Così disse Urtubia….

Mi è sempre stato detto che col tempo le persone diventano più conservatrici, che tutta la mia ribellione si sarebbe attenuata man mano che crescessi, come se questo fosse il senso della vita stessa. Ma nel mio caso, il tempo è finito per togliere la ragione a tutta questa banda di noiosi, accomodati, docili, conformisti e arroganti ciarlatani. Il tempo, con l’esperienza che ne deriva, l’unica cosa che è riuscito a convincermi sempre più della necessità di idee anarchiche e insegnarmi la coerenza, la realtà e l’utilità palpabile dell’anarchismo nella vita quotidiana. E più vivo e più conosco, con tutto lo spirito critico che mi ha sempre accompagnato, più lo vedo chiaramente.

-Lucio Urtubia Jimenez-

da ANTOLOGIA DI SPOON RIVER

Tratta dall’Antologia di Spoon River, libro che Pinelli aveva regalato al commissario Calabresi qualche giorno prima di morire in questura.

Che è peraltro l’epitaffio sulla sua tomba.

 

 

La macchina del Clarion di Spoon River fu distrutta

Ed io spalmato di pece e coperto di penne,

per aver pubblicato questo il giorno in cui gli Anarchici

vennero impiccati a Chicago:

 

Vidi una donna bellissima con gli occhi bendati

eretta sui gradini di un tempio di marmo.

Grandi moltitudini passavano davanti a lei,

sollevando la faccia ad implorarla.

Nella mano sinistra teneva una spada.

Brandiva quella spada, colpendo a volte un bimbo, a volte un operaio,

ora una donna che tentava sottrarsi, ora un folle.

Nella destra teneva una bilancia;

nella bilancia venivano gettati pezzi d’oro

da quelli che schivavano i colpi della spada.

Un uomo con la toga nera lesse un manoscritto:

“ella non rispetta gli uomini”.

Poi un giovanotto col berretto rosso

Balzò al suo fianco e le strappò la benda.

Ed ecco, le ciglia erano corrose

Dalle palpebre imputridite;

le pupille bruciate da un muco latteo;

la follia di un’anima morente

le era scritta sul volto.

Ma la moltitudine vide perché portava la benda.”

 

32- LA PENA

 

«Ricapitolando: lo Stato esercita il suo potere con la legge, e la polizia mantiene l’ordine. Dopo l’arresto però si pone il problema di cosa fare…»

«C’è la pena!»

«Appunto. Questo è il problema!». Spiegai: «La pena, e con essa non intendo solo la sanzione ma anche la misura cautelare che spesso ingiustamente e arbitrariamente la anticipa, e più in generale tutto il sistema giudiziario, non è altro che uno strumento di controllo e riequilibrio sociale attraverso il quale il Potere toglie di mezzo chiunque possa minarne la conservazione». Aggiunsi: «La pena è schiavitù legalizzata, fondata sulla inaccettabile laicizzazione del rapporto peccatore-sanzione. Processi ed esecuzione rappresentano il momento in cui si realizza nella maniera più sfacciata e arrogante la supremazia sull’uomo, defraudandolo del corpo e della mente. L’anarchia afferma invece che nessuno debba essere investito del potere di vita o di morte, poiché chiunque abbia un’autorità nelle proprie mani tiranneggia gli altri1. E, peraltro, siccome quell’investitura viene imposta, processi, pene, e sentenze sono sempre ingiusti».

«Ma le sentenze vanno sempre rispettate!» irruppe il PM.

«Sempre!» lo sostenne Manganello.

«E le verdure d’una volta avevano tutto un altro sapore!» replicai con un’altra frase fatta. «Come nessuno ha delegato i politici a decidere per noi, nessuno ha autorizzato i magistrati a giudicare. Entrambi sono strumenti di quella finzione chiamata Stato. Immorale non è violare la legge e fuggire la pena, ma accettare passivamente che lo Stato denigri, mortifichi, annienti l’individuo. Collaborare col male è peggio del male stesso! Afferma F.A Lange: il nome Leviatano è anche troppo appropriato per questo mostro, lo Stato, che senza nessuna superiore considerazione ordina come un dio terrestre a suo piacere la legge e la giustizia, i diritti e la proprietà, definisce perfino a suo arbitrio i concetti di bene e di male, assicurando in cambio la protezione della vita e della proprietà di chi gli si prostra dinnanzi e sacrifica al suo potere2…»

«Ma sì, facciamoci giustizia da soli!» si burlò il pubblico ministero.

«Non ho detto questo!»

«Ma l’ha pensato!»

«Neanche un po’!» dissi con una smorfia di disapprovazione. «L’autonomia è responsabilità. Gli individui devono partecipare direttamente alla costituzione e allo sviluppo della comunità, ovvero definire in maniera condivisa su quali principi essa si forgia, su quali dinamiche economiche si sviluppa, come organizzare l’autogestione, compresa l’individuazione delle condotte antisociali e i conseguenti rimedi. E la decisione non può che avvenire attraverso liberi accordi definiti collegialmente mediante decisioni consensuali» dissi. «Sugli accordi tornerò dopo. Quanto invece alla pena, condivido le parole di Alexandr Berkman quando confrontava le società primitive, in cui è opinione comune che l’individuo si facesse giustizia da solo, con quelle così dette civili, in cui si delega lo Stato a farlo al suo posto. Tale delega crea di fatto solo un’altra forma di vendetta, in cui lo Stato è il solo vendicatore legittimo della collettività. Ma si tratta sempre e chiaramente dello stesso spirito barbaro sotto altre spoglie3. Di fatto lo Stato è un vendicatore che trova giustificazione nella weberiana legittimazione legale-razionale fornita dall’ordinamento giuridico. Che è un po’ quello che prima ha detto lei», mi rivolsi al PM, «quando ha affermato che si deve obbedire alla legge perché lo dice la legge. In altre parole, lo Stato ci prende per imbecilli!»

«Ineccepibile!» tuonò Manganello.

«Che prima l’abbia detto il pubblico ministero?» chiesi.

«No, che siate imbecilli!»

++++

«Il sistema punitivo fa acqua da tutte le parti. Lasciando perdere le ovvie considerazioni sulle infami condizioni di vita a cui sono sottoposti i detenuti, che solo chi è in malafede o particolarmente crudele può ignorare, la pena non realizza nessuna delle funzioni per le quali viene applicata. A partire dalla funzione retributiva, chirale al principio della vendetta. Affermando che il libero arbitrio consente di scegliere fra il bene e il male, chi sceglie il male deve essere punito. Niente di nuovo: le religioni parlano così da sempre…»

«Chi sbaglia paga!» disse tronfio Pottutto.

«Paga chi? Se le rubo il portafoglio, la questione è fra me e lei. Se uccido una persona, la questione è fra me e i suoi parenti. Ogni vicenda umana ha implicazioni circoscritte agli interessi coinvolti.»

«Non sia grottesco. Sa che lo Stato è garanzia di imparzialità!»

«Tutt’altro. L’interesse della collettività è sempre e soltanto l’armonia sociale, che si ottiene unicamente attraverso la riconciliazione. Lo Stato, invece, essendo una suggestione che ha bisogno di consenso per alimentarsi segue l’umore sociale plagiato dal sistema e le proprie necessità conservative. C’è molta più civiltà nelle assemblee pubbliche inter-clan adottate dalle società policefale che nei nostri tribunali!5».

++++

«Altra funzione della pena è la così detta prevenzione. Si dice che l’obiettivo sia evitare che il reo compia nuovi reati, prevenzione speciale, ma anche che agli altri non venga lo sghiribizzo di imitarlo, prevenzione generale. In altri termini, si minaccia una sanzione quale conseguenza di una determinata condotta affinché nessuno la compia. Interessante questa analogia fra l’animale e l’individuo, non vi pare? E comunque se il principio fosse corretto, dato che viviamo in un epoca di iperproduzione normativa che disciplina ogni aspetto della vita umana, non ci dovrebbero essere reati. Invece la criminalità delle società civili aumenta esponenzialmente in quanto la deterrenza inibisce il vigliacco, non l’affamato, né tantomeno il disturbato. La funzione preventiva è quindi fumo sparato negli occhi. I delitti, compresi quelli per bisogno e patologici, si prevengono eliminando il dominio, la proprietà, il profitto, l’accumulazione, garantendo il minimo necessario concordato e soprattutto consentendo a ognuno di decidere responsabilmente. In una società i cui membri hanno scelto di essere liberi ed eguali non c’è interesse a delinquere

«Nel mondo dei sogni potrei anche essere Brad Pitt!» disse Manganello.

Pottutto e io lo guardammo e contemporaneamente ci scappò una risata.

++++

«La terza funzione è quella rieducativa, cioè la pena e le misure alternative devono educare il delinquente a reinserirsi nella società una volta scontata la sanzione.»

«Almeno su questo spero non abbia niente da ridire!»

«Assolutamente!» convenni. «Il principio è sacrosanto… Pure molto realistico!» ironizzai. «Le carceri sono posti noti per la loro accoglienza, la sensibilità dei loro operatori, le possibilità che offrono». Cambiai tono: «Le prigioni sono niente più e niente meno che lager in cui le persone vengono mandate a morire. E poiché ai carcerati non è concesso il rispetto dovuto a un essere umano, dice Kropotkin, in quei luoghi subiscono umiliazioni, violenze, torture, abusi, degradazione, giorno dopo giorno un processo di disumanizzazione al cui confronto la vendetta dei selvaggi è un gioco aggiunge Emma Goldman. Le prigioni sono monumenti alla ipocrisia e alla viltà degli uomini, decreta ancora il filosofo russo, auspicando che il primo compito della rivoluzione sia la loro abolizione. Perché, spiega: cosa possiamo fare per perfezionare il sistema penale? Niente. È impossibile perfezionare una prigione. Con l’eccezione di pochi trascurabili cambiamenti, non vi è altro da fare che distruggerla. E prosegue: Chi metterà sul piatto della bilancia da una parte i benefici attribuiti alla legge e alla punizione e dall’altra l’effetto degradante che quest’ultima ha sull’umanità; chi valuterà il torrente di depravazione riversato nella società umana dal delatore, favorito addirittura dal giudice e pagato in moneta sonante dai governi, con il pretesto che aiuta a smascherare il crimine; chi varcherà i muri di una prigione e lì vedrà come diventano gli esseri umani quando sono privati della libertà, quando sono sottoposti alla custodia di guardiani brutali, a un linguaggio volgare e crudele, a migliaia di umiliazioni concenti e strazianti, sarà d’accordo con noi sul fatto che l’intero apparato carcerario e punitivo è un’egemonia che dovrebbe essere abolita». Dopo una veloce pausa: «Benché queste considerazioni siano di oltre un secolo fa, la situazione oggi non è cambiata. Le carceri erano e saranno sempre una università del crimine!5»

«Facile criticare come fa lei» Pottutto eccepì risentito. «Sono proprio curioso di sapere come vi comportate voi anarchici!»

«Davvero le interessa?»

«Certo che no!».

++++

«La pena è un male necessario!» Pottutto ruggì convinto.

«”La grazia dell’orrore” direbbe il simbolista Baudelaire» rilevai sarcastico.

«Ẻ quello che ha inventato l’orribile A cerchiata?»

«Simbolista non nel senso che…» Lasciai perdere. «Lo Stato ci chiama cittadini ma ci tratta da sudditi. E lo fa avvalendosi delle Costituzioni e dei codici con cui si autolegittima in quanto è il “fine universale in sé per sé”, così Hegel lo definiva. Non fosse che quando una cosa è giusta a priori, è più facile smascherarne l’ingiustizia!»

«Cos’è uno scioglilingua?»

«Lo Stato è una finzione. Un manipolo di ricchi tira una linea su una cartina geografica, si dà un governo e impone a tutti le sue decisioni. Ecco perché la “nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà, ed un pensiero ribelle in cor ci sta”, cantava Pietro Gori4».

«La sola cosa che canta è questa!» Pottutto sventolò il capo di imputazione.

«Dice?»

«Dico. Dico!»

«Ma “se le leggi son”, dando quindi per assunto che siano inevitabili, il problema non sono loro bensì “chi pon mano ad esse”, afferma il poeta7. La legge è giusta se emanata da un’autorità legittima. Nel caso in cui non lo sia, cioè se proviene da un’autorità usurpatrice, è giusto invece opporsi. In una tirannia il capo, il re, il dux, chiunque sia, si auto-conferisce tale potere. L’illegittimità è così palese che molti dittatori la nascondono dietro l’intercessione divina, la giustizia assoluta, il bene universale o altre follie. La democrazia invece è fondata sull’assunto che il popolo conferisce al governo il potere di agire per suo conto…» Mi prendo qualche secondo. «Sa che non ricordo di aver mai delegato lo Stato a decidere per me? Ho provato a guardare nei miei appunti, a cercare nei miei diari, ma… Lei ricorda quando ha prestato il suo? E non citi il voto perché le ho già spiegato che è una finzione! La democrazia stessa è un raggiro a cui ci hanno educati a non avere alternative. Come ogni regime che sottrae agli individui il potere di autoderminarsi, nessuno l’ha scelta o confermata. Si è appropriata dell’autorità di governare, di giudicare, di obbligare come avrebbe fatto un qualsiasi usurpatore. La sua autorità è pertanto illegittima. E se è illegittima, anche le sue disposizioni lo sono e quindi…»

«A quanto pare però alla gente va bene così!»

«Alla gente va bene qualsiasi cosa pur di non pensare!» replicai risoluto. «Ma la gente non è tutti. Può essere maggioranza, ma rimane sempre la minoranza che non si fa irretire dall’inganno, né si sgomenta per le conseguenze della trasgressione».

«La metta come vuole. Chi non rispetta la legge è un delinquente!»

Non cado nella provocazione: «Nel momento in cui si rinuncia al profitto, le relazioni sono spontaneamente armoniche e di quello non c’è bisogno!» Indicai il codice. «Immagini una società senza dominio, senza proprietà, senza “teorie della disperazione”8, dove l’interesse personale si realizza attraverso la solidarietà e la reciprocità. Senza tornaconto, la punizione, la prevenzione, ma anche la rieducazione non hanno senso. Tutt’al più l’eventuale sanzione avrebbe lo scopo di riequilibrare e garantire la pace sociale. Le torna?» Con un’occhiata lo sollecitai ad aprirlo. «Lasciamo perdere il primo libro dei reati in generale. Concetti come la consumazione, le circostanze, l’imputabilità e altri sono principi di valenza universale che adesso non abbiamo tempo di esaminare».

Il PM scorse le pagine.

«Per cominciare eliminiamo le sanzioni civili e le misure di sicurezza. La definizione di pericolosità sociale è affare da manipolatori mentali e noi non conformiamo l’individuo all’interesse dominante… E così vanno via già una sessantina di articoli!»

Attesi che il PM passasse al “Libro II” del codice penale.

«In una società anarchica sarebbe altresì un controsenso parlare di delitti contro la personalità dello Stato, contro la pubblica amministrazione, contro l’amministrazione della giustizia… Figuriamoci il contro il sentimento religioso e l’ordine pubblico. Le pare?… Via altri duecentrenta articoli!»

«Sui delitti contro la fede pubblica non vorrà…?»

«Se ne potrebbe lasciare un paio sul falso materiale e sul falso ideologico. Si tratta di eventi alquanto improbabili in un contesto che rifiuta il profitto, ma non voglio sembrare radicale!»

«Mi sembra giusto!»

«Quindi via altri quarantacinque articoli!» precisai. «Sui delitti contro l’economia pubblica l’industria e il commercio… mi faccia un po’ vedere?»

Il PM girò il codice in maniera che potessi leggere.

«Distruzione di materie prime, diffusione di una malattia delle piante, rialzo e ribasso dei prezzi, manovre speculative su merci, serrata e sciopero per fini contrattuali e non», continuai a sfogliare: «E ancora serrata, boicottaggio… Via tutti perché non abbiamo economia! E sono altri trenta articoli circa».

«Sui delitti contro la moralità pubblica e il buon costume…?» mi interruppe il maresciallo.

«In un mondo di puttane, figurati se non posso andare a puttane!» esclamai divertito. «Quanto ai delitti contro la sanità di stirpe… beh, almeno hanno avuto il buon gusto di abolirli da soli!»

«Dei delitti contro la famiglia?»

«Via!»

«Delitti contro la persona?»

«Lasciamoli, dai. Non posso abrogare il codice intero!» Ci ripensai: «Quanti articoli sono?»

«Una quarantina!»

«Magari li sintetizziamo per garantire il diritto alla vita, all’incolumità e alla dignità personale!»

«Rimangono i delitti contro il patrimonio e le contravvenzioni».

«Proteggere la proprietà in una società senza proprietà non mi pare una cosa sensata. Quanto ai secondi, credo che anche il buon Rocco non ci credesse granché visto che li ha relegati in fondo al codice come banali contravvenzioni. Via!»

«Ma così non ci rimane nulla!»

«E non abbiamo sotto mano il codice di procedura penale!»

«Perché anche quello…?»

Mi lasciai andare a un’espressione meditabonda.

«Che c’è?»

«Stavo pensando…»

«Dica!»

«Pensavo… Visto che ormai il codice penale non esiste più, non è che… Sì, insomma, mi chiedevo se non sarebbe più giusto che io… Posso andare?»

Era giusto almeno provarci.

+++++

«Gli anarchici più volte si sono interrogati su come sarebbe la pena nell’ipotetica società senza Stato e hanno offerto una molteplicità di soluzioni che, a mio giudizio, lasciano il tempo che trovano. D’altronde se a uno scienziato chiedete come sarà il mondo fra cinquanta o cento anni gira i tacchi e se ne va dandovi dei babbei perché troppe sono le incognite che impediscono di fornire proposte certe sulla società futura. L’avvenire è la sola trascendenza degli uomini senza Dio, diceva acutamente Camus e infatti…»

«Kamut come la farina?» chiese Manganello.

Lasciai perdere: «Per Emile Armand si può fare a meno di quel marchio della violenza, sotto una forma più o meno dissimulata, sotto un appellativo più o meno ipocrita, ma implicante comunque l’impiego della coercizione che è la sanzione, grazie alla esistenza di una mentalità comune, d’uno stato d’animo generale e particolare che induca il trasgressore a riconoscere volontariamente, da se stesso, la sua trasgressione e si infligga di sua spontanea volontà la punizione6».

Qualche secondo di silenzio perché assimilassero quella che sembrava più una provocazione.

«Ammetto che estrapolata dal contesto appaia una soluzione surreale. Però è più concreta di quanto si creda. Trova, infatti, riscontro in numerose comunità orizzontali il cui obiettivo non è sanzionare il reo ma reinserirlo nella comunità. Riconciliarlo con essa e con le parti danneggiate attraverso il riconoscimento della propria colpa e la richiesta di perdono. Un perdono condiviso che ne favorisce la riabilitazione.»

«Una roba tipo i pentiti?» domandò Pottutto.

«Ma qui il pentimento è sincero!» specificai. «A parte questo originale punto di vista, nel mondo anarchico prevale il concetto di sanzione diffusa. Proposta da Godwin, essa consiste nella mera disapprovazione esercitata dall’opinione pubblica. Dice il filosofo inglese che, in un contesto localizzato, ogni individuo si troverebbe in continuazione sottoposto al giudizio di tutti; e la disapprovazione dei suoi vicini, questa specie di forza coercitiva non derivata dai capricci degli uomini, ma dalla stessa forma dell’universo, lo spingerebbe inevitabilmente a correggersi, oppure a fare le valigie… Maresciallo, non c’è bisogno che scriva. Lo trova citato nei miei appunti!»

«Sto disegnando!». Mostrò uno spaventapasseri stilizzato.

«Anche Malatesta invocava il sentimento comune come espediente per risolvere il problema della criminalità: non ci sembra ci siano altre soluzioni oltre quella di affidare tali decisioni alle parti interessate, al popolo, cioè alla massa di cittadini, che si comporteranno differentemente a seconda delle circostanze e a seconda del loro grado di evoluzione sociale. Egli però si differenzia da Godwin in quanto il suo scopo è evitare un nuovo sistema di oppressione e privilegio che potrebbe formarsi nella società anarchica al sorgere del problema della criminalità.»

«Ci sta dicendo che siete favorevoli ai processi e alle esecuzioni di piazza?»

«Certo che no!». E risentito: «Sono io che non mi spiego o è lei che non capisce le mie parole?»

«Sono un pubblico ministero, non un esegeta. Se volevo fare l’esegeta mi laureavo in… dove ci si laurea per fare l’esegeta?» chiese a Manganello.

Il maresciallo arricciò la ciccia del collo, poi sicuro: «Credo in medicina… Mio fratello è andato al pronto soccorso per l’esofagite!».

Proseguii: «Personalmente rifiuto ogni forma di ingerenza nella sfera individuale. Ha ragione Orwell quando afferma che l’opinione pubblica è meno tollerante di qualsiasi sistema di leggi e l’individuo è sotto una continua pressione intesa a ottenere che si comporti e pensi esattamente come tutti gli altri. Al tempo stesso però sono convinto che la soluzione al problema della pena si trovi nella società. E qui mi riaggancio a Malatesta che esalta le pratiche che partono dal basso e si sviluppano pluralisticamente, in maniera non gerarchica e non conformista. Se le persone si uniscono in associazioni con comunanza di aspirazioni che ciascuno ha contribuito a costituire e formare, è improbabile che qualcuno possa violare le regole condivise. E anche si verificasse tale ipotesi la soluzione dovrebbe essere scritta in quelle stesse regole che ha partecipato a formare, nelle quali sono definiti i principi e le procedure.»

«Continuo a non capire!». Pottutto tolse e rimise gli occhiali nervosamente. «È stato finora a lamentarsi delle regole, perché adesso…?»

«Gli anarchici sono contrari alle regole imposte, non a quelle che ciascuno concorre a creare». Sospirai. «Che poi, se ci pensate bene, è la stessa cosa che dice Armand quando afferma che la soluzione della pena sta nel riconoscimento volontario della trasgressione e nell’inflizione volontaria della punizione!»

«Quell’Armando che ha citato prima?».

++++

«Nella logica del dominio chi detiene il potere considera il valore del suo interlocutore in maniera decrescente rispetto al grado di potere posseduto. Di conseguenza lo Stato, che si assurge a dominatore supremo, tratta l’individuo come un fastidio. Nella malaugurata ipotesi in cui poi quest’ultimo violi la sua volontà lo sopprime lentamente perché, oltre tutto, è pure sadico!»

«Non mi piace questo tono!» disse Pottutto.

«Vuole che abbassi la voce?» lo sferzai. «Di fronte a una condotta antisociale, lo Stato non ha dubbi: l’autore deve essere cancellato sia fisicamente confinandolo in prigione, sia mentalmente attraverso la violenza, la sopraffazione, il ricatto, l’umiliazione, la spoliazione della dignità. Lacerazioni che inevitabilmente, una volta fuori, riverserà sulla società legittimando gli abusi subiti in un circolo vizioso da cui guadagnano tutti tranne il reo. La verità è che gli individui sono una sua proprietà e come tale li tratta. È proprietario della vita, di cui ne dispone a piacimento; è proprietario della mente, indottrinandoli all’obbedienza attraverso la scuola, la morale, la manipolazione propagandistica delle molteplici istituzioni; è proprietario degli spazi e dei movimenti, definendo i confini dei primi e favorendo il controllo dei secondi grazie a sistemi sempre più sofisticati; è proprietario dei nostri beni per l’uso dei quali chiede il tributo… Insomma, si impone come padrone assoluto. Per questo assurge al ruolo di punitore consacrato che ordina supplizi come un dio vendicatore.»

«Dimenticavo che voi punite la vittima e premiate il delinquente!» intervenne Pottutto sarcastico.

«Carina!». Gli detti soddisfazione. «Assenza di proprietà, autogestione, reciprocità, redistribuzione, solidarietà, circolarità, pluralità, questo è ciò che siamo. L’anarchia non punisce, pacifica; non disciplina, armonizza. Così il diritto civile è lasciato ai liberi accordi fra le parti e quello penale corrisponde alla protezione dei diritti naturali che tutti identificano, conoscono e osservano spontaneamente. Ogni individuo è giurista e non potrebbe essere altrimenti dal momento in cui partecipa alla definizione delle regole. Le discute, le approva, le applica. Una volta definite, la pratica quotidiana ne garantisce l’osservanza. Spontaneamente!». Colto il loro scetticismo: «Se qualcuno eccepisse che le persone non sono capaci di stabilire cosa è giusto e cosa non lo è, sarebbe facile replicare che non lo sarebbero neppure nella scelta dei propri rappresentanti. Non vi pare?»

«Ho capito!» squittì Manganello. «Ha detto che sono tutti amici e si controllano a vicenda. Però non ho capito perché controllarsi a vicenda se poi ognuno fa come gli pare…». Sollevò lo sguardo sul soffitto per riflettere: «Ci sono!» esclamò. «Solo con noi fate come vi pare!»

«E perché, secondo lei?» chiesi.

«Perché avete passato un’infanzia difficile?».

++++ 

«Concludo facendo un esempio ipotetico e banale…»

«Perché banale?» mi interruppe Pottutto.

«Perché lo possiate capire!» dissi. «Esempio di come l’anarchia si rapporta nei confronti di chi, diciamo così, compie una condotta antisociale» dissi. «Prendiamo un ladro di polli qualsiasi. Nella società del dominio viene catturato e punito con sanzioni che variano in base al tempo e al luogo. Anche nella società anarchica non mancano i ladri di polli. Intanto però bisogna capire se i polli sono privati o della collettività. Nel primo caso si tratta, appunto, di un fatto privato e viene risolto come qualunque altro conflitto fra individui: le parti si accordano fra loro, oppure ricorrono a un arbitrato composto da membri da loro designati. Fossero invece della collettività procede direttamente l’assemblea. Per prima cosa si approfondisce il fatto affinché siano chiare le motivazioni, le dinamiche, eccetera. Poi l’interessato parla. Parla anche chi vuole intervenire e alla fine si decide.»

«Ho una domanda!»

«Lo lasci concludere!». Il magistrato stoppò il maresciallo. «Voglio vedere come va a finire la storiella!»

«Accertata la responsabilità, si presentano diverse opzioni: la più semplice è che siano restituiti i polli. In questo caso può essere sufficiente un semplice richiamo e la comunità definirà come aiutare il responsabile affinché non ripeta la condotta. Se, invece, li avesse già arrostiti…»

«Ospita tutti a cena?». Manganello fece la battuta.

«Concorda il risarcimento del danno per dimostrare il pentimento. Con l’accettazione della parte offesa e della collettività si ha la riconciliazione e il ripristino dell’armonia. Posto che la rifusione non è mai pecuniaria o inflittiva, si va dalla richiesta di scuse, apprezzate molto più di quello che si può immaginare quando sono sincere, alle prestazioni manuali o intellettuali, come tagliare la legna o aiutare i figli a studiare e così via.»

«Che razza di pena è?»

«Ha mai fatto studiare un bambino?» chiesi provocatoriamente.

Manganello esitò.

«E se uno è recidivo?» domandò Pottutto.

«Ovviamente dipende dalla violazione, dalla motivazione e da altri fattori. Sicuramente, però, non è un’aggravante.»

«Se è pluri-recidivo?» si ostinò il maresciallo.

«Perché non un serial killer?» mi stizzii. «Non si fonda una società sulle anomalie. E peraltro, non mi pare che lo Stato riesca a impedirle! L’efferatezza e la malvagità umana non si prevengono. Di sicuro però una società in cui l’individuo sia padrone di se stesso, viva in maniera simbiotica con la natura e si relazioni ai propri simili in modo non artificiale, non conflittuale, non competitivo e senza tornaconto, una società in cui il dominio sia sostituito dalla tolleranza, dall’altruismo, dall’equità, dalla cooperazione, dalla solidarietà, dalla condivisione, sarà sempre meno condizionante della società del dominio…»

«Sì, in un mondo sottosopra!». Pottutto non mi lasciò finire.

«Si chiama underground anche per questo!».

 

NOTE

NOTE

1 – Gerrard Winstanley, La nuova legge di giustizia, 1649.

2 –  F. A Lange citato da Maria Luisa Berneri in Viaggio attraverso Utopia, Tabor Edizioni, 1955.

3 – Aleksandr Berkman, Le prigioni e il crimine, in Anarchia e prigioni, 2014.

4 – Per un approfondimento Hermann Amborn, Il diritto anarchico dei popoli, ivi.

5 – Kropotkin, Le prigioni e la loro influenza morale sui prigionieri, ivi.

6 — Stornelli d’esilio di Pietro Gori, 1895.

7 — “Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?”- Dante, Purgatorio, XVI, 97.

8 — Thoureau, Walden, ivi.

9 – Emile Armand, Iniziazione individualista anarchica, ivi.

10 – William Godwin, Political Justice, ivi.

11 – Vernon Richards, Life and ideas: the anarchist writing of Errico Malatesta, 2015

12 – Pierre Clastres, Antropologia politica, Ombre Corte Edizioni, 2023.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi

In foto: disegno di Edgar Degas, Il Balletto, 1873

 

31 – LA POLIZIA

 

«Se il governo impone la volontà del Potere attraverso la legge, le forze dell’ordine e i magistrati ne garantiscono l’attuazione. Sui magistrati non ho molto da dire». Guardai Pottutto. «Sono burocrati e ho grande fiducia nella burocrazia, forse l’ultima speranza perché lo Stato imploda!». Poi guardai Manganello: «Il compito della polizia, invece, è di proteggere il sistema mantenendo l’ordine e la disciplina grazie alla capacità persuasiva dei lustrini e dei manganelli. Potrei dire che sono bravi tutti a farlo con la violenza, ma… Sto parlando di voi!» richiamai l’attenzione del maresciallo.

«Mi dia pure del lei!» replicò uno sguardo sfatto.

Con un’occhiata il pubblico ministero mi invitò a ignorarlo.

«A proposito delle forze dell’ordine… conoscete la Canzone di Maggio?»

«Chi è questo Maggio?». Manganello con tono inquisitorio.

«La canzone è di Fabrizio De André e s’intitola Canzone di Maggio.»

«Mica la canterà?»

«La leggiamo insieme». Indicai al PM la pila di fogli. Può trovarla nell’articolo del 1.11.23».

Gli diede una scorsa annoiata: «Sembra una poesia!»

«Come tutte le sue opere!»

Lessi:

 

Anche se il nostro maggio

Ha fatto a meno del vostro coraggio

Se la paura di guardare

Vi ha fatto chinare il mento

Se il fuoco ha risparmiato

Le vostre Millecento

Anche se voi vi credete assolti

Siete lo stesso coinvolti

 

E se vi siete detti

Non sta succedendo niente

Le fabbriche riapriranno

Arresteranno qualche studente

Convinti che fosse un gioco

A cui avremmo giocato poco

Provate pure a credervi assolti

Siete lo stesso coinvolti

 

Anche se avete chiuso

Le vostre porte sul nostro muso

La notte che le pantere

Ci mordevano il sedere

Lasciandoci in buonafede

Massacrare sui marciapiedi

Anche se ora ve ne fregate

Voi quella notte, voi c’eravate

 

E se nei vostri quartieri

Tutto è rimasto come ieri

Senza le barricate

Senza feriti, senza granate

Se avete preso per buone

Le verità della televisione

Anche se allora vi siete assolti

Siete lo stesso coinvolti

 

E se credete ora

Che tutto sia come prima

Perché avete votato ancora

La sicurezza, la disciplina

Convinti di allontanare

La paura di cambiare

Verremo ancora alle vostre porte

E grideremo ancora più forte

Per quanto voi vi crediate assolti

Siete per sempre coinvolti

Per quanto voi vi crediate assolti

Siete per sempre coinvolti. 1»

 

Appoggiai il foglio alla pila. «Beh, che ve ne pare?» chiesi.

«Un po’ lunghetta!» gorgogliò Manganello.

«Bella la rima maggio-coraggio all’inizio!» disse contrito Pottutto.

«Vi è piaciuta o no?»

«Anche Le Mille Bolle Blu di Mina, però, se non è cantata sembra una str…!2» il PM non concluse.

«La Canzone di Maggio esprime un sentimento di rabbia mista a malinconia verso tutti coloro che chinano il mento consentendo al Potere di consolidarsi. Al tempo stesso Faber non rinuncia alla speranza: voi non potete fermare il vento, dice. La sua poetica è una continua dialettica fra consapevolezza amara e slanci fiduciosi…»

«Sì, ma che c’azzecca con quello che stavamo dicendo?»

«Le canzoni di De André rappresentano la colonna sonora delle speranze represse dalla violenza dell’Autorità. Violenza con cui aggredisce i manifestanti, violenza con cui tace i ribelli, violenza con cui protegge i più forti.» E ancora rivolto a Manganello: «Non ve ne faccio una colpa. Ce l’avete nel sangue di temere la libertà degli altri. La reprimete perché ogni pensiero che essa conquista, ogni spazio in cui si diffonde, ogni cambiamento che essa agogna, è una sottrazione della vostra autorevolezza» dissi. «Ricordo d’aver letto da qualche parte, mi sembra nel libro Educazione Siberiana di Lilin3, un concetto che condivido. E cioè che vi distinguete dal resto delle persone perché siete gli unici a vivere orgogliosamente come servitori. Simultaneamente, però, questo vi impedisce di capire cosa sia la libertà e odiate chi la professa. Ciò vi crea ansia, frustrazione, stordimento, gelosia…»

«Ora vado a chiamare l’agente Sevizia, gliela faccio venire io l’ansia!» grugnì Manganello.

«Lasci perdere!» lo fermò Pottutto.

«Non mi faccio prendere in giro da un anarchico!»

«Mi perdoni maresciallo, ma queste cose le ho dette da cittadino!» precisai.

«E noi pubblici ministeri, invece, come siamo?» Pottutto protese il collo.

«Voi pubblici ministeri?»

«Noi pubblici ministeri, sì!»

«Uguali» dissi. «Senza divisa, però!»

«Vada a chiamare il suo collega!» ordinò il PM a Manganello.

«Suvvia, non fate i permalosi!» li fermai. E cercai nella pila di fogli quello che mi interessava: «La polizia detiene il monopolio della violenza, perché ridefinisce le norme della propria azione e, appellandosi alla sicurezza, accresce la propria pretesa sulla vita dei singoli. La sua sovranità violenta è tanto inafferrabile quanto spettrale». Saltai qualche riga: «Proprio perciò le sue violenze non sono anomalie, ma rivelano piuttosto il fondo oscuro di questa istituzione. Sono come istantanee che la colgono mentre acquista spazio, acquisisce poteri sui corpi, esamina e sperimenta una nuova legalità, ridefinisce i limiti del potere. Un monopolio della violenza interpretativa che ridefinisce le norme della propria azione e, appellandosi alla sicurezza, accresce la propria pretesa sulla vita dei singoli4… Non credo ci sia bisogno di ulteriori spiegazioni!»

«Ottimo» disse Manganello. «Allora non le dia!»

«Solo un pensierino della buona notte: diceva Malatesta che governo significa diritto di fare la legge e imporla a tutti con la forza. Senza forza di polizia non c’è la forza… Rifletteteci sotto le coperte!»

«Capito Manganello?». Il PM al maresciallo. «Poi domani mi fa sapere!»

«Dotto’» questi si gonfiò come un palloncino. «Ma io la notte dormo!»

 

NOTE

 

– 1 Fabrizio De André, Canzone del maggio, 1973.

– 2 Mina, Le mille bolle blu, 1961.

– 3 Nicolai Lilin, Educazione siberiana, Einaudi, 2013.

– 4 Donatella Di Cesare, Il tempo della rivolta, Bollati Boringhieri, 2020.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Disegno di Salvator Rosa, Teschio che urla, 1640

 

 

 

30 – LA LEGGE

 

«Qual è lo strumento attraverso cui lo Stato impone la sua volontà?»

«Lo chiede a noi?» domandò Manganello.

«Ma la legge, naturalmente!» dissi. «E cos’è la legge?»

«La norma!» rispose deciso Pottutto.

«Sono sinonimi!»

«La legge è legge!» gorgogliò Manganello.

«In due parole: la legge è un atto deliberato da un’autorità, elettiva o meno, che disciplina il comportamento degli uomini». Pausa. «Già così è più che sufficiente perché nessuno si debba sentire obbligato a rispettarla!».

Pottutto si contrasse come se gli fosse entrato un tafano nell’occhio.

«Esistono diversi tipi di legge: c’è la legge divina, rispettando la quale si va in Paradiso, la legge morale la cui osservanza consente la conservazione sociale, la legge della natura preesistente al diritto positivo e che disciplina le cose del mondo, la legge quale prerogativa di re e potenti, come diceva George Sorel1, di cui stiamo parlando e… e poi c’è Dredd, la legge sono io!2» chiosai per sdrammatizzare. «Un tempo le leggi erano stabilite dal monarca, dal potestà, dal signore, figure autoritarie che imponevano insindacabilmente la loro volontà. Nella società mercantile fondata sull’ipocrisia, il dominio non può essere sbattuto in faccia ai sudditi, per cui ci pensa il governo legittimato dalla farsa delle elezioni.»

«Vorrà dire il Parlamento!» mi corresse Pottutto.

«Perché il Parlamento fa ancora le leggi?»

«Così dice la Costituzione!»

«Dice. Non poteva certo immaginare che si verificasse un’emergenza la settimana!» ironizzai. «Imponendo un determinato comportamento pena la sanzione, la legge spoglia l’individuo della sua identità. Gli impedisce di decidere che tipo di persona essere e a quale mondo appartenere. Realizza quindi un’usurpazione di sovranità».

Poiché mi fissavano vuoti, cambiai tono: «Ma supponiamo che una persona si rassegni a obbedire a una volontà eteronoma per il quieto vivere e per non perdere la miseria che possiede. Se ha un minimo di dignità, quantomeno pretenderà che l’ordine derivi da un’autorità fornita di doti morali, umane, professionali, eccetera. Non dico che i politici dovrebbero essere come i guardiani descritti da Platone ne La Repubblica, ma nemmeno che primeggino per la loro avidità, ignoranza, arroganza, ambiguità, volgarità, turpitudine, immoralità… potrei proseguire all’infinito con altri gioiosi attributi! E invece, anche gli uomini migliori e più intelligenti, privi di egoismo, generosi e puri, una volta seduti in quei dannati scanni, sempre e inevitabilmente saranno corrotti dall’esercizio del potere

«Citazione?» domandò Pottutto.

«Bakunin. Ogni tanto ci vuole per colorare il concetto!» mi burlai. E aggiunsi: «Di fatto i politici sono materiale di rifiuto emesso dagli esseri viventi…»

«In che senso?»

«Sono merda!»

«Dopraho!». Pottutto schizzò sulla sedia.

«Preferisce l’espressione: deiezione del genere umano?». Corressi il tiro. «Il loro obiettivo esclusivo è conquistare e mantenere il potere. E per impadronirsene e godere dei suoi privilegi sono capaci delle più infime aberrazioni. Quindi io dovrei obbedire a questi malfattori? Certo che no. Non si può obbedire a chi si disprezza! La penso come Thoreau quando asseriva che mi costa meno, in ogni senso, incorrere nella pena prevista per la disobbedienza allo Stato di quanto mi costerebbe l’obbedienza3. Il rispetto viene dal merito, e loro non meritano il mio rispetto

«Ma la legge è la volontà dello Stato: è a lui che obbedisce!»

«Certo, certo… Oggi è lo Stato, ieri il monarca, l’altro ieri Dio e domani magari ci imporranno di venerare una ciabatta!» replicai caustico. «Detto che le sue regole possono valere, al massimo, per gli incurabili dementi, come Octave Mirbeau chiamava gli elettori, che collaborano al perpetuarsi della tirannia, in attesa della sua dissoluzione, di fronte alla legge due sono le condotte: o osservare le norme utili ai propri scopi e negare le altre…»

«Così è troppo comodo!» mi interruppe il magistrato.

«Non ho capito: lui può sfruttare me e io non posso sfruttare lui?» rilevai. «Oppure rispettarle solo quando sono giuste per non diventare complici dell’ingiustizia.»

«E stabilisce lei se sono giuste o meno?». Il PM replicò con sarcasmo.

«Ottima osservazione!» dissi. «Infatti le nego tutte. Indistintamente. Vivo come se non esistessero! Perché è giusto o non è giusto ciò che è o non è naturale. E non c’è niente di naturale quando si è obbligati a osservare un ordine che non si è contribuito a creare e che, peraltro, va contro il proprio interesse!». Aggiunsi: «Non è vero che le leggi sono le condizioni con le quali uomini indipendenti e isolati si uniscono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla, come diceva Beccaria. E vero invece che la legge ha utilizzato i sentimenti sociali dell’uomo per instillargli, con dei precetti morali che accettava, degli ordini utili alla minoranza degli sfruttatori, contro i quali recalcitrava. Essa ha pervertito il senso di giustizia, invece di svilupparlo4. È un sopruso, una violenza, una coartazione attraverso cui annientare la personalità. E illudersi che sia funzionale al bene comune è da sempliciotti buoni solo a fare danno a se stessi e agli altri.»

«L’uomo onesto rispetta sempre la legge!».

Manganello applaudì: «Bravo, non avrei potuto dirlo meglio!»

«Quindi se sono leale con gli altri, corretto, sincero, solidale, riconosco i loro diritti naturali non perché obbedisco a essa ma perché mi comporto da uomo, sono un disonesto?»

«Ahia!». Pottutto si morse un labbro.

«E poi chi stabilisce che io sia onesto se rispetto la legge?»

«Ma la legge, naturalmente!»

«La legge?»

«Anzi no, lo Stato!»

«Lo Stato?» lo incalzai. «Si rende conto di quello che sta dicendo? Si deve obbedire alla legge perché si deve. Ci avete presi per dei ritardati?»

«Si calmi Dopraho, così le viene un infarto!»

«E come posso calmarmi?»

«Ci penso io!». Pottutto ravanò nella tasca della giacca e tirò fuori una boccettina di valeriana.

«No grazie. Preferirei una canna!» lo traumatizzai. Però ripresi a parlare con tono più pacato: «Stato e legge non sono una necessità. Quando gli individui si associano per realizzare scopi condivisi in cui il bene personale si fonde con quello collettivo perché svincolato dal profitto, raggiungono spontaneamente l’armonia attraverso la sintesi delle singole volontà. Non serve altro! Senza dominio gli uomini si uniscono, si organizzano, si associano, si rimboccano le maniche per affrontare e risolvere le incognite e le difficoltà quotidiane attraverso una sinergia faccia a faccia, non competitiva, egualitaria, autonoma e responsabile. Come sempre accade quando lo Stato è assente. Pensate ai giorni che seguono una calamità naturale o una tragedia, oppure a quanto avvenne dopo l’Armistizio dell’8 settembre del 1943?»

«Nel 1943 mica ero nato!»

«Ha detto pensate!». Pottutto redarguì il maresciallo.

«Non c’era governo e non c’erano istituzioni eppure le persone tiravano avanti, i servizi funzionavano, le relazioni si solidificavano e tutti si aiutavano per garantirsi il cibo, i vestiti, le necessità primarie. Laddove non c’è accumulazione, l’obiettivo è sempre godere della vita in una società di liberi fra uguali

«E questa non è utopia?»

«Questo è essere padroni di se stessi. Ma mi ascolta o sta qui solo perché le hanno detto di starci?»

 

NOTE

 

– 1  citato in Hermann Amborn, Il diritto anarchico dei popoli senza stato, ivi.

– 2  Dredd, La legge sono io, film del 1995.

– 3  H. D. Thoreau, Disobbedienza Civile, 1849.

– 4  P. Kropotkin, La morale anarchica, ivi.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Disegno di Albrecht Durer, Giovane Lepre, 1502

 

 

29 – L’AUTORITA’ DELLO STATO

Pottutto versò la Coca nella tazza pieghevole. Sorseggiò lentamente. Chiese se ne volevo e disse che l’avrei potuta bere se insieme avessi ingoiato una Mentos. Replicai che un po’ d’acqua sarebbe stata più che sufficiente.

Piegai il bicchiere e feci canestro nel cestino. Il PM lanciò il suo e colpì la signorina Servile sulla cofana cotonata.

Ricominciai a parlare: «Come ho detto, lo Stato è uno strumento di controllo sociale. Non più il solo vista l’imperante massificazione conformista, ma rimane il più pervasivo. Uniforma le condotte con il potere legislativo, diffonde il verbo con quello esecutivo, punisce i non allineati con quello giudiziario. Ma per fare tutto questo occorre che abbia autorità, cioè che al suo imperio corrisponda l’adesione della massa. In altri termini, che essa obbedisca spontaneamente.»

«Non vorrà parlarmi ancora delle elezioni?»

«Mi riferisco a come lo Stato viene percepito dalla collettività» dissi. «La teoria del contratto sociale legalizza il suo imperio, ma le favolette suggestionano se narrano storie semplici, non se usano il linguaggio asfittico del Diritto. I contigiani asserviti hanno così sfruttato un’immagine in cui tutti potessero identificarsi e che sollecitasse i sentimenti, le fragilità, l’emotività più ingenue e infantili. Ecco che lo Stato diventa il genitore premuroso, laborioso, diligente, onesto a cui i figli, cioè i cittadini, devono rispetto, devozione, obbedienza, soggezione.»

«La famosa diligenza del buon padre di famiglia?» proruppe Manganello esaltato.

«Che c’entra? Quella è un’altra cosa!» Pottutto seguì sprezzante.

«Vi spiego cosa intendo con le parole di Randolph Bourne. Egli dice: vi è naturalmente nel sentimento verso lo Stato un vasto elemento di puro misticismo filiale. Il senso di insicurezza, il desiderio di protezione, rimandano al proprio desiderio del padre e della madre con cui sono associati i primissimi sentimenti di protezione. Non è per nulla che il proprio Stato è sempre pensato come un padre o come la Madre Patria, che la propria relazione verso di esso è concepita in termini di affetto familiare. Trattasi di un atteggiamento infantile e primitivo che rende il popolo un gruppo di bambini obbedienti, rispettosi, affidabili, pieni di quella fede ingenua nell’onniscienza e nell’onnipotenza dell’adulto che si prende cura di loro, che impone il suo dolce ma necessario comando su di loro e con il quale essi perdono la loro responsabilità e le loro angosce1

«Come si chiama questo tizio?» chiese il pubblico ministero.

«Bourne!»

«Quello che nei film scappa di continuo?2»

«Questo è Randolph. Quello era Jason!» replicai. «Un genitore giusto, onnisciente, indefettibile, onnipresente, divino, che educa, disciplina e ricompensa. Al quale dobbiamo gratitudine per la vita perché è l’unico che può toglierla, per il nutrimento perché potrebbe lasciarne ancora meno, per l’educazione perché sempre meglio indottrinati che analfabeti e per tutte le altre cose che implicano quella riverenza assoluta per cui niente fuori dallo Stato, al di sopra dello Stato, contro lo Stato. Tutto allo Stato, per lo Stato, entro lo Stato come diceva, guardate un po’, Mussolini.»

«Quanto le piacerà eccedere!». Pottutto stirò la mascella. «Però apprezzo l’immagine. Mi ha fatto pensare alla buon’anima di mio padre… A lei?» chiese a Manganello.

Il maresciallo sospirò con un’espressione da Maddalena del Tiziano3: «Il mio se n’è andato quando ero piccolo!»

«Mi dispiace» dissi sincero.

«Che ha capito?». Gli si arrossarono le guanciotte. «Non è morto. È fuggito con un trans brasiliano!».

Si arrossarono anche le mie e proseguii: «Ma anche al genitore più virtuoso può capitare un figlio disadattato. E così, nonostante l’impegno delle istituzioni, della cultura, della propaganda nel plasmare bravi cittadini per cui lo Stato è giusto e necessario e la libertà è libertà di obbedire, qualche ribelle qua e là rimane. È un fastidio che l’Autorità non può permettersi, e di fronte al quale mette in campo tutto il monopolio della forza

«Finché c’è forza c’è speranza, dice il detto!» ancora il maresciallo.

Sorrisi come si fa ai dementi e continuai: «Se i ribelli sono pochi, lo Stato li tollera per contrapporre il male che essi rappresentano al bene di cui si proclama artefice. Quando poi crescono di numero e minano la sua stabilità comincia la repressione. Senza vergogna usa tutti i mezzi possibili per dissuaderli prima, irreggimentarli poi, eliminarli se necessario. Lo Stato non è altro che un rapporto gerarchico basato su una violenza resa legittima4, diceva Max Weber. Esso impera e via la mattanza! Una violenza manifestata con leggi arbitrarie e liberticide, enfatizzata dalla brutale ferocia dei suoi mastini, conclusa, nel migliore dei casi, con la segregazione in carcere. Violenza arrogante, sadica, legalizzata e perpetrata d’intesa con la massa di vigilanti che disprezza chiunque osi affrancarsi dall’uniformità in cui si nullifica».

«Arrivi al dunque, Dopraho!»

«Non c’è un dunque, perché la prepotenza dello Stato è senza fine». Esito. «Almeno finché le persone non si renderanno conto che esso è una tirannia autolegittimata creata per negare l’individualità».

Sospirai.

Sospirarono anche Pottutto e Manganello e non sembrava per solidarietà.

Non so se per solidarietà o per frustrazione.

«Il che probabilmente non avverrà mai. L’uomo possiede infatti la non invidiabile predisposizione a tollerare, se non sopportare ogni forma di ingiustizia pur di andare a dormire tranquillo e con le chiavi di casa sotto il cuscino. Eppure basterebbe un po’ di sano raziocinio per capire che quel padre è malvagio, violento, sfruttatore, perverso e pervertito, e di amor proprio per fuggire dalle sue grinfie e ricominciare daccapo. Lo Stato è il male assoluto perché niente come la sua tirannia annienta l’individualità. Arbitrariamente si impadronisce della sovranità personale attraverso le istituzioni politiche, legislative, giudiziarie, militari, finanziarie, ecc…, per le quali sono sottratte al popolo la gerenza dei propri affari, la direzione della propria condotta, la cura della propria sicurezza affidandole ad alcuni che, o per usurpazione o per delegazione, si trovano investiti del diritto di far le leggi su tutto e per tutti e di costringere il popolo a rispettarle, servendosi all’uopo della forza di tutti 5».

Pottutto accese la sigaretta. Ne offrì una al maresciallo e insieme soffiarono verso di me.

Mi fecero tenerezza. Erano proprio due bambinoni!

 

NOTE

– 1 Randolph Bourne, La guerra è la salute dello Stato, citato in La società senza Stato a cura di Nicola Ianniello.

– 2 Jason Bourne è il protagonista dell’omonima saga cinematografica spy interpretata da Matt Damon.

– 3 Tiziano Vecellio, Maddalena penitente, 1533.

– 4 Citato in Hermann Amborn, Il diritto anarchico dei popoli senza stato, ivi.

– 5 Errico Malatesta, L’anarchia, ivi.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

In foto Egon Schiele, La madre morta

 

 

Canzone di Bacco

Canzone di Bacco composta da Lorenzo de’ Medici, detto il Magnifico, in occasione del carnevale del 1490

 

Quant’è bella giovinezza
che si fugge tuttavia!
Chi vuole esser lieto, sia,
di doman non c’è certezza.
5        Quest’è Bacco e Arïanna,
belli, e l’un dell’altro ardenti;
perché ’l tempo fugge e inganna,
sempre insieme stan contenti.
Queste ninfe e altre genti
10        sono allegri tuttavia.
Chi vuole esser lieto, sia,
di doman non c’è certezza.
Questi lieti satiretti,
delle ninfe innamorati,
15        per caverne e per boschetti
han lor posto cento agguati;
or da Bacco riscaldati,
ballon, salton tuttavia.
Chi vuole esser lieto, sia:
20        di doman non c’è certezza.
Queste ninfe anche hanno caro
da lor essere ingannate:
non può fare a Amor riparo,
se non gente rozze e ingrate;
25        ora insieme mescolate
suonon, canton tuttavia.
Chi vuole esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Questa soma, che vien drieto
30        sopra l’asino, è Sileno:
così vecchio è ebbro e lieto,
già di carne e d’anni pieno;
se non può star ritto, almeno
ride e gode tuttavia.
35        Chi vuole esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Mida vien drieto a costoro:
ciò che tocca, oro diventa.
E che giova aver tesoro,
40        s’altri poi non si contenta?
Che dolcezza vuoi che senta
chi ha sete tuttavia?
Chi vuole esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
45        Ciascun apra ben gli orecchi,
di doman nessun si paschi,
oggi sìan, giovani e vecchi,
lieti ognun, femmine e maschi.
Ogni tristo pensier caschi:
50        facciam festa tuttavia.
Chi vuol esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.
Ciascun suoni, balli e canti,
arda di dolcezza il core:
55        non fatica, non dolore!
Ciò che ha esser, convien sia.
Chi vuole esser lieto, sia:
di doman non c’è certezza.

 

28- STATO: DEMOCRAZIA DIRETTA CONSENSUALE – SEGUE

 

Feci il punto della situazione: «Ho sottolineato che lo Stato è illegittimo in quanto espropria la sovranità individuale. Ho spiegato perché la democrazia rappresentativa e la regola della maggioranza sono panzane. Aggiungo che l’anarchia non è acrazia poiché una società spogliata da ogni forma gerarchica si sviluppa mediante la partecipazione condivisa al bene comune. Riprenderò l’argomento quando parlerò della comunità. Qui voglio ribadire che l’unico sistema che garantisca il faccia a faccia, l’orizzontalità e la condivisione è la democrazia diretta consensuale. Riunirsi insieme, partecipare, discutere, decidere ricorrendo a organismi decentralizzati come le assemblee, i consigli, i comuni, chiamateli come volete, in cui le determinazioni siano prese all’unanimità.»

«Mi faccia capire: sta parlando di quando vi ritrovate tutti insieme?»

«Esatto!»

«E discutete…?»

«Preciso!»

«E quando discutete indossate una tunica bianca con la medaglia e un cappuccio? Ma non sarete anche voi…?»

«Non siamo massoni!»

«Vabbè, lasciamo perdere i dettagli. Una domanda: ma se tutti decidete, chi decide?»

«Tutti, ovviamente!»

«Suvvia, non scherzi!»

«Nella democrazia diretta unanime tutti partecipano alla deliberazione, tutti votano e non c’è decisione finché l’accordo non è unanime

«Figuriamoci!»

«Anche quando essa richiede maggiori conoscenze tecniche, il parere e il voto dello specialista valgono quanto quelli del manovale. Solo così si può escludere che la maggioranza prevalga sulla minoranza o che si formino pericolose posizioni di dominio all’interno delle assemblee

«Cosa di fatto impossibile!»

«Invece è possibilissimo in un contesto in cui chiunque è consapevole che l’interesse personale si realizza quando si compie quello comune. Vi faccio un esempio: supponiamo che gli abitanti di un quartiere vogliano trasformare una piazza in un bel giardino. Convocano l’assemblea a cui partecipano tutti gli interessati. In fase di discussione parlano i tecnici, i cittadini, ognuno dice la sua. Quando si vota tutti tranne uno sono d’accordo nel realizzare l’opera. Che fare? Tenga presente che se non viene raggiunta l’unanimità la decisione non passa. Tre le soluzioni: la prima è convincere l’oppositore che vivere a contatto con la natura è una scelta estetica, salutare, spirituale che può solo migliorare la sua esistenza. In subordine la comunità può aiutarlo a trovare una dimora alternativa a quella in cui vive…»

«Lo sfrattate?» chiese Manganello sospettoso.

«Nessuno sfratta nessuno!»

«Allora gli espropriate la casa come fanno i comunisti?» intervenne Manganello.

«Non si espropria se non c’è niente da espropriare!»

Mi fissarono come Monna Lisa e non riuscii a fare a meno di sorridere: «Avete ragione!» esitai. «Mi sono dimenticato di informarvi che nella comunità anarchica non c’è proprietà!». E aggiunsi quasi imbarazzato: «E questo vale anche per la casa!»

Pottutto ebbe un mancamento.

Manganello rimase a bocca aperta.

Ebbi come la sensazione che anche la signorina Servile si fosse mossa.

La Sfinge, Sfinge era, Sfinge rimase.

«Poi c’è una terza soluzione» proseguii. «Per conciliare gli interessi della collettività con quelli dell’individuo occorre creare un tipo di comunità flessibile1 in cui sia consentito il diritto di astensione. Non viene quasi mai praticata, ma è una possibilità. Colui che non concorda, infatti, può dichiarare di astenersi dal deliberare. La comunità accetta la sua decisione e la risoluzione non sarà vincolante nei suoi confronti. Peraltro, posto che può sempre cambiare opinione, il suo dissenso non avrà ripercussioni morali o sociali e la sua complicità nell’attività comunitaria non subirà alterazioni» chiosai. «In questo modo, cioè favorendo la continua adesione individuale e applicando le decisioni unanimi, ciascuno è – non viene illuso che sia – attore della vita politica. La partecipazione è attuazione della libertà e dell’eguaglianza. Libertà ed eguaglianza che esistono se l’individuo è autonomo, cioè sceglie ed è responsabile della scelta verso se stesso e gli altri.»

«Anche le elezioni però sono una forma di partecipazione!»

«Il proprio dovere si realizza impegnandosi personalmente. Si compie quotidianamente attraverso la convivenza, la comunità, la solidarietà, la convivialità. Pensate forse che i governanti vi avrebbero lasciato le elezioni se potessero essere utili a fare una rivoluzione?2, diceva Louise Michell. Il cambiamento non si ottiene delegando un partito anziché un altro, ma curando da soli i propri interessi come sosteneva Gustav Landauer, che aggiungeva: il popolo si illude ancora, malgrado secoli di esperienza, che tutto andrebbe meglio se al governo ci fossero altre persone o altri partiti. Invece no, andrebbe peggio, in quanto il popolo si disabitua ulteriormente a intervenire in prima persona e non sa neppure che forma dovrebbero assumere le istituzioni dell’autodeterminazione3

«Mi scoppia la testa con tutte queste citazioni!» grugnì Pottutto.

«Quando sono troppe, sono troppe!» echeggiò Manganello.

«Capisco!» dissi. «Allora ve ne faccio un’altra: la partecipazione diretta è un confronto continuo, un faccia a faccia entusiasmante in cui ciascuno esprime il proprio interesse nel solco del bene comune. È il trionfo della bellezza, di una società di individui liberi di godere della bellezza dell’altro liberamente espressa in una società il cui obbiettivo è il mantenimento di quella condizione essenziale, diceva Piger4. Ma perché ciò avvenga occorre eliminare lo Stato

«Si rende conto che sta vaneggiando?»

«Perché pensa che senza non sarebbero garantiti i servizi sanitari o l’istruzione o che nessuno riparerebbe le strade?»

«Per la verità pensavo a me. Che ne sarà dei dipendenti pubblici?»

«E delle forze dell’ordine?». Anche Manganello sembrò preoccupato.

«Non so come sarà la società anarchica e che fine faranno i numerosi vampiri attaccati alle istituzioni. Di sicuro non esisterà una soluzione unica e le scelte dipenderanno da un insieme di variabili spazio-temporali, sociali, ambientali che dovranno essere analizzate al momento opportuno. Posso dire però che se domattina ci svegliassimo con lo Stato che si è dissolto, la varietà di anarchismi offrirebbe una pluralità di opportunità. Per cui, state sicuri, una sistemazione verrebbe trovata anche a voi!»

«Meno male!». Pottutto e Manganello si alzarono per sancire l’accordo con una stretta di mano.

«Sarà divertente scoprire quale!» aggiunsi sarcastico mentre la sfilavo. «Detto questo» ripresi, «per conseguire un reale cambiamento è imprescindibile l’abbattimento dello Stato. Perché esso è il principale strumento, benché non l’unico, con cui il Potere esercita il suo dominio sull’individuo. Sapete cosa diceva Bakunin a proposito?»

«Non è che me ne freghi tutto sto…!»

«Vuole una confessione completa o no?». Ottenuta la loro attenzione: «Bakunin diceva che Nessuno Stato, per quanto democratiche siano le sue forme, sarà mai in grado di dare al popolo quello che vuole… perché ogni Stato, sia pure il più repubblicano e il più democratico, anche lo Stato pseudo popolare creato dal signor Marx, non rappresenta in sostanza nient’altro che il governo della massa dall’alto in basso da parte di una minoranza intellettuale… per le classi proprietarie e di governo è quindi assolutamente impossibile soddisfare le rivendicazioni del popolo, per cui resta solo un mezzo, la violenza di Stato, in una parola, lo Stato perché lo Stato significa precisamente violenza. La dominazione mediante la violenza, quanto possibile mascherata, se assolutamente indispensabile sfrontata e pura5».

«A proposito di violenza…» Manganello a Pottutto. «Una telefonatina al nostro Sevizia la farei!»

«Non dica sciocchezze!», gli rispose il PM. «Se non ha fatto un nome fino ad adesso, si figuri quando non sarà in grado di parlare!».

NOTE

 

– 1 Z. Bauman, Voglia di comunità, Laterza, 2001.

– 2 Louise Michel, Presa di possesso, ivi.

– 3 Gustav Landauer, La comunità anarchica, ivi.

– 4 Gaston Piger, Signorina anarchia, ivi.

– 5 Michael Bakunin, Stato e anarchia, Feltrinelli, 1873.

 

Editing a Cura di Costanza Ghezzi

Disegno: Martin Zanollo, Intuition, 2023

 

 

27 STATO: CRITICA ALLA DELEGA ELETTORALE – SEGUE

 

«La democrazia non è la sola cosa che non ci piace dell’ordine costituito. Prima però di rimpinguare la lista, vorrei fossero chiari i motivi.»

«Li serbi per l’interrogatorio di garanzia!»

«Ma come?» esclamai. «Preferisce che sia un altro giudice a prendersi i meriti della confessione?». Mi rivolsi anche a Manganello: «Immagini la soddisfazione del suo nome scritto sul giornale!»

Si guardarono senza parlare.

«Va bene!» disse Pottutto. «Ma sia breve. E poi voglio dei nomi!»

«Quali nomi?»

Batté il pugno sul tavolo: «Tutti. A partire da quando andava all’asilo!».

Non avevo ricordi di quella fase embrionale, così gli raccontai di come sabotavo il registro di classe. Poi ripresi a parlare: «Ho criticato il concetto di sovranità popolare e ho affermato che le elezioni sono una farsa perché rappresentano l’abdicazione alla sovranità individuale.»

«Brevemente!»

«Brevemente!» ripetei. «Delegare significa essere servi di qualcuno, per pigrizia, interesse, abitudine, comodità, paura, ecc1, quindi rinchiusi in quella gabbia di bisogni gestita da esperti, nello specifico quei mestieranti della manipolazione che sono i politici, in cui è impossibile l’esercizio dell’autonomia. Per questo gli anarchici ne rifiutano ogni forma, compresa la delega politica. Come dice Enrico Manicardi, forse il più importante teorizzatore italiano dell’anti-civilizzazione, o gli uomini non sono considerati capaci di autodeterminarsi, allora non si spiega come uno solo possa farlo per gli altri, oppure si ammette che lo sono, ma allora non c’è bisogno che qualcuno li comandi.»

«Tutto qui?»

«Mi ha chiesto brevemente!»

«Scommetto che non è finita!»

«Lei è una volpe!» lo adulai. «Un’altra obiezione, infatti, prende spunto dalle argomentazioni di Lisander Spooner. Egli sostiene l’immoralità che la delega politica escluda la responsabilità del governante per le sue azioni. In effetti se la prassi e il Codice civile prevedono che il mandatario sia responsabile verso il mandante, perché la Costituzione sancisce che ogni membro del Parlamento esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato2

«Perché?» chiese Manganello a Pottutto.

«Perché?», Pottutto chiese a me.

«Perché ha ragione Spooner quando afferma che il governo esercita secondo diritto e ragione, un dominio puramente personale, arbitrario, irresponsabile e usurpato dai legislatori stessi, e non un potere delegato loro da qualcuno3. Basti pensare che nel diritto comune il mandato generico si applica solo ai minori e gli interdetti per ribadire che la rappresentanza è il congegno mediante il quale il popolo sovrano viene con il proprio consenso interdetto e sottoposto alla tutela delle classi privilegiate4».

«Solita esagerazione!»

«Che non sia un’esagerazione lo conferma Bakunin quando sostiene che il principio di autorità dello Stato si fonda sull’idea eminentemente teologica, metafisica e politica secondo cui le masse, sempre incapaci di governarsi da sole, devono sottomettersi al benefico giogo di una saggezza e di una giustizia loro imposte. Per cui se per il Potere il popolo è una bestia5, il governo può costringerlo all’obbedienza con ogni mezzo repressivo che si autolegittima a usare. Ne consegue che, e torno a Bakunin, persino nell’imporre il bene lo Stato è nocivo e corruttore proprio perché opera un’imposizione!6».

Afferrai il bicchiere di plastica. Era vuoto. Finsi di bere per non dare soddisfazione ai mei interlocutori.

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«Altra favoletta è che in democrazia tutti possano partecipare all’attività politica. Niente di più falso!» dissi. «Intanto per candidarsi, fare campagna elettorale, svolgere attività serve denaro. Molto denaro. Talmente tanto che il parlamento straripa di ricchi affaristi che non hanno la minima idea di cosa sia la vita reale. In secondo luogo, per partecipare all’attività politica occorre avere conoscenza. Una conoscenza culturale, delle tradizioni, della collettività, delle relazioni, della pratica che persino nelle società policefale conferisce competenze sull’uso del potere nei processi decisionali partecipativi7. Una conoscenza che manca alla massa di elettori costretta a vivere in una dimensione marginalizzata, dominata da dinamiche tecnologiche padroneggiate solo da pochi eletti. Ciò comporta che le stesse scelte politiche, economiche, sociali vengono affidate a uomini di scienza, con l’effetto di creare una dittatura di saggi onnipotenti, ma in realtà incoscienti, su cittadini incapaci di misurare la portata della posta in gioco8. Non siete d’accordo?»

«Su cosa?». Manganello sollevò mollemente il testone.

«Almeno faccia finta di ascoltarmi!» lo ripresi.

«Ma la sto ascoltando!»

«Allora si sforzi di capire!»

«Si sforzi un pochino, maresciallo. Non mi faccia fare queste figure!», lo rimproverò anche Pottutto.

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«Altro paradigma della democrazia rappresentativa è il principio della maggioranza con cui si stabilisce che la decisione prevalente è quella che raccoglie più consensi. Fondata sull’assunto rousseauiano che la sua decisione realizza sempre la volontà generale9, di cui però non dà dimostrazione, essa porta all’inevitabile schiavitù volontaria. Di fatto la maggioranza è il più subdolo mezzo per annientare le divergenze. Inconcepibile per chi, come noi anarchici, fa del pluralismo un principio unificatore».

«E quindi?»

«Quindi vi invito ancora a leggere Spencer. Trovate le sue parole nell’articolo del 1.10.23. Asserisce il filosofo: forse si dirà che questo consenso non è specifico ma generale e che è inteso che il cittadino abbia dato il suo assenso a ogni cosa che il suo rappresentante possa fare quando egli ha votato per lui. Ma supponiamo che egli non abbia votato per lui e, al contrario, abbia fatto tutto ciò che era in suo potere per eleggere qualcuno che sostiene idee opposte. Cosa diciamo allora? La risposta, probabilmente, sarebbe che, prendendo parte alle elezioni, egli ha tacitamente consentito ad attenersi alla decisione della maggioranza. E come la mettiamo con chi non ha votato affatto? Ebbene, in questo caso, non può giustamente lamentarsi, visto che non ha protestato contro la sua imposizione. In questo modo, abbastanza curiosamente, sembra che egli abbia dato il suo consenso in qualunque modo abbia agito: sia che abbia detto sì, sia che abbia detto no, sia che sia rimasto neutrale! Una dottrina piuttosto imbarazzante questa10». Pausa. «E così si ritorna a Stirner, per cui il principio della maggioranza e delle elezioni in generale non è altro che l’ennesimo strumento con cui il Potere concede diritti per creare schiavitù».

«Vorrebbe decidere con la monetina?» disse sarcastico Pottutto.

«Avete presente l’esempio della scatola di fagioli?» chiesi.

«A quest’ora ci sta più uno snack al cioccolato!»

«Immaginate che il vostro commerciante preferito un giorno smetta di vendere la marca di fagioli che vi piace tanto perché, per risparmiare, decide di trattare esclusivamente quella che va per la maggiore. A quel punto o cambiate alimentari, oppure dovete adattarvi. In ogni caso subite la sua volontà11. Cosa spiega questo esempio?»

«Io so solo che i fagioli mi fanno scorr…!»

«Manganello!». Pottutto lo interruppe prima che finisse la volgarità.

«Dimostra che la maggioranza è sempre autoritaria in quanto chi è in minoranza deve obbedire alla sua volontà anche se ciò va contro i suoi interessi» rilevai. «Esiste unicamente un sistema che mette tutti d’accordo: la democrazia diretta, che consente la partecipazione personale alle decisioni, e che sia unanime, cioè condivisa.»

«Ma figurati!»

«Occorre cambiare la mentalità. Concepire la società non come un ostacolo ma come una sintesi delle singole individualità. Liberi accordi stabiliti tra gruppi liberamente costituiti per soddisfare l’infinita varietà di bisogni e di aspirazioni degli uomini civili, diceva Kropotkin12

«Embè, se lo diceva Kropotkin!»

 

NOTE

 

– 1 Francesco Codello, Né obbedire né comandare, lessico libertario, ivi.

– 2 Art 67 della Costituzione Italiana.

– 3 Lisander Spooner, Contro il potere legislativo, in La società senza Stato, a cura di Nicola Ianmnello, 2004.

– 4 Max Sartin, Il sistema rappresentativo e l’ideale anarchico, in Perché gli anarchici non votano, Ortica Editore, 2017.

– 5 D. Graeber, Dialoghi sull’anarchia, 2022.

– 6 M. Bakunin, Federalismo socialismo antiteologismo,1868.

– 7 Herman Amborn, Il diritto anarchico dei popoli senza stato, Eleuthera, 2021.

– 8 Philippe Godard, Contro il lavoro, 2011.

– 9 J. J. Rouseau, Il contratto sociale, 1762.

– 10 Herbert Spencer, Il diritto di ignorare lo Stato, ivi.

– 11 Gian Piero de Bellis, Panarchia, D-Editore, 2017.

– 12 Estratto della definizione di Anarchismo di P. Kropotkin nell’edizione del 1910 dell’Encyclopedia Britannica.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi

 

 

26 – STATO – LA FARSA DELL’AGIRE IN NOME DEL POPOLO SOVRANO

 

«Probabilmente ha ragione: non fossimo in democrazia il boia avrebbe già raccatto la mia testa. L’ipocrisia si manifesta sempre con un’apparente moralità! Tuttavia, ciò non cambia l’evidenza che lo Stato sia dispotico perché si impone attraverso la sottomissione e costringe all’obbedienza con la coartazione. Né può valere a suo favore, cioè a garanzia della democraticità del sistema, la presenza delle elezioni.»

«Vuole negare anche quelle?»

«Che il sistema sia elettorale proporzionale, maggioritario, uninominale, plurinominale, a turno doppio, unico, o con pescaggio dei numeri tipo tombola, le elezioni sono una farsa. L’elettore non decide niente perché i candidati sono imposti dai partiti. Una volta eletti, essi dispongono di un mandato in bianco in virtù del quale possono fare quello che vogliono. Una libertà assoluta e incontrollata, dimostrata dalle infinite volte in cui ne abusano o violano impunemente il programma elettorale. Il loro obiettivo non è il bene del cittadino, a cui solo in prossimità delle elezioni fingono di interessarsi, ma il proprio, cioè conservare più a lungo possibile i privilegi, e quello delle caste che devono proteggere, cioè delle forze economico-finanziarie che ne legittimano la sopravvivenza.»

«Che qualunquismo!»

«Qualunquismo e complottismo sono termini utilizzati da chi non sa come replicare alle critiche!» rilevai.

«Ma certo che so replicare!»

«Prego!».

Pottutto manipolò così violentemente la pallina che gli schizzò via.

 «Come si permette. Mica sono io l’interrogato!» sbottò.

Proseguii: «Sulle elezioni torno a breve. Adesso mi interessa parlare dell’altra illusione su cui si fonda la democrazia: che il potere sia esercitato in nome del popolo. In realtà popolo è una parola retorica dal contenuto inconsistente. Chi è il popolo? Dove sta il popolo? Cosa fa il popolo? Il popolo è quello che acclamava Mussolini affacciato al balcone di Piazza Venezia o il corteo bersagliato da lacrimogeni e caricato in via Tolemaide? Il popolo è quello che accoglie gli immigrati o quello inneggia sui social all’inabissamento delle carrette? Il popolo è quello che tace e acconsente o che si ribella? Il popolo è quello manipolato dai media o la massa che dubita? Il popolo non esiste! È un concetto manipolatorio che uccide l’individuo, l’unico vero titolare di sovranità in quanto dotato di pensiero e azione.»

«Il popolo siamo noi!» cinguettò Pottutto roteando il dito.

«Noi?» chiesi.

«Noi, noi!» indicò anche me.

«Adesso è lei che si prende troppe confidenze!» replicai. «Il termine popolo unisce i sempliciotti nell’identità del branco che obbedisce al maschio alfa. È una regola vecchia come il creato di cui il potere ha sempre fatto buon uso, qualunque fosse la forma di governo. Democrazia e tirannia rappresentano la stessa autorità con la differenza che quest’ultima opera in maniera esplicita, senza bisogno di nascondere la violenza e inorgogliendosi del suo abuso, la prima è più infida in quanto sfrutta l’illusione del benessere e la veemenza della manipolazione e del conformismo, riservando la prepotenza bruta alle sole situazioni emergenziali. Per avere un’idea di come subdolamente ottiene l’adesione, basta leggere l’arguta opera di Etienne de La Boétie… Lo facciamo insieme?»

«Adesso?»

«No, fra un paio d’anni!» ironizzai. «Non sono dunque gli squadroni di cavalieri, non sono le schiere di fanti, non sono le armi a difendere il tiranno. A prima vista non ci si crede, ma è davvero così: sono sempre quattro o cinque che mantengono il tiranno, quattro o cinque che gli tengono l’intero paese in servitù… perché si erano fatti avanti da sé, o perché era stato lui a chiamarli, per farne i complici delle sue crudeltà, i compagni dei suoi piaceri, i ruffiani delle sue voluttà, i soci nello spartirsi il frutto delle sue rapine… Quei sei hanno poi sotto di loro seicento approfittatori, e questi seicento fanno ai sei quel che i sei fanno al tiranno. Questi seicento ne tengono poi sotto seimila, a cui hanno fatto fare carriera, affidandogli il governo delle province, o l’amministrazione ella spesa pubblica, per avere mano libera, al momento opportuno, in avarizia e crudeltà, compiendo nefandezze tali da poter resistere soltanto nella loro ombra, riuscendo cioè solo grazie a costoro a sfuggire leggi e sentenze».

Ripresi dopo una pausa: «Grande è poi la schiera che viene dopo, e chi volesse divertirsi a districare questa rete non ne vedrà seimila, bensì centomila, milioni, stare attaccati al tiranno con questa corda… si arriva insomma al punto che il numero di persone a cui la tirannia sembra vantaggiosa risulta uguale a quello di chi preferirebbe la libertà… Così, non appena un re si proclama tiranno, tutto il peggio, tutta la feccia del regno… gli si ammassa intorno e lo sostiene per avere la propria parte di bottino e per diventare così, sotto il grande tiranno, a loro volta dei piccoli tiranni1».

Restituii il foglio.

«Questa è la strategia con cui il Potere mantiene l’ordine secondo il giovanissimo Etienne. Tale è il metodo col quale ancora oggi esso accresce i propri profitti avvalendosi dei ruffiani della voluttà, quella schiera di malvagi approfittatori che si nascondono nella legalità per consolidare la gerarchia. Benpensanti biasimevoli e vili disposti a danzare sulle ceneri dell’umanità pur di poggiare la testa su guanciali pieni di soldi.»

«Mi perdoni» intervenne Pottutto. «Prima ha detto che lo stato è violento, ora sembra negarlo. Si decida!»

«Prima ho detto che crea ordine con l’oppressione e lo mantiene con l’intimidazione. Adesso ho aggiunto che è un dissimulatore corruttore e corrotto… Niente di nuovo!» precisai. «Tutti lo sanno e tutti lo accettano perché sperano prima o poi di essere invitati al banchetto.»

«Prego, maresciallo!» disse il magistrato a Manganello che aveva sollevato la mano per fare una domanda.

«Ecco… sì, volevo sapere se può…» farfugliò. «Non ho mica capito!»

«Allora le cito qualcosa di più moderno che, grosso modo, afferma le solite cose» ripresi. «Presente il discorso di Totò allo psichiatra nel film Siamo uomini o caporali

«Si stava meglio quando si stava peggio?»

«Esatto, proprio quello!» confermai sollevando il pollice. «Totò dice che l’umanità si divide in due categorie di persone: gli uomini e i caporali. Gli uomini sono la maggioranza, i caporali la minoranza. Cito a memoria: Gli uomini sono quegli esseri costretti a lavorare tutta la vita come bestie, senza vedere mai un raggio di sole, senza la minima soddisfazione, sempre nell’ombra grigia di un’esistenza grama. I caporali sono appunto coloro che sfruttano, che tiranneggiano, che maltrattano, che umiliano. Questi esseri invasati dalla loro bramosia di guadagno li troviamo sempre a galla, sempre al posto di comando, spesso senza avere l’autorità, l’abilità o l’intelligenza, ma con la sola bravura delle loro facce toste, della loro prepotenza, pronti a vessare il pover’uomo qualunque”. Perché “caporali si nasce non si diventa!”3».

Guardai Pottutto negli occhi: «Dopo le parole del maestro, cos’altro potrei aggiungere?».

NOTE

– 1 Piero Calamandrei, Lo Stato siamo noi, 1955: “desistenza” è un termine usato da Calamandrei in opposizione a resistenza. Mentre quest’ultima è impegno e attivismo, la prima è passività e rassegnazione.

– 2 Etienne De La Boétie, Discorsi sulla servitù volontaria, 1576.

– 3 Siamo uomini o caporali, film, 1955.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Disegno: Pippo Rizzo, In Marcia, 1920