli chiede: “Tu sei sepolto qui, con la camicia di forza e non vedi la luce del sole, non vuoi morire, cazzo?” Questi risponde: “No, non voglio. Perché le cose potrebbero cambiare!”7.

Alla morte il detenuto oppone la speranza. Ma la speranza è uno slancio emozionale che proietta il sé in una suggestione, l’eventualità favorevole idealizzata, subordinando l’empirico all’immaginifico, il reale all’illusione, irragionevole e arbitraria per definizione. Detta diversamente, è un atto di fede. Una dissonanza cognitiva che il suicida, esattamente come il libertario, non può accettare. Lo spirito di entrambi è, infatti, completamente immerso nella realtà. Disprezzano i vagheggiamenti e ne irridono i praticanti. Per loro vale quello che dice il saggio: “ieri è storia, domani è mistero, ma oggi è un dono. Per questo si chiama presente”8. Con la peculiarità che, invece di prendere il dono, si donano.

Esattamente come il libertario, chi si toglie la vita possiede, consapevolmente o meno, la profonda percezione di essere atomo imprigionato nella roccia che, una volta liberato dalla radice di quercia, viene “gettato nel mondo delle creature viventi” e “aiuta a costruire un fiore, che diventa una ghianda, che ingrassa un cervo, che nutre un indiano”9, in un ciclo continuo inesorabile, ma esaltante. Esattamente come il libertario si fa beffe dei pregiudizi, delle imposizioni, dei personalismi per tornare al tutto.

Si fa beffe della legge. Benché, suppongo a malincuore, lo Stato non consideri più il suicidio un illecito, il suicida trasgredisce la regola che lo vuole sottomesso alla sua autorità onnipotente.

Si fa beffe della morale. Sia di quella religiosa, solo dopo il Concilio Vaticano II del 1962 la Chiesa ha consentito le esequie per chi si uccide, sia di quella sociale, che impone l’uniformazione e si concreta nella riprovazione con cui viene giudicato il divergente.

Si fa pure beffa degli affetti. Perché non esiste che uno passeggi per strada e improvvisamente dica: “sai che faccio, mi butto dal ponte!” e poi si butta davvero. Infiniti sono i segnali lanciati e non colti da coloro che, dopo la sua scelta, convivranno col senso di colpa. E ipocrite sono le obiezioni deresponsabilizzanti tipo quella per cui il suicidio è una forma di egoismo perché l’autore ignora i sentimenti dei cari e le conseguenze causate dalla sua morte, oppure quella che ciascuno deve essere portatore di valori positivi in quanto esempio per il prossimo.

La prima costringe a vivere per colmare le mancanze di chi non è riuscito a compensarle personalmente. Non mi sembra molto altruistico!

La seconda eticizzando la “guida” che l’interdetto, cioè l’individuo che si ritiene non sappia pensare e agire, deve imitare, replica in salsa laica del dio incarnatosi in Cristo “lasciandoci un esempio, affinché seguiate le sue orme”10. Suggestione talmente perversa che, guarda caso, viene impiegata ogni volta in cui bisogna sottomettere senza perdere tempo in azioni violente.

Entrambe ignorano non solo che la morte è un evento certo e imprevedibile con cui prima o poi bisogna aver a che fare e che non è l’antitesi della vita ma una sua dinamica ma, soprattutto, che quando il bene e il male sono trasmessi o imposti anziché ispirati da ciò che si è diventano prigioni della volontà. Chiunque deve essere libero di cercare la propria strada. Anche di perdersi. E se poi alla fine del lungo e periglioso cammino si ritrova davanti all’infinito, sarà il suo istinto, magari corroborato da qualche buon consiglio, a decidere da che parte andare.

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Chi si toglie la vita rompe con l’ordine esistente perché è padrone di se stesso. La sua volontà è pura, proprio come quella del libertario. E proprio come per il libertario essa trova nel ritorno alla natura il perfezionamento.

Con una differenza sostanziale, però. Per il primo, il processo non si compie attraverso l’identificazione con le molteplicità. Concepisce l’esistenza non come via per l’unione ma come oppressione da cui liberarsi. Nel momento in cui la volontà si reprime interferisce sul divenire. Crea una disarmonia. Anticipando i tempi dell’inevitabile, impedisce la partecipazione cosciente alla processualità naturale che può compiersi solo in vita. La sua è pertanto una scelta passiva dettata dal bisogno di evitamento che sorge dopo aver ignorato, rinunciato o, addirittura, fallito il tentativo di unirsi ad essa. Perché non basta desiderare l’estasi, perché le distrazioni ne ostacolano il compimento, perché determinarsi lasciandosi andare richiede comunque un’elevata e possente dose di audacia. E intuire la pienezza dell’amore senza riuscire a viverla è lacerante.

Il suicida è quindi un anarchico che non ce l’ha fatta.

Ẻ l’uccellino fuori dalla gabbia che non riesce a volare. Indietro non torna e davanti ha il pavimento. Ma sa che non sarà mai tanto libero come nel momento in cui perderà contatto con la superficie.

NOTE

1-Michael Onfray, La politica del ribelle, 2008.

2- Sant’Agostino, De Civitate Dei, 1,20.

3- Genesi 1,26, 27.

4- “dal sangue vostro anzi, ossia della vostra vita, io domanderò conto; ne domanderò conto ad ogni essere vivente e domanderò conto della vita dell’uomo all’uomo, a ognuno di suo fratello” (Genesi 9,5).

5- Sahih Al Bukhar 1365, libro 23, Hadith 117.

6- Emile Durkheim, Il suicidio, 1897.

7- Peaky Blinders, serie televisiva.

8- Frase del Maestro Oogway in “Kung Fu Panda”, film di animazione, 2008.

9- Aldo Leopold, Pensare come una montagna, Piano B editore, 1949.

10- Bibbia, 1Pietro 2:21.

Immagine: Repin, Ivan Il Terribile e suo figlio, 1581

48 – COMUNITÀ, GLI ACCORDI – segue

«Sul federalismo non ho altro da aggiungere!» dissi.

«Sento i colleghi per sapere a che punto è l’agente Sevizia?» propose Manganello.

«Splendido!». Il PM si eccitò. E a me: «Sarà bello fare l’alba insieme!».

Il maresciallo recuperò il telefono di servizio: «Pronto collega? Buona sera a lei, agente Sventro. Può dirmi com’è messo Sevizia?… So anch’io che è alto, grosso e fa paura. Intendevo a che punto è col cinese?… Ottimo!». Si rivolse a noi col pollice sollevato. «Gli riferisca che lo attendiamo trepidanti!». Riattaccò. «Sta arrivando. Contento?», a me.

«Ho la ciccia di gallina!». Mostrai l’avambraccio. «Posso prima finire il discorso sulla comunità?»

«Ancora?»

«Se vuole parlo di scissione nucleare… Allora la scissione nucleare è quel processo di disintegrazione in cui nuclei di uranio o torio vengono bombardati con neuroni e…»

«Non faccia il simpatico e prosegua con l’anarchia!»

Lo assecondai: «Diceva Comte che una società può essere statica se mantiene l’ordine attraverso leggi di organizzazione, come nelle nostre democrazie dove col pretesto della sicurezza il Potere disciplina la massa, oppure dinamica, quando invece si fonda sul progresso1… Ma cos’è il progresso

«Lasci stare gli indovinelli!»

«È diventare animali seduti che contemplano lo schermo?2 Oppure lavorare da mattina a sera per comprare l’auto nuova? Magari la distruzione degli ecosistemi per una vita più confortevole? O, perché no, radere al suolo un continente dopo aver premuto un bottone…?»

«Ne ha ancora per molto?»

«Direi un paio… quella sofisticatissima invenzione medica praticabile solo a chi può permettersela? O forse la nuova scoperta eugenetica che migliorerà la razza?… Chissà!»

«A me piace quella del radere al suolo!» gorgheggiò Manganello.

«In senso generico con progresso si intende qualunque miglioramento della vita. Ma se per lei può essere tale un’invenzione tecnologica che garantisce confort più sofisticati o maggiori guadagni, io posso disapprovarla o declinarla perché mi turba, mi danneggia, la ritengo immorale o inutile».

«Non la seguo!»

«Le faccio un esempio. Supponiamo che domani le sue funzioni siano svolte dall’intelligenza artificiale. Io finirei in gattabuia senza un processo, lei dovrebbe trovarsi un altro lavoro». E con un risolino sarcastico: «Chi ci restituirebbe il piacere di questo momento?»

«E il divertimento deve ancora cominciare!» puntualizzò il maresciallo.

«È impossibile che accada!» tuonò il pubblico ministero.

«È impossibile finché qualcuno riterrà utile il fattore umano. Ma quando esso non sarà più una variabile accettabile, vuoi vedere che…?»

«Nessuno potrà mai sostituire le forze dell’ordine!» controbatté Manganello.

Dopo un attimo di esitazione: «Ha ragione» convenni. «Le barzellette sui robot non fanno ridere!». Proseguii: «Se invece al termine progresso diamo un significato relativo, esso comprende tutto ciò che favorisce lo sviluppo del benessere personale. Non fosse che, ogni volta in cui l’uomo agisce in termini egoistici, diventa uno sterminatore». Sospirai. «Entrambe le definizioni, quindi, sono errate perché sbagliato è l’antefatto, ovvero lo scopo che il progresso dovrebbe perseguire. Finché esso corrisponde all’utile, inevitabilmente si identifica nel profitto e prende la forma di beni, la cui conquista legittima condotte predatrici e causa sfruttamento e sofferenza». Li fissai risoluto: «Progresso è solo ciò che consente all’individuo di realizzare se stesso, cioè la propria essenza naturale. E poiché l’essenza naturale è quella di entità che si sviluppa in un’immensa armonia, una pulsazione3, la natura, corrisponde ai pensieri, alle intuizioni, alle azioni e così via attraverso i quali è possibile unirsi a essa partecipando alle continue trasformazioni dei suoi elementi. Ne consegue che progresso è dire no. Dire no alle imposizioni, alle sofisticazioni, alle futilità, alle depravazioni, alle regole prescritte e non, al dominio rapace in generale, per realizzarsi come persona che fa parte del tutto».

«Che in concreto vorrebbe dire?»

«Vuol dire che il profitto ha due significati: uno mercantile in cui la manipolazione delle menti allontana le persone da ciò che sono. L’altro è coscienza di sé e compimento della propria personalità, che si realizza spogliandosi dall’egotismo e vivendo la completa immersione nella processualità naturale, la cui infinita bellezza è fonte dell’unica, vera felicità».

«Non mi sembra una spiegazione molto concreta!»

«Prenda il lavoro. Tutti dobbiamo lavorare per vivere. Ma una cosa è produrre per soddisfare necessità fisiche e morali essenziali, indispensabili al conseguimento e al mantenimento di un’esistenza connessa, quindi armonica, con la natura, quindi con la propria essenza. Altra è sgobbare per adattarsi alle istanze collettive. O, peggio ancora, sottomettersi alle regole, ai ritmi, agli obiettivi pretesi da chi sfrutta per un proprio interesse. In questo caso, o soddisfa la trascendenza di chi non ha fede o è semplicemente schiavitù. Solo un’attività indipendente praticata in costante contatto con la natura e che garantisca il minimo necessario consente di conoscere se stessi e di realizzare la propria personalità…»

«Chi non lavora, però, non contribuisce alla sua cara comunità!». Pottutto mi interruppe.

«Dipende cosa intende per comunità!»

«Se non lo sa lei che sono cinque ore che ne parla!»

«Finora ho detto che la comunità, la piccola comunità, è l’unico modo per garantire autonomia, orizzontalità e solidarietà. Ma ciò è possibile quando il singolo contribuisce a definirla personalmente. Quando invece essa è quell’insieme di persone in cui l’individuo viene forzatamente assorbito costringendolo a obbedire a prescrizioni che non ha deliberato e che realizzano interessi che non gli appartengono, diventa una prigione da cui deve solo evadere».

«Se l’aggiusta sempre come gli pare!»

«La comunità è uno straordinario luogo di esaltazione della personalità se e solo se è volontariamente scelta, organizzata e partecipata. Cioè l’individuo contribuisce direttamente a ogni fase del suo sviluppo. E questo avviene attraverso accordi liberamente costituiti per la necessità di compiere le aspirazioni degli uomini civili senza l’ingerenza dell’autorità4, realizzando quella forma speciale dell’amicizia basata sulla comunione di idee… col vivere senza opprimere, senza calpestare le aspirazioni o i sentimenti di chicchessia, senza dominare o sfruttare, ma da esseri liberi che resistono con ogni loro forza alla tirannia dell’uno come all’assorbimento delle moltitudini5, in cui sostituire all’odio l’amore, alla concorrenza la solidarietà, alla ricerca esclusiva del proprio benessere la cooperazione fraterna per il benessere di tutti… allo scopo di fornire a tutti gli esseri umani i mezzi per raggiungere il massimo benessere possibile, li massimo possibile sviluppo morale e materiale6. In sintesi, la comunità volontaria, solidale, pluralista e orizzontale in cui le persone si accordano senza determinazioni esterne è l’unico luogo in cui si realizza l’eguale libertà».

Li fissai entusiasta per l’arringa.

Mi replicarono due sguardi atarassici.

«Anch’io credo molto nella volontà, sa?» il magistrato ruppe il silenzio.

«In che senso?»

«Credo sia arrivato il momento che trovi la volontà di fare qualche nome!»

«No!»

«Per favore!»

«No!»

«Porca puttana, Dopraho. Non voglio fare il pubblico ministero in questa cazzo di città per tutta la vita!»

«Ah no? E dove le piacerebbe andare?»

Ci pensò: «A Milano, magari!»

«C’è la nebbia!»

«Ma ci sono anche le televisioni!»

«Vuole un’ospitata da Fazio?»

«Da Fazio?». Rifletté. «Mi andrebbe bene anche da Del Debbio!»

+++++

«Niente è più elettrizzante di uomini liberi che si uniscono per preservare la loro libertà» ripresi a parlare. «Disciplinano dal basso i rapporti e li mutano al variare delle esigenze. Possono cambiare i bisogni, può trasformarsi il contesto e chiunque può chiedere di aggiornarli. Sono sempre modificabili in quanto prodotto della sperimentazione quotidiana. L’uomo comune teme il caos e crea gabbie che legittimano poteri soverchianti. L’anarchico diviene continuamente perché non teme l’esperienza». Per recuperare la loro attenzione: «Sapete cosa diceva Jefferson?» chiesi.

«Chi, George Jefferson?» frinì Manganello. «Ẻ il protagonista della mia sit-com preferita!7» farfugliò allo sguardo minaccioso del pubblico ministero.

«Parlo di Thomas Jefferson, il terzo presidente degli Stati Uniti. Egli affermava che l’immutabilità delle Costituzioni ostacola lo sviluppo umano. Ecco perché, a suo dire, devono estinguersi naturalmente insieme a coloro che le hanno emanate8 per essere sostituite periodicamente da convenzioni più moderne. Allo stesso modo, per gli anarchici gli accordi ora ci sono ora non ci sono più. In qualunque momento possono essere revocati, sostituiti e rescissi. Uno può dire non ho più voglia! e abbandonare senza conseguenze e, soprattutto, senza motivazione… Vi sembra strano? Eppure, anche Bauman sottolineava che l’interesse personale può conciliarsi con quello della comunità se essa è altrettanto facile da smantellare di quanto sia stato costruirla; se essa è flessibile, sempre e soltanto a tempo e durare finché conviene; se il legame di fedeltà creatosi non deve mai ostacolare, né tantomeno precludere, ulteriori e diverse scelte9… Una stretta di mano e amici come prima. Così fanno le persone perbene!»

Ebbi la sensazione che Pottutto si trattenesse dal ridere: «Non mi pare di aver detto una cosa divertente!» dissi.

Gli si arrossarono le basette: «Pensavo alla faccia che farebbe Persecuzio se gli stringessi la mano e gli dicessi che me ne vado!»

«Non le converrebbe. Là fuori si fatica!» ironizzai. «Abbandonare la comunità non è una fuga ma una scelta. E in una società fondata sulla condivisione e che non conosce profitto, tutti si rallegrano quando qualcuno si offre a nuove relazioni, opportunità, necessità. Parafrasando Armand, la reciprocità che li ha uniti fino a quel momento, benché esaurita, non può lasciar spazio alla diffidenza e al rancore».

Pottutto fissò l’orologio che aveva appoggiato sul tavolo.

«Sevizia se l’è presa un po’ troppo comoda con questo cinese!» inframezzò Manganello.

++++

«Parla di armonia come se il mondo fosse un paradiso. Ma cosa accade se le persone non rispettano gli accordi? Siete uomini anche voi, no?» chiese il magistrato.

«Osservazione interessante!»

«Grazie!»

«Se avessi cominciato a parlare ora!» chiosai caustico. «Quando nella società del dominio le parti non rispettano un accordo, la causa è sempre un tornaconto personale. Ma se la comunità anarchica si fonda su una sintesi volontaristica in cui ciascuno compie l’interesse personale realizzando quello comune e viceversa, mi dice chi può danneggiare chi? Già che c’è, mi informa anche del perché? E visto che è sul pezzo, mi spiega pure come?»

«Ha capito cosa voglio dire!»

«Ne abbiamo già parlato!» controbattei esausto. «Quando do a lei ciò che mi ha chiesto e lei da a me ciò che le ho chiesto, non siamo entrambi contenti?»

«Per questo non c’è bisogno di essere anarchici!»

«Ma in una società in cui tutti ambiscono al profitto, l’accordo diventa strumento di competizione, non di armonia. Quando invece i membri hanno scelto di non accumulare e di vivere nell’interesse reciproco, nessuno prevale perché lo scambio soddisfa le parti paritariamente. E se, per ipotesi, qualcuno viola gli accordi, la comunità interviene per conciliare attraverso un confronto collettivo in cui il trasgressore riconosce il proprio errore, se ne assume la responsabilità, chiede perdono, risarcisce eventualmente il maltolto, i compagni accettano e si ripristina la pace sociale. Ecco perché la parola non è mai una sentenza, bensì una raccomandazione a cui l’interessato può scegliere se conformarsi o meno».

«Continuo a non vedere il senso!»

«Perché continua a guardare con occhi bendati!» rilevai. «È talmente intriso della mentalità del dominio che le risulta impossibile concepire le relazioni in termini di armonia e spontaneità. Dal suo punto di vista, come a ogni azione coincide un tornaconto, a ogni violazione corrisponde una sanzione che sollevi la collettività dalle proprie responsabilità. Per gli anarchici, invece, la tolleranza, al pari della solidarietà, del pluralismo e della volontarietà è un principio fondamentale per lo sviluppo del gruppo». Sospirai di nuovo. «La verità è che siete così terrorizzati dall’idea di decidere con la vostra testa, che non tollerate chi, invece, esalta la personalità» rilevai increspando il tono di voce. «Per voi lo Stato deve ingiungere e il suddito obbedire, Dio prescrivere e il fedele obbedire, il capo ordinare e il subordinato obbedire, il marito imporre e la moglie obbedire, il padre intimare e il figlio obbedire, il mercato forzare e il consumatore obbedire… anche rincoglionire, direi!»

«Ora basta!»

«Le dà fastidio, eh?»

«No, gli elenchi mi mettono ansia!». Pottutto batté la mano sul tavolo. Poi mi fissò algido: «Ormai sono ore che l’ascolto e sa cosa le dico?»

«Prego!»

S’impettì per darsi un tono: «Le dico che la realtà non cambia e non cambierà mai. Il suo mondo fatto di siamo tutti amici e fratelli, viva la pace, la libertà e l’eguaglianza, abbasso il potere cattivo e così via sono tutte stronzate!» sentenziò solenne.

«Dice?»

«L’ho appena detto!». E con un cenno affettato della mano mi sollecitò a proseguire.

Sollevai le spalle: «Io invece dico che ho finito!». Incrociai le braccia.

«Si è offeso perché ho detto la verità?» reagì algido Pottutto.

«Non per ripetermi, ma la superficialità non mi offende mai. Mi intristisce!».

+++++

«Non può aver finito?». Pottutto si strappò gli ultimi ciuffetti rimasti sul mento. «Io decido quando ha finito!». Guardò Manganello in cerca di ausilio.

«Lui decide quando ha finito!» grugnì il fido compagno di ventura tamponandogli l’arterite col fazzoletto umidiccio.

«Spiace, ma ho proprio…»

«Via, non faccia il capriccioso!» disse il PM adesso più accondiscendente.

«Abbiamo ancora l’udienza preliminare, gli interrogatori in carcere, il processo… non mancherà l’occasione!» chiarii assertivo. «Per essere la prima volta che ci incontriamo, mi pare comunque d’aver parlato abbastanza!»

«Eh no!»

«Forse ha ragione!». Riflettei. «Dovrei approfondire come si sviluppa l’autogestione, come si articola l’organizzazione delle comuni, come si conciliano i diversi interessi, il lavoro e il rapporto con la natura…»

«E i nomi?»

«Per una volta sia piuma portata dal vento!» risposi fra il serio e il faceto. «Per il momento dovrà accontentarsi di sapere che esiste il luogo che non esiste10 in cui si può rendere possibile l’apparentemente impossibile11».

Avvampò come lava incandescente ma non replicò a causa dell’improvviso squillo del telefono.

E poiché nessuno sembrava voler rispondere: «Posso?» chiesi di farlo io.

Per un paio di trilli i miei interlocutori si fissarono indecisi. Poi il magistrato mi porse la cornetta. Ma il filo era troppo corto, così lo invitai a invertire i posti. Percorsi il lato del tavolo vicino alla signorina Servile, lui quello opposto come se temesse di infettarsi passandomi accanto. E quando sedetti sulla sua poltrona: «Pronto?» proferii imitandone il tono impostato.

«Pottutto?» gracidò la voce dall’altro lato del telefono.

«Buona sera dottor Persecuzio!» riconobbi il procuratore capo. «Ancora sveglio a quest’ora?… L’interrogatorio è andato alla grande! L’anarchico ha impiegato un po’ di tempo a sciogliersi ma dopo ha fatto così tanti nomi che pare l’elenco del telefono!». Tappai la cornetta perché non mi sentisse ridere. «Manca solo il giro con Sevizia, dopodiché lo spediamo al fresco… Certo, riferirò al maresciallo che questa volta non gli para il culo!… Come dice? Ne parlano i giornali? Pure la televisione? Splendido!». Con la mano di nuovo sulla cornetta: «Pure famosi vi ho fatto diventare!» rivolto ai miei aguzzini. «Mi vuole premiare?» chiesi sorpreso. «Troppo gentile! Ho fatto solo il mio dovere. Anche se quel posticino da sostituto procuratore a Milano di cui parlava… Ha attaccato!».

Riappesi la cornetta. Tolsi i piedi dalla scrivania e: «Milano l’aspetta!» informai Pottutto.

Dalla commozione quasi si mise a piangere.

«Di me ha detto nulla?» domandò Manganello.

«Che doveva dire?»

 «Mi piacerebbe diventare Ministro della Guerra!12» miagolò.

«Perché non capo dei vigiles romani?» ribatté Pottutto biasimevole.

Ma anziché replicare, il maresciallo schizzò in piedi e saltellò come una palla da basket verso il bagno.

«Mi sa che l’emozione gli ha giocato un brutto scherzo!». Il pubblico ministero lo giustificò. «È davvero un bambinone!»

Per un po’ giocammo a nascondino con gli sguardi. Poi ruppi l’imbarazzo: «È stato un piacere essere interrogato da lei!»

«Ne sono convinto, visti i risultati!» replicò amaro. «Se non vuole fare i nomi, mi dica dov’è che… Mi consenta almeno un sequestro!» insistette. «Le regalo il poster di Rocky da appendere in cella!»

«Ce l’ho!»

«Le metto la parabola!»

«Non guardo la televisione!»

«Le farò avere doppia razione di bistecca tutti i giorni!»

«Sono mica anemico!»

«Potrà entrare nel coro dei Sodomiti!»

«Non ho il coraggio di chiederle cosa sia!»

«E se prometto di farle incontrare i familiari una volta al mese?»

«Troppo buono!»

«Accordo fatto?».

Non gli strinsi la mano perché bussarono alla porta.

«Dev’essere Sevizia!» esclamò entusiasta. «Manganello, è arrivato Sevizia!» starnazzò verso il bagno.

Appena dopo lo strozzato: «Due minuti!» del maresciallo, la porta si aprì prepotentemente facendo volare la Sfinge che stava davanti. Non si frantumò in mille pezzi solo perché la signorina Servile fece da materasso.

Testa glabra, squadrata, due fessure al posto degli occhi, naso veemente sopra labbra turgide, zigomi come pietre di Stonehenge, mascella che sembrava una trebbiatrice, corpo taurino compresso in una tutina di nailon color giallo impreziosita da schizzi ancora freschi di sangue cinese. In una mano impugnava un trapano, nell’altra delle tenaglie. Avanzò facendo tremare il pavimento.

Pottutto accolse Sevizia con un sorriso spavaldo e uno: «Splendido!», d’ammirazione. Questi rispose guardandosi intorno con l’espressione di chi soffre di antropofobia e si trova in una stanza troppo affollata.

Le leggende sul suo conto non gli rendevano merito: era così spaventoso che una folata gelida di terrore mi fece tremare. Istintivamente mi coprii con la giacca che il pubblico ministero aveva lasciato sullo schienale della poltrona. Non so perché ma manipolai la pallina di pongo. Addirittura, calzai i suoi occhiali. In un impeto di esaltazione finsi perfino di prendere appunti. E quando Sevizia oscillò ancora lo sguardo dal PM a me, ebbi un’illuminazione: assentii un deciso. «Fammi vedere di cosa sei capace!», con un solerte movimento delle sopracciglia.

Tutto avvenne molto velocemente.

Il mostro fissò il magistrato, che strisciò la sedia all’indietro.

Emise alcuni fonemi d’oltretomba, a cui il PM balbettò un titubante: «Come è andato con il cinese?»

Gli si avvicinò prepotentemente inducendolo a uno strozzato: «Maresciallo, le spiace venire?».

E quando ruggì come il leopardo di Ligabue13, nel silenzio si udì prima la voce remota di Manganello che diceva: «Ho quasi finito!», poi lo sfrigolio dello sguardo elettrico di Sevizia che cercava conferma nel mio e immobilizzava quello di Pottutto, accortosi troppo tardi di essere nel posto sbagliato, la sedia di metallo in cui stanno gli interrogati, al momento sbagliato, quando il finto pubblico ministero, cioè il sottoscritto, aveva convinto l’aguzzino a non distrarsi dalla trans agonistica.

Distolsi l’attenzione da quella scena raccapricciante.

La violenza non era mai stata il mio forte. Ma la perspicacia sì. Appena il bruto lo rovesciò a terra infilandogli il trapano in bocca, in punta dei piedi mi avvicinai alla porta. Me ne andai senza salutare per non rovinare il momento.

 

 

NOTE

– 1 Auguste Comte, Sistema di politica positiva, 1851.

– 2 Cristopher Lash, Contro la cultura di massa, 2007. Nel testo la sua frase è al singolare.

– 3 Aldo Leopold, Pensare come una montagna, Piano B edizioni, 1949.

– 4 P. Kropotkin, Voce Anarchismo in Encyclopaedia Britannica, 1905.

– 5 Emile Armand, Vivere l’anarchia, ivi.

– 6 E. Malatesta, L’anarchia. Il nostro programma, 2013.

– 7 I Jefferson, sitcom televisiva proiettata negli anni ’80.

– 8 Thomas Jefferson enuncia il suo principio in una lettera del 1776 a James Madison.

– 9 Z. Bauman, Voglia di comunità, 2001.

– 10 Tomaso Moro, Utopia. De optimo reipubblicae statu, 1516

– 11 Amedeo Bertolo, Anarchici e orgogliosi di esserlo, ivi.

– 12 Il Ministero della Guerra venne istituito da Cavour nel 1861. Dal 1947 è stato sostituito dal Ministero della Difesa.

– 13 Antonio Ligabue, 1899-1965, Il leopardo assalito da un serpente, 1955.

 

Immagine: John Martin, Pandemonium, 1841

Editing a cura di Costanza Ghezzi

CONTROCULTURA

Se mi chiedi per quale motivo a scuola non si leggono i testi dei filosofi anarchici, coloro che hanno scritto e si sono battuti per un mondo senza padroni, rispondo che dagli insegnanti a chi definisce i programmi scolastici sono persone stipendiate dall’ordine costituito. E in un regime fondato sul guadagno non c’è leva più efficace di un bonifico sicuro ogni fine mese.

Ẻ un po’ lo stesso motivo per cui i ragazzi arrivano al diploma che a mala pena hanno terminato il romanticismo. Al massimo, quando i professori sono lungimiranti, conoscono qualche autore verista. Meglio non alterare la suscettibilità del padrone educando allo Stato etico, tanto esaltato nell’ottocento, piuttosto che istruire sulle catastrofi umane, ambientali, sociali provocate dallo statocentrismo nel novecento.

La scuola è uno strumento con cui il Potere indottrina e seleziona. Ad esso non interessa che le persone siano consapevoli e autonome. Le vuole ignoranti e succubi sia fisicamente che, soprattutto, mentalmente per poterle manipolare e sfruttare. E così l’entusiasmo con cui i giovani lasciano i banchi si trasforma presto in consapevolezza di essere ingranaggi di una catena di montaggio. Con due effetti consequenziali: il primo è perdere l’autostima. Il secondo è tentare di ripristinarla accettando di diventare parte di quel sistema che ne deprava la personalità. E poiché non tutti hanno la capacità o l’opportunità di sviluppare questa seconda opzione, molti regrediscono alla prima crogiolandosi malinconicamente nell’inerzia.

 

L’anarchia propone molte alternative al sistema educativo tradizionale, tutte fondate sullo sviluppo dell’individualità. L’educatore è tale quando riesce a farla emergere, perché soltanto chi è consapevole di se stesso e dei propri mezzi può essere padrone del mondo. Curiosità, personalità, sperimentazione, integrazione, pluralismo, interdisciplina, capacità critica sono solo alcuni dei principi su cui si fonda il metodo antitetico alla manipolazione, all’omologazione, alla gerarchizzazione legittimati attraverso pratiche autoritarie e impositive. Affinché però la pedagogia libertaria possa diffondersi, occorre non solo si evolva fra le maglie del Potere, e ciò avviene grazie all’underground, ma che sia recepibile da soggetti non più suggestionabili o dominati dal sistema. E guardandosi intorno non sembra siano molti!

Tuttavia gli anarchici posseggono la parola e non temono il confronto personale. Sanno che se uno fissato con la trap ascolta Chopin, probabilmente si suicida. Ma sono convinti che se ha vicino chi lo introduce con passione alla musica dell’anima, deve essere alessitimico per non innamorasene!

Ecco perché, prima di invitare alla pratica anarchica, educano a diventare padroni di se stessi affrancandosi dalla schiavizzante vacuità. Non si è anarchici se non si è uomini liberi. E l’unico modo per essere liberi è disintossicarsi da ciò che narcotizza la volontà: il profitto. Intorno al quale vengono costruiti gli altri artifici mentali.

L’anarchia sarà sempre utopia finché l’uomo penserà e agirà in termini di tornaconto. Esso crea asservimento, provoca alienazione, favorisce la disintegrazione della personalità. Dopo tutto, se viene venduto come realizzazione del sé, non è per compensare il nulla che provoca?

 

Per evitare la terapia del dolore che appare come l’unica salvezza contro la devastazione imperante, l’anarchico invita a fermarsi e riflettere. Poi abbandonarsi all’istinto. La vita è una straordinaria opportunità. Bisogna smettere di partecipare al sistema che azzera l’individualità. E ciò avviene rinunciando all’artificiosità per vivere la naturalezza dell’esistenza. Siamo organismi biotici. E in quanto tali, ci perfezioniamo spontaneamente nella partecipazione ai processi del creato, cioè nella fibrillante connessione con le creature che lo animano. Il resto è eccedenza che distrae dall’obbiettivo primario di fondersi con l’ambiente e crea solo sofferenza.

Siamo natura che prende coscienza di sé, diceva Sorel. Occorre lasciarsi andare al suo divenire per trovare la propria identità. In termini pratici, rinunciare agli artifici del progresso mercantile, consumistico e predatorio, della logica del dominio in generale, per immergersi in essa operando attraverso relazioni empatiche coi suoi elementi e usufruendo dell’essenziale offerto in un’interdipendenza armonica in cui ciascuno è protagonista reale. Che non vuol dire spogliarsi degli averi per parlare agli uccelli come San Francesco. Sai quante cose interessanti può dire un lupo o un cinghiale, un nocciolo o una pianta d’origano, ad esempio?

Scherzi a parte, quando l’individuo vive senza profitto, immune da subordinazioni artificiali come la legge, la morale, le tradizioni e così via, e pratica un rapporto continuo col creato, coglie la propria essenza dalla connessione coi suoi elementi, dalla partecipazione alla sua evoluzione, dell’identificazione con le molteplicità e si rappresenta nella necessità attraverso cui il tutto si determina. Ed è allora, quando l’unità, la propria, diventa infinito, la natura, che l’estasi esplode in tutta la sua meraviglia. A questa felicità ambisce l’anarchico. Diversamente è solo una parodia che non fa ridere. E a noi piace tanto ridere!

 

Compiuto questo slancio etico, il libertario può dedicarsi alla costruzione di realtà autonome, autogestite e autogovernate che erodano l’ordine da cui si è estromesso e realizzino possibilità alternative. E con questo afflato, lo stesso che lo porta ad esaltarsi in quella meravigliosa attività che è l’inosservanza delle regole imposte, può diffondere la parola.

Ogni occasione è buona per manifestare i principi che lo guidano, raccontare le esperienze che lo vivificano, descrivere la gioia che provocano, trasmettere la conoscenza e il buonsenso in chi vive solo perché ha paura di morire. Non gli importa se viene considerato un folle o un divergente, se viene emarginato o punito. La consapevolezza di sé e la certezza di essere nel giusto, di cui si alimenta ingordamente, lo portano sempre a divulgare:

  1. Che il profitto è strumento di potere e il potere è il male assoluto perché si conquista e si mantiene con il raggiro, la manipolazione, la corruzione, il malaffare, la depravazione, l’intimidazione, eccetera e si conserva con la violenza.
  2. Che il profitto genera sofferenza sia perché non basta mai, sia perché per conseguirlo si rinuncia al sé e si sfrutta il prossimo, sia perché è sempre alienante, deumanizzante, umiliante, annichilente.
  3. Che negato razionalmente il profitto, il giudizio, il desiderio, l’utile e ogni forma di dominio legittimante (Stato, religione, legge, tradizioni, e così via) si diventa padroni di se stessi.
  4. Che il padrone di se stesso è capace di abbandonarsi all’istinto per identificarsi con le infinite molteplicità circostanti.
  5. Che l’identificazione è condivisione spontanea con le entità animate e inanimate compiuta attraverso la partecipazione alle dinamiche naturali, in una simbiosi in cui la personalità si sviluppa coscientemente e autonomamente secondo necessità.
  6. Che partecipare al creato è amore. Non la passione, il sentimento, la pietà, o altre emozioni transitorie, bensì la capacità di donarsi incessantemente ad esso, di proteggerlo, conservarlo, magnificarlo, in comunione con affini.
  7. Che unirsi all’ordine naturale per essere tutt’uno con esso è lo scopo della vita in quanto unica via per coglierne l’essenza e realizzare il sé.

 

Concludendo: l’anarchia prima di essere condotta pratica è una scelta etica che ridefinisce il rapporto col mondo, con gli altri e con se stessi. Non si è anarchici per interesse, ma perché si è compreso che per essere bisogna vivere senza di esso e “il più possibile con le leggi eterne della natura e della necessità”, come diceva Godwin.

Se a ciò si aggiunge che il libertario non sa esistere senza donarsi e che la parola è il mezzo prediletto per offrirsi al prossimo, si spiega il motivo per cui la sua azione non può prescindere dal diffondere il verbo anarchico. Almeno finché le forze glielo permettono. Quando non glielo permettono più, di solito non è per motivi fisici.

Immagine: Picasso, I tre musici, 1921

 

47 – COMUNITÀ: FEDERALISMO

47 – COMUNITÀ: FEDERALISMO

 

«A questo punto, se mi consente, spenderei due parole sul federalismo

«Perché?»

«Giusto per riempire i vuoti emotivi che ci separano!» ironizzai.

Pottutto sollevò un sopracciglio e con un sorriso bonario: «Magari un giorno rideremo di tutto questo!»

«Magari un giorno!» replicai.

«Già!» proferì fissando il vuoto come un depresso che ha finito il Prozac.

Manganello intuì e: «Dotto’, chiamo il bar per un aperitivo?». Rafforzò la proposta: «Magari con due stuzzichini, qualche schiacciatina, dei pezzettini di pizza…»

«Sempre a mangiare pensa lei?»

«Bisogna pur dare un senso alla vita!»

«Dicevo del federalismo… Intanto una precisazione: troppo spesso viene confuso col decentramento. Con quest’ultimo il potere trasferisce autorità a organi periferici che da lui dipendono. Il federalismo, invece, sviluppa un’organizzazione che parte dal basso esaltando il concetto di autonomia. L’anarchia è federalista perché non prevede la ripartizione di un potere centrale, ma si struttura in entità autonome e libere che si relazionano orizzontalmente. Come le persone sono sovrane e coesistono rispettando l’eguale libertà, le comunità sono entità dotate di propria funzionalità, regole, scopi, dinamiche, unicità. Al tempo stesso però, esattamente come i membri di un aggruppamento, agiscono in continua interconnessione favorendo lo sviluppo reciproco. Il meccanismo è il solito…»

«Lasciamo perdere la propaganda!»

«Non era mia intenzione!» dissi. «Sa com’è, però… Ricordo di aver letto una volta un bel libro su Pinelli in cui si diceva che quando incontrava qualcuno prima mostrava una targhetta con scritto io sono un anarchico, poi cominciava a discorrere di politica25… Abbiamo nel sangue l’educazione alla libertà!»

«Se lo tenga per Sevizia!» mugugnò Manganello.

«Cosa, l’insegnamento di Pinelli?» chiesi ingenuamente.

«Il sangue. Adora veder zampillare la vostra libertà!»

«Maresciallo non faccia l’arrogante!». Pottutto lo riprese. «Ma non mi aveva promesso di testare quel nuovo sistema a conduzione elettrica?» bisbigliò al suo orecchio.

Sviai con un sorrisetto accondiscendente: «Anche fra comunità si applica il principio del libero accordo. Vengono realizzati protocolli per ogni tipo di relazione: da quella commerciale a quella che, seppur impropriamente, potremmo definire giuridica, da quella culturale allo scambio di informazioni, dalla tutela alla difesa dal Mostro…»

«Di quali mostro parla?»

«Lo Stato, naturalmente!» dissi. «La rete di queste comunità dà vita alla Confederazione, che svolge principalmente funzione di garanzia e collegamento. Quando ad esempio una di esse viene scoperta, le altre intervengono in suo aiuto coordinate dall’Assemblea Confederale.»

«Quindi la confederazione comprende tutte le comunità?»

«In linea di massima sì, ma non necessariamente. L’adesione non è obbligatoria, anche se è fondamentale per la sopravvivenza, soprattutto finché c’è lo Stato.»

«E come le sceglie?»

«La Confederazione non sceglie. Sono le comunità che liberamente decidono di costituirla o di farne parte. Può essere organizzata, ad esempio, su base territoriale. Avete mai sentito parlare della Confederazione Valbisenzio che riunisce tutte le associazioni anarchiche della zona di Prato?»

«Spieghi un po’?»

«Non l’avete mai sentita perché non esiste!»

Non avrei dovuto, ma scoppiai a ridere.

«Non si prenda gioco di noi!»

«Vi prendo talmente sul serio che l’ho inventata!». Mi ricomposi: «Però è reale quello che ho detto e cioè che esistono confederazioni su base territoriale. Anche se la maggior parte sono costituite per affinità, per cui può capitare che aderiscano gruppi anche molto distanti fra loro.»

«E come fanno?» chiese il maresciallo.

«Come fanno cosa?»

«Se sono distanti, come si relazionano?»

«Ẻ un metodo infallibile. Non lascia tracce, non è intercettabile, non parla…»

«Me lo dice o non me lo dice?»

«Usiamo gli uccelli viaggiatori!» dissi.

«Uccelli viaggiatori?». Avvinazzò per lo stupore. «Corvi o piccioni?»

«La sta prendendo in giro!» intervenne Pottutto. E a me: «Suppongo quindi ci sia poi una sorta di Grande Confederazione che le riunisce tutte?»

«No. Non esiste una confederazione unica. Sarebbe impossibile assicurarne la funzionalità e, forse, si rischierebbe di creare una sovrastruttura accentratrice che altererebbe l’equilibrio» dissi. «Ogni Confederazione però è dotata di un’Assemblea che si ritrova periodicamente. È composta da un membro nominato da ciascuna comunità…». Mi fermai sperando in una loro reazione. «Ho appena detto un membro nominato… Non vi si è accesa la lampadina?»

Sventolai le mani davanti ai loro occhi come se dovessi rianimarli.

«Questo è uno dei pochi casi in cui i libertari non agiscono personalmente ma delegano». Mi sentivo quasi offeso da tanta indifferenza. «Convocare tutte le comunità sarebbe impossibile. E non solo per motivi logistici. Per cui, ogni volta che l’assemblea si riunisce, ciascuna nomina un rappresentante.»

«Mi perdoni, non avevo colto!» confessò Pottutto.

«Ciò è possibile perché non ha potere decisionale. Altrimenti…»

«Altrimenti non sarebbe possibile?» chiese.

«Bravo dottore!», lo incoraggiai. «Oltre a occuparsi della garanzia e del coordinamento fra le collettività che la compongono, l’Assemblea ha infatti il compito di relazionarsi con le omologhe in un confronto continuo. Ma soprattutto, assolve funzioni consultive fornendo pareri illustrativi, chiarificatori, orientativi.»

«Una specie di Corte Costituzionale!»

«Senza però che i loro membri guadagnino stipendi a sei cifre!» ironizzai. «E poi le loro deliberazioni non hanno forza vincolante.»

«E a cosa serve se non sono vincolanti?»

«Se l’avessero non sarebbero pareri. E se non fossero pareri si chiamerebbe Parlamento!»

«Ineccepibile!»

«La Confederazione non può interferire sulle scelte di una comunità. La sua competenza è meramente propulsiva, consultiva, di raccordo e coordinamento. Anche quando interviene, che so, per sanare una controversia fra associazioni, il suo responso è esimente visto che le decisioni devono essere deliberate espressamente dagli individui. In questo caso, infatti, se le parti litiganti non si conciliano, spetta alle altre comunità orientarle alla pace o suggerirne lo scioglimento… Perché quella faccia delusa?» chiesi. «Vi garantisco che senza la sua guida sarebbe impossibile svolgere l’azione di quotidiano logoramento necessario per la causa anarchica!»

«Di quale logoramento parla?»

«Sottrarre costantemente funzioni allo Stato, ovviamente!»

Pottutto non replicò subito: «E ce lo dice così?»

«Se vuole glielo dico in esperanto, che è la lingua che utilizziamo quando ci ritroviamo!» sdrammatizzai prima di concludere. «Se la comunità è l’essenza dell’autogestione anarchica, la Confederazione è il più importante propellente di cui disponiamo. E se vogliamo che sia priva di sovranità e i delegati svolgano funzioni non deliberative né decisorie, siano scelti a rotazione e incaricati con un mandato specifico non interpretabile né derogabile, nonché temporanei e non retribuiti, è per eludere i rischi di accentramento di potere, corruzione e parzialità, evitare cioè di replicare la perversione della vostra cleptocrazia democratica…»

«Non so cosa voglia dire cleptocrazia!» crocchiò Manganello.

«Perché democratica lo sa?».

 

NOTE

 

– 25 Licia Pinelli, Piero Scaramucci, Una storia quasi soltanto mia, Feltrinelli, 2009.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: M. C. Escher, La balconata, 1945

46 – COMUNITÀ: PARTECIPAZIONE DIRETTA

46 – COMUNITÀ: PARTECIPAZIONE DIRETTA – segue

 

«Presupposto fondamentale dell’autogestione è la partecipazione diretta: condivisione delle decisioni ed equa contribuzione alle attività comuni.»

«Il bene comune!» assentì Pottutto.

«Il bene che i membri del gruppo approvano e vogliono conseguire» assentii a mia volta. «E visto che non è lucrativo, le relazioni non sono gerarchiche, come invece avviene nella società del dominio. Nessuno prevale sull’altro e tutti collaborano per attuare i reciproci interessi, aspirazioni, potenzialità.»

«Ma che potenzialità possono avere se non c’è un guadagno?» mi interrogò il PM.

«Perché una persona si realizza solo se lavora per spendere denaro?»

«Quello fanno gli uomini!»

«Perché quello è stato insegnato. Perché quello hanno imparato a fare. Perché l’educazione, la morale, la legge, l’opinione pubblica sono paraocchi che oscurano la personalità.»

«Ma se il cavallo si spaventa io cado a terra!» brontolò Manganello.

«Ma noi non siamo il cavaliere, siamo il cavallo!» replicai. «Non credo che la morte dia molte altre possibilità . Per questo abbiamo il dovere di rendere la nostra esistenza un’opera d’arte. Ciò è plausibile soltanto se riusciamo ad emergere dall’abisso annichilente della materialità e ci immergiamo nella bellezza estatica dell’unità indifferenziata di cui facciamo parte. E, come diceva Benedetto Croce, l’arte non ha niente a che vedere con l’utile».

Pottutto osservava la pallina di pongo passare da una mano all’altra.

Manganello si scorticava un brufolo vicino alla narice.

Ripresi a parlare: «Affinché la logica del dominio non prevalga sulle buone intenzioni, occorre che le volontà si accordino. Lo stesso Proudhon asseriva che i reciproci interessi possono conciliarsi attraverso un sistema di contratti stipulati fra cittadini con i quali organizzare la società dal basso piuttosto che dall’alto21.  Accordi in cui sia garantito che non vi è Stato, da una parte o dall’altra, né ingannatore né ingannato né frodatore né frodato: in altre parole che ciascuno, durante il contratto, ha agito secondo il proprio determinismo e si è mostrato nella sua veste. Solo così possono svilupparsi rapporti di reciprocità fondati sulla solidarietà volontaria, socialità volontaria, reciprocità volontaria, garanzia volontaria22. L’eguale libertà è la base della convivenza anarchica e trova la sua massima espressione nella partecipazione diretta consensuale.»

«Quel tutti decidono tutto che diceva prima?»

«Quello!» ribadii. «La partecipazione diretta è un metodo che consente di arricchire l’individuo di quella razionalità, di quel senso di mutualità e giustizia, di quella vera libertà che assicura un cittadino capace e creativo. Consiste nella possibilità di ogni membro della comunità di decidere personalmente. Decide personalmente al momento della costituzione e dell’ingresso nel gruppo, decide personalmente gli obiettivi e i mezzi, decide personalmente le regole. Chiunque è attore di se stesso e protagonista della vita comune. Perché si è liberi quando si può scegliere il proprio destino, di cui si è responsabili per le scelte fatte. La determinazione condivisa, creando interdipendenza all’interno di una comunità solidale, è pertanto etica civica, come la chiamava Bookchin23, in cui la propria personalità si realizza attraverso la responsabilità verso la comunità».

Al mio perentorio: «Ma non basta!», Pottutto sobbalzò: «Potrebbe evitare questo tono, che mi mette ansia?»

Mi scusai.

«Ma ciò non è sufficiente» dissi più moderatamente. «Perché la partecipazione sia completa occorre che la deliberazione non sia maggioritaria. Ne ho già parlato: la maggioranza è sempre supremazia di qualcuno su qualcun altro, che deve adattarsi pena la sanzione o l’isolamento. La socialità, invece, si esalta quando non è competizione, ma armonia. Non è una gara in cui vince il più forte, ma condivisione di un progetto. Per questo la pronuncia deve essere unanime.»

«Si devono mettere tutti d’accordo?»

«Senza il consenso unitario non si decide» dissi. «Ciò può richiedere più tempo, discussioni più approfondite, anche confronti serrati, ma la sintesi deve essere condivisa e tutti devono sentirsi vincitori.»

«Non c’è bisogno le dica che è impossibile!»

«Anche l’anarchia sembra impossibile eppure, se la temete, significa che è già una possibilità. Sperimentare è nella nostra natura, sbagliare in quella umana. Una volta che si è consapevoli di questo, ogni fallimento è un successo.»

«Ma che sta dicendo?» miagolò il maresciallo al pubblico ministero.

«Fa il filosofo!», questi sussurrò.

«Non lo capisco!»

«Quello fanno i filosofi!»

«Se poi si avvera ciò che dicono, tutti a citarli però!», li sferzai. «E se non si raggiunge l’unanimità, la questione viene abbandonata o rivalutata in un secondo momento, senza fretta. Detto ciò, essa non è una regola assoluta. Ogni comunità è libera di gestirsi come vuole.»

«Ha già fatto marcia indietro!» sghignazzò Manganello.

«Se i filosofi fossero coraggiosi non parlerebbero!»

«Vi ho sentito!» dissi.

Mi alzai.

«Dove va?»

«Ad agire!». Mi avviai verso la porta: «Mi scusi agente, devo passare!» parlai alla Sfinge, che Sfinge era e Sfinge rimase.

«Si rimetta a sedere!»

«Ma è vivo questo?» domandai.

«Torni a sedere, le ho detto!» tuonò il PM.

Obbedii solo perché mi premeva concludere il concetto.

Un po’ anche perché Manganello stava chiamando Sevizia.

Ma non lo diedi a vedere.

«Può capitare che alcune comunità anarchiche decidano a maggioranza o con un sistema misto: magari ricorrendovi se non raggiungono l’unanimità dopo un certo numero di votazioni. Questo si chiama pluralismo. Presupposto indispensabile è però che sia espressamente accettato da tutti e che all’oppositore sia concesso di non rispettare la deliberazione purché non crei situazioni di privilegio o sfruttamento.»

«Tipo un anarchico dell’anarchia?»

«Ovvio che l’inosservanza deve limitarsi alla singola decisione, altrimenti sarebbe più sensato cambiasse comunità» specificai. «In ogni caso, far prevalere la volontà di qualcuno su qualcun altro in un consesso antiautoritario di sviluppo armonico del bene comune mi sembra una contraddizione. L’esperienza delle comuni, delle colonie, degli eco-villaggi, delle taz, di tutti i modelli di organizzazione non gerarchica ha infatti dimostrato che quando l’interesse personale coincide con quello del gruppo, la convergenza si realizza spontaneamente».

Dopo un ghigno riluttante: «Riflettevo su una cosa…» biascicò Pottutto grattandosi il mento.

«Già, riflettiamo!». Manganello si svegliò. E al PM: «Su cosa riflettiamo?»

«Mi parla di unanimità… Ma l’unanimità non è sinonimo di quell’omologazione che lei tanto disprezza?» concluse con un’espressione identica a quella ritratta nella Autosmorfia di Giacomo Balla24.

«Anche qui mi ripeto» dissi avvilito. «L’omologazione si ha quando la minoranza è obbligata a adattarsi alla volontà della maggioranza. Se invece gli individui discutono una questione e poi la approvano consensualmente, non si uniformano, scelgono» risposi. Subito aggiunsi: «La comunità non potrà mai essere reazionaria perché opera confrontandosi continuamente con le altre sia direttamente, sia attraverso la Confederazione, la cui funzione è proprio quella di fornire stimoli che tengano conto delle mutevoli esigenze sociali, condizioni economiche, pratiche quotidiane. Non è mai isolata, mai regressiva o conservatrice o oscurantista.»

«Sembra tutto così facile!» gorgogliò Manganello.

«Lo è!»

«Non credo!»

«Neanch’io. Per realizzare la propria personalità, bisogna possederne una!».

 

NOTE

 

– 21 P.J. Proudhon, Confessioni di un rivoluzionario, 1867.

– 22 E. Armand, L’iniziazione, ivi.

– 23 Murray Bookchin, Per una società ecologica, Eleuthera, 1976.

– 24 Giacomo Balla, Autosmorfia, olio su tela, 1900.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: H. Matisse, La conversazione, 1912

 

45 – COMUNITÀ: AUTOGESTIONE

45 – COMUNITÀ: AUTOGESTIONE – segue

 

«Splendido!» tuonò Pottutto dopo aver guardato l’orologio. «Sono le otto e venti e non sono andato al supermercato. Se torno a casa senza spesa, la senti mia moglie!»

«Il pachistano all’angolo è aperto h24!»

«Lasci stare il pachistano!»

«Può sempre regalarle una calamita!» farfugliò il maresciallo.

Dopo una sceneggiata di mani in testa, sbuffi e lamenti, il pubblico ministero alzò il telefono: «Pronto?… Agente Lameno, buonasera. Non è che avete arrestato qualcuno nel pomeriggio?». Tappando la cornetta si rivolse a noi: «Giusto per interrogarlo quelle tre quattro ore e rincasare quando dorme!». Di nuovo all’interlocutore: «Va bene un qualsiasi spacciatore, ladruncolo, chiunque… No? Ma è sicuro? Può verificare? Magari non ci ha fatto caso… Non si distrae mai?… E non s’incazzi, era solo un’ipotesi!… Non ho detto parolacce!… Anche lei si dia una calmata!». Riattaccò e fissò il maresciallo: «Ma li educate o li prendete direttamente così?». Poi guardò me: «Prego, diceva?»

«Stavo descrivendo gli elementi principali della comunità anarchica ed ero arrivato all’autogestione. Ne ho parlato prima, per cui non mi dilungherò. «L’autogestione è la capacità dell’individuo di pensare agire in autonomia e del gruppo di decidere, organizzarsi, pianificare, difendersi, senza l’ingerenza di una volontà esterna. In una parola: autogoverno. Non è una categoria politica, né il prodotto di una scienza politica. Non è universale, non ha pretese di imporre una propria soluzione per tutta la società. In maniera plurale e sperimentale procede sottraendo campi parziali, simbolici e reali, alla sfera del dominio. In questi spazi il politico è annullato dal sociale e in tal senso autogestione è sinonimo di autogoverno: sono entrambi categorie del sociale17. Autogovernandosi la comunità sottrae potere al Potere, cioè risorse economiche e umane di cui ha bisogno per la sua conservazione e il suo progresso. Il massimo!». E pacatamente: «L’individuo non ha bisogno di chi gli dice cosa fare. Nel momento in cui rifiuta l’autorità e il profitto, comprende la meschinità di ogni egoismo. Finalmente affrancato dalla perversione della materialità, si identifica nel tutto e pensa e agisce in funzione della sua armonia.»

«Le ho già detto che mi sembra molto teorico!»

«E io ripeto che invece è pratico perché l’equilibrio si rispetta quando ogni cosa assolve il suo scopo naturale. Le faccio un esempio fuor di contesto: i fiumi sono corsi d’acqua la cui funzione è plasmare l’ambiente portandola dalla sorgente al mare. Se edifico un mulino per sfruttare la sua energia, non ne altero l’essenza: esso continua a scorrere e io macino i cereali. Se invece realizzo un impianto idroelettrico per accendere la luce di casa, trasformo le acque correnti in acque ferme rallentando il tempo di ricambio. E in questo modo creo devastanti ricadute sui processi biologici e fisici dell’ecosistema.»

«Vabbè, allora stiamo tutti al buio per salvare gli uccelli!» proferì il maresciallo sarcastico.

«Quando lo scopo è vivere in armonia col mondo, l’individuo non ha bisogno di regole che disciplinano le sue azioni, né di delegare a chicchessia i propri interessi. Opera spontaneamente affinché essa sia mantenuta. Ecco perché Malatesta affermava, pur senza cogliere la portata universale del principio, che la parte essenziale della vita sociale si compie al di fuori dell’intervento governativo18

«Sbaglio o registro una nota polemica?» disse Pottutto provocatorio.

«Non faccia il polemico!», gli fece eco Manganello.

Non polemizzai: «Lo Stato è un artificio della società del dominio in quanto il più forte ha bisogno di istituzioni per conservare i privilegi, consolidare la propria autorità e legittimare gli arbitri. È una presenza che impone con la violenza e l’inganno il modello sociale più congeniale al suo utile. L’anarchia invece è partecipazione, cioè realizzazione della propria personalità contribuendo a un progetto comune in cui ciascuno è protagonista. Quando l’individuo obbedisce è ciò che altri vogliono sia. Quando costruisce è se stesso. E così deve essere perché lo scopo della vita è che la volontà esploda in tutta la sua potenza. E ciò può avvenire soltanto se si fonde alle molteplicità in una simbiosi che persegue la naturale armonia.»

«E pensa che gli uomini siano capaci di fare meglio dello Stato?»

«Di sicuro è meglio per se stessi!»

«Alla fine creerebbero solo istituzioni che lo riproducono!»

«No!» sbottai esasperato. «Perché cambiati gli antefatti, l’autogestione è confronto e decisionalità continua, orizzontale, e tendenzialmente consensuale, senza il bisogno di deleghe permanenti, di norme unificanti19. Nonché un adattamento incessante all’ambiente, alle esigenze, al divenire della vita stessa, che dimostra di essere flessibile, cioè in continua costruzione, passibile di modifiche e tentativi di miglioramento in corso d’opera, com’è proprio delle sperimentazioni, e consapevole che tale dinamica è necessaria per trovare soluzioni ed evitare la ricomparsa di meccanismi burocratici tipici delle istituzioni governative20. Solo quando l’individuo si determina, cioè si emancipa dalle pastoie dell’autoritarismo e condivide la propria autonomia attraverso rapporti personali improntati alla solidarietà, alla reciprocità e all’imprescindibile affinità col mondo circostante, può dirsi realmente libero. Solo nella comunità realizza pienamente se stesso

«Qualche esempio?»

«La Comune di Parigi del 1871, i Soviet ucraini machnovisti, le assemblee di villaggio durante la rivoluzione spagnola del 1936…»

«Perché non le prime congregazioni cristiane!» aggiunse sarcastico. «Torni al presente, per cortesia!»

«Vuole che le parli dello zapatismo e del Rojava?»

«Cos’è, uno yogurt?» grugnì il PM sprezzante. «Mi riferivo alle vostre!»

«Alle nostre?». Ridacchiai. «Diceva delle nostre!» sghignazzai battendo la mano sul tavolo. «Capito maresciallo, diceva delle nostre!». Quasi piangevo dalle risate. Smisi di ridere perché sembravano non apprezzare la mia ilarità.

«Ma se vi auto-governate, significa che nessuno governa. E se nessuno governa, chi governa?». Il PM per primo ruppe il silenzio.

«Dottore, gliel’avrò detto almeno un milione di volte!»

«Lo ripeta per Manganello!»

«Nella comunità anarchica non ci sono leader, né capi. Le decisioni sono prese personalmente, senza delega. Ogni volta si applica quello che Ward definisce principio della lavorazione composta. Presente i minatori?»

«Spiace ma non ne conosco!»

«Prima di entrare in miniera si dividono in gruppi, ciascuno dei quali stabilisce come procedere all’estrazione. Non c’è un capo che organizza il lavoro e non c’è nessuno che comandi all’interno del gruppo. Definita l’attività, ognuno sa cosa deve fare e lo fa nel migliore dei modi. Alla fine si dividono i proventi pro quota e non per mansione. In questo modo ciascuno è responsabile della propria azione e ciascuno ha interesse che il compagno realizzi al meglio il suo servizio. Personalità e solidarietà: questa è anarchia

«Mi piace il paragone fra gli anarchici e i minatori!». Manganello gorgogliò.

«Suggestivo, vero?»

«È dove vi metterei tutti… in miniera intendo. E poi puff!» concluse disegnando con le mani un’esplosione.

 

NOTE

– 17 Guido Candela e Antonio Senta, La pratica dell’autogestione, 2017.

– 18 Errico Malatesta, Anarchia, ivi.

– 19 Guido Candela e Antonio Senta, La pratica dell’autogestione, ivi.

– 20 EZLN Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale, Il pensiero critico di fronte all’idra capitalista, 2015.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: Mark Kostabi, Love, 1921

 

44 – COMUNITÀ: TEMPORANEITÀ E DIMENSIONI

44 – COMUNITÀ: TEMPORANEITÀ E DIMENSIONI

 

«Volontarietà significa che ciascuno è libero di costituire, entrare o uscire dalla comunità. La funzionalità è l’obiettivo che essa persegue. Una volta conseguito, o quando non è più conveniente, niente deve però impedire che l’accordo possa essere sciolto collegialmente o unilateralmente.»

«Tipo se scelgo una comunità che mangia la bistecca e poi divento improvvisamente vegetariano posso…?» guaiolò Manganello.

«Esattamente!» esclamai.

«Non accadrebbe mai. Odio le verdure!» replicò risoluto. «Ricordo che mia nonna era fissata con i broccoli e io…»

«Maresciallo, non ci interessano i broccoli di sua nonna!». Il pubblico ministero lo interruppe. E a me: «Prosegua!»

«Questa si chiama temporaneità. Da un lato favorisce la necessaria dinamicità del gruppo, evita infatti derive autarchiche o pericolose chiusure in sé, dall’altro impedisce quella concentrazione e cristallizzazione di potere che immancabilmente si sviluppa in un rapporto stabile.»

«Ma se la comunità è costituita da un numero limitato di persone, non è chiusa per definizione?». Pottutto rifletté a voce alta.

«Non quanto la società globalizzata in cui chi devia dal pensiero unico viene marginalizzato» rilevai. «È vero che riunisce persone che pensano e agiscono allo stesso modo, ma le continue relazioni fra comunità anche molto diverse fra loro e il federalismo garantiscono pluralismo e progresso. Inoltre le dinamiche di ogni aggruppamento sono inevitabilmente soggette a trasformazioni dovute all’uscita e all’ingresso dei membri che consente di rinnovare gli scopi e cambiare i mezzi, quindi di evolvere i legami di forza creatisi all’interno. Per non considerare questi ultimi che…»

«Non la seguo!»

«Non mi sono mai mosso di qui!» ironizzai. «Immaginiamo che alcuni falegnami che lavorano insieme ricevano la commessa di realizzare l’arredamento di una scuola. Pur operando in un confronto paritario, è probabile che l’esperienza di chi ha sempre creato banchi o armadietti influenzi le strategie comuni. Si verifica così una situazione simile a quella descritta da Jo Freeman con la teoria dell’assenza di struttura, per cui se un gruppo non possiede strutture gerarchiche formali, esse vengono sostituite da quelle informali, creando così un’egemonia di fatto13. Se dopo, però, gli stessi falegnami venissero incaricati di arredare le abitazioni di un quartiere residenziale, cambierebbero i fini, i mezzi e, di conseguenza, anche le competenze. Probabile, infatti, che l’opinione di chi è esperto di arredamenti domestici prevarrebbe su quella di chi ha sempre costruito banchi. Oltre gli agenti esterni e la mobilità interna, anche la dinamicità degli obiettivi impedisce pertanto l’instaurarsi di gerarchie o le armonizza.»

«Dimentica che c’è sempre chi vuole prevalere sugli altri!». Pottutto non si diede per vinto.

«Ci può essere chi ha più carisma, chi ha un’idea migliore e così via, ma quando non si è condizionati dall’antagonistico interesse e l’obiettivo è comune, le decisioni sono naturalmente armoniche. In caso contrario, il falegname può sempre uscire dal gruppo e costituirne uno proprio.»

«E così perde la commessa!»

«Ne avrà altre e sarà contento lo stesso!» dissi. E con una certa esasperazione: «La sua obbiezione parte da un presupposto sbagliato e cioè dal concepire il lavoro come strumento di profitto, anziché di realizzazione del sé. In quest’ottica il falegname sarebbe interessato alle scelte collettive quando gli procurano un guadagno, che perderebbe uscendo dal gruppo. Ma se una società libertaria ragionasse in questo modo, se cioè pensiero e azione fossero determinati dall’utile, nel breve replicherebbe quella del dominio, fallendo i suoi propositi. L’anarchico rifiuta il profitto perché sa che l’accumulazione lo aliena dalla vita. Soddisfatto il minimo necessario, e quando lo realizza il singolo lo realizza l’insieme, il lavoro diventa un’attività conviviale, non necessaria né lucrativa.»

«Si divertirebbe di più se andasse a giocare a bocce!»

«Nessuno glielo impedirebbe. Se però sceglie di lavorare, lo fa perché stimolato dal piacere di realizzare l’interesse comune, non quello personale.»

«E se tutti andassero a giocare a bocce?»

«Probabilmente quella comunità avrebbe ottime possibilità di vincere le olimpiadi di bocce. Ma questo non accade perché la condivisione è un’attitudine innata nell’essere umano che, in assenza di tornaconto, si manifesta spontaneamente tanto nelle attività ludiche quanto in quelle più onerose.»

«Non mi convince… E comunque il più forte prevarrebbe sempre!» perseverò il PM.

«Perché dovrebbe farlo se ha volontariamente scelto di unirsi ad altre persone e con esse ha stabilito cosa fare e come farlo?»

«Perché è nella natura umana!»

«Il dominio è un fenomeno naturale solo per chi possiede i mezzi per dominare. Gli altri ne subiscono la soggezione o lo accettano per indottrinamento. L’anarchico è puro e sa che l’interesse personale coincide con quello degli affini. Non può essere felice se anche gli altri non lo sono! Per questo i refrattari si uniscono. E, una volta uniti, che senso avrebbe disattendere accordi definiti volontariamente?»

«Perché magari non soddisfano più il suo interesse!»

«Allora non capisce!» sbottai. «Lei ha capito?» guardai il maresciallo.

«Chi, io?» replicò nascondendosi sotto la ciccia delle guance.

«Ci sono!». Pottutto s’illuminò. «Mi sta dicendo che, rinunciando al profitto, gli anarchici non hanno interesse a inculare gli altri?»

«Magari con un linguaggio meno scurrile, ma sono ore che lo affermo!»

«E siccome del guadagno non gliene frega niente e credono che la società impedisca la libertà, si mettono d’accordo…?»

«Precisamente!»

«E lo fanno con un contratto.»

«Discusso, approvato e sottoscritto.»

«E ogni volta che cambiano c’è un altro accordo e quindi un altro contratto?»

«Proprio così!»

«Ora è tutto chiaro!». Il suo sguardo raggiante divenne improvvisamente pensieroso: «Mi perdoni, ma quanto spendono di notaio?»

++++

«La comunità deve essere anche di piccole dimensioni. Pochi membri che agiscono più o meno territorialmente» dissi.

«Come una tribù?»

«Come una tribù!» confermai. «La territorialità semplifica le cose, non è però esclusa la partecipazione esterna.»

«In che senso?»

«Nel senso che per essere membri di una comunità non occorre vivere nel solito posto.  Posso risiedere a Napoli e appartenere a una comunità che opera a Prato. L’importante è che partecipi alle sue attività.»

«Accidenti Dopraho, tutti i giorni avanti e indietro, non vorrei essere la sua auto!» improvvisò Manganello.

«Suvvia maresciallo, se prima ha detto che non ce l’ha, significa che va a piedi!», lo corresse Pottutto.

Sospirai rassegnato.

«Quattro i motivi principali per cui una comunità deve essere di piccole dimensioni. In primo luogo perché è più semplice organizzarsi. Dalla partecipazione diretta, ovvero la discussione e la deliberazione delle decisioni comuni, all’autogestione, cioè la disciplina delle attività condivise, alla difesa dalle aggressioni esterne e così via. In secondo luogo perché si evitano pericolose concentrazioni di potere. La massa si divide sempre in fazioni che hanno un interesse divergente rispetto a quello generale. Ciò provoca contrasti o prevaricazioni, non sempre sanabili con il dialogo. Terzo motivo consiste nel fatto che più piccola è la comunità, più facile è che possa agire nell’ombra.»

«La clandestinità?» precisò Manganello come se volesse riscattarsi.

«Esattamente quella… Però adesso basta ripeterlo ogni volta!» dissi. «Sorgendo in un sistema repressivo, la sua conservazione è sempre a rischio. Deve operare eludendo continuamente i controlli e le inibizioni e, se del caso, deve essere pronta alla fuga trasferendosi altrove o ricostituendosi sotto altre vesti. Il quarto motivo, che forse è più un corollario dei primi due, consiste nel fatto che in una comunità di piccole dimensioni il singolo ha maggiore possibilità di realizzarsi. Come dice Cathy Levine, nel suo La Tirannia della Tirannia: il piccolo gruppo si avvale al meglio dei diversi contributi di ciascuno, alimentando e sviluppando gli apporti individuali, invece di disperderli nello spirito competitivo di sopravvivenza perché ognuno è personalmente coinvolto e piuttosto che cercare di ignorare e annientare le differenze personali, come avviene nella società della competizione, impara a valorizzarle e utilizzarle, rafforzando così il potere personale di ogni individuo14. Levine usava queste argomentazioni in opposizione alla tesi della Freeman, ma la loro correttezza è empirica: nella moltitudine la personalità scompare, viene sopraffatta o si assuefà, mentre nella minoranza la partecipazione non può essere né impedita né elusa. Il faccia a faccia diventa dialettica necessaria finalizzata a creare quella micropolitica che imbriglia lo Stato come i Lillipuziani hanno fatto con Gulliver15» chiosai.

Al che Manganello: «E quanto dovrebbe essere grande questa comunità?» chiese. «Così?», posizionando le mani simmetricamente davanti al corpo come se tenesse un pallone da calcio. «O così?», allargandole come se sollevasse un armadio.

Guardai il pubblico ministero sperando nella sua comprensione.

«Non esiste una regola generale quando si parla di anarchia. Dipende dall’ambiente, dagli scopi, dai soggetti, da tutto ciò che può condizionarne la scelta» dissi. «Si procede esperimento dopo esperimento, prova dopo prova, fallimento dopo fallimento. Ogni caso è un caso a sé. Hakim Bay diceva infatti che gli anarchici sono guerriglieri nomadi che praticano la razzia, sono corsari, sono virus, hanno sia il bisogno che il desiderio delle taz, degli accampamenti di tende nere sotto le stelle del deserto, delle interzone, delle nascoste oasi fortificate lungo segrete piste carovaniere, dei tratti liberati di giungla e della badland, delle aree proibite, dei mercati neri e del bazar sotterranei16…»

«Mi perdoni». Pottutto mi interruppe. «Ma questo suo amico per caso è un alcolista? Lo chiedo così, solo per curiosità!»

«Ma no, gli piaceva giocare con le immagini!»

«Anche a me ha fatto venire in mente Ciuccia, sa?» ragliò Manganello.

«Sarebbe?» chiesi.

«Un ubriacone che abbiamo disintossicato qualche giorno fa!»

«E ora sta bene?»

«Alla grande. Ha raggiunto la pace eterna!».

 

 

NOTE

– 13 Jo Freeman, La tirannia dell’assenza di struttura, 1970.

– 14 Cathy Levine, The Tyranny of Tyranny, 1974.

– 15 Il paragone si trova in: M. Onfray, Il post-anarchismo spiegato a mia nonna, ivi.

– 16 Hakim Bey, Taz zona autonoma temporanea, ivi.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: Henri De Tolouse Lautrec, il bacio a letto, 1892