18- Perché fa paura l’anarchia

N. 18

 

Il pubblico ministero invitò la signorina Servile ad aprire la finestra. «Metta questo a contrasto!». Dalla tasca della giacca tirò fuori un codice di procedura penale.

La segretaria lo appoggiò fra le persiane.

Stavo per riprendere a parlare che dalla strada si levò un urlo straziato. Mi voltai e il codice non c’era più.

«Signorina? Aggiunga al capo d’imputazione le lesioni aggravate!» le ordinò Pottutto.

Non volevo dargli soddisfazione replicando che ce l’aveva messo lui, così: «Perché vi fa tanto paura l’anarchia?» lo sferzai. «L’anarchia non è caos e non è disordine. Non è anomia, né acrazia. E allora perché?»

«Perché?» ripeté Pottutto. Guardò Manganello, poi giochicchiò con la penna prima di squadrarmi: «Scarpe da ginnastica consumate, jeans strappati, maglietta stropicciata… Solo un anarchico può presentarsi in questo modo a un interrogatorio!»

«Ma se mi hanno arrestato mentre giocavo a calcio!»

«Perché, lei non può giocare a calcio come tutte le persone civili con un bel completino di flanella, la camicia chiara e la cravatta in tinta unita?».

Il maresciallo lo tolse dall’imbarazzo: «Lo so io!» disse. «Perché quando ci sono le manifestazioni, siete gli unici che reagite alle nostre legnate!»

«E vi facciamo pure male!» sfoggiai un sorriso amichevole. «Ma non può essere per qualche bernoccolo che ci odiate tanto, no?».

Pottutto sfogliò i fogli del mio blog cercando la risposta.

Manganello si arricciò la ciccia dell’avambraccio.

«Siete dei sovversivi!» disse il primo.

«Ma questo è un complimento!» replicai ironicamente. «Se ci lasciaste vivere come vogliamo, nessuno sovvertirebbe niente. Invece volete che ubbidiamo, che ci adeguiamo al regime, che reprimiamo la nostra volontà per soddisfare la vostra!»

«Perché la nostra è quella giusta?» replicò Manganello.

«Se amate essere servi, servite pure. Ma non pretendete che tutti lo siano!»

«Non è possibile!» intervenne Pottutto. «Lo Stato non può accettare che qualcuno lo sia e altri no. Si creerebbero delle intollerabili discriminazioni. È una questione di eguaglianza. Lei che fa tanto il saputello saprà che l’articolo tre della Costituzione dice che siamo tutti uguali!»

«Ci sono!» esclamò Manganello appoggiando il ventre sul tavolo. «Voi anarchici siete violenti!»

«Violenti noi? Ma se siamo anti-violenti per definizione? Ovviamente se veniamo provocati, rispondiamo. Ma non c’è niente di violento in quello che diciamo e facciamo.»

«È sempre una violenza fare ciò che non si deve fare!» gongolò Pottutto.

«Direi che violenza è costringere a fare ciò che non si vuole fare!» rilevai. «Quindi se obbedissimo senza lamentarci saremmo dei bravi cittadini? Sa che non avevo mai considerato questa prospettiva? Quasi quasi quando esco ne parlo coi ragazzi. Poi torno e vi riferisco. Okay?… Ma non scherziamo! Che il Potere ci dia la possibilità di organizzarci, che non ci imponga le sue leggi, che non ci obblighi al suo sistema economico, che non ci opprima con la sua religione e la sua morale. E allora andremo tutti d’amore e d’accordo!»

«Non faccia l’ingenuo, sa che questo non è possibile!»

«Certo che lo so. Perché lo Stato pretende di essere il dominatore assoluto». Cambiando tono: «Mi dispiace deluderla, ma noi obbediamo solo alla nostra ragione, al nostro istinto, alla nostra volontà

«E allora prendetevi le manganellate!». Manganello si stizzì.

«Lo lasci perdere, maresciallo!». Pottutto lo redarguì. «Quanto a lei» tornò a me, «è la storia a dire che siete violenti!»

«La storia scritta da chi?» gli replicai. «C’è stato solo un periodo, quello della così detta propaganda del fatto fra la fine dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale in cui gli anarchici hanno pensato di reagire all’oppressione con azioni dirette contro i simboli del potere. Si trattava però di pochi, isolati idealisti che speravano di risvegliare le masse. Sono tutti morti sul campo o finiti in prigione.»

«Allora gliene dico un’altra: non si capisce cosa volete!» si esaltò il pubblico ministero.

«Ma l’ho già ripetuto un’infinità di volte: vogliamo solo vivere la nostra vita senza che nessuno ci dica cose fare

«Non mi sono spiegato. Lo Stato ha bisogno di certezza, anche quando si parla di nemici. Voi invece siete un casino totale: uno dice una cosa, uno ne dice un’altra… insomma, che palle!»

«L’anarchia è pluralista per definizione. Per questo dovete rassegnarvi a non poterla controllare. Non abbiamo una segreteria di partito che ordina come dobbiamo pensare e cosa dobbiamo fare, non abbiamo un leader, non abbiamo un movimento omogeneo…»

«Però capisce che così…!». Pottutto fece una faccia spazientita. «Almeno un ufficio di pubbliche relazioni, una sede, un capo da arrestare ogni tanto… Ogni volta sembra di ricominciare dall’inizio!»

«Per noi la figura del capo è inammissibile

«Ma per noi sì!»

«Lo vede?»

«Lo vede cosa?»

«Che ho ragione. Per voi è inconcepibile che possiamo agire senza un leader perché siete il prodotto della società del dominio: una società in cui ci sono dominanti e dominati, chi dà gli ordini e chi obbedisce. Siete come quegli europei che raggiunsero le coste del Sud America e quando trovarono gli indigeni che vivevano in una società senza fede, senza legge, senza Re, quindi senza gerarchia, li considerarono incivili. Non vi capacitate di come le persone possano unirsi, organizzarsi, autogestirsi, senza che qualcuno si imponga sugli altri. Siete talmente succubi del principio di autorità che, se non foste servi dello Stato, con la stessa fierezza lo sareste di qualcos’altro. Per questo ridiamo di voi esattamente come facevano gli indigeni quando osservavano gli europei che davano gli ordini e obbedivano1

«Le faccio notare che quella società del dominio, che le piace tanto svilire, ha portato la civilizzazione

«A dire il vero, ha portato parecchio sterminio di massa. La civilizzazione è solo la creazione di nuovi spazi di mercato da sfruttare per aumentare il profitto di chi non si accontenta di quel troppo che già possiede!» replicai a denti stretti. «Penso che la narrazione liberal-capitalista da una parte e comunista dall’altra abbiano paura. Paura della nostra libertà, della nostra determinazione, della nostra capacità di autogestione che minaccia il loro dominio. Per questo ci ostacolano, ci reprimono, ci denigrano. Zinn diceva: finché le lepri non avranno i loro storici, la storia sarà raccontata dai cacciatori2. Ma attenzione, che la storia è in continuo divenire e ciò che oggi sembra certo, domani chissà!».

Per qualche secondo mi fissarono inespressivi.

Poi Manganello ruppe il silenzio: «Adesso che c’entrano le lepri?».

 

 

NOTE

 

1 – Aneddoto raccontato da Pierre Clastres in Anarchia Selvaggia, Eleuthera Edizioni, 2017.

2 – Howard Zinn, 1922-2010, storico, saggista. Citato da Isabelle Attard in Perché sono diventata anarchica, Eleuthera Edizioni, 2021.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi, costanzaghezzi@gmail.com

Immagine: Renè Magritte, L’arte di vivere, 1967

 

17- Non ci sono poteri buoni

N 17  

 

Improvvisamente bussarono alla porta.

Con passo felpato e un vassoio fra le mani, entrò la stessa tracagnotta in uniforme che ci aveva lasciati prima che cominciasse l’interrogatorio.

«Ecco le sue schiacciatine!» disse con entusiasmo da bersagliera. «Dove le appoggio?»

«Le metta qui!». Pottutto liberò lo spazio davanti a sé. Poi la sua espressione da labrador si trasformò in Mefistofele cacciato dal Regno dei Cieli: «Le avevo chieste coi ciccioli!»

«Li avevano finiti!» tremò la poverina.

«Dottore sono buonissime!». Il maresciallo ne stava mangiucchiando una strisciolina. «Glielo dica anche lei!» mi coinvolse.

«Gustosissime!» confermai.

«Una prelibatezza!» grugnì ancora il maresciallo, la cui mano venne colpita dal righello sciabolato da Pottutto mentre ne afferrava un altro pezzo.

Il magistrato addentò e fu come Ego quando assaggia la Ratatouille1.

Con un gesto solerte Manganello sollecitò la tracagnotta a sloggiare.

Il pubblico ministero riaprì gli occhi appagato: «Certo che questo benedetto potere è proprio un’ossessione per voi anarchici!». Pulì fra i denti con l’unghia del mignolo.

«Ossessione? Direi proprio di no!» lo corressi. «Posso?» indicai la bottiglietta d’acqua.

Dalla tasca della giacca ne tirò fuori una vuota: «La prenda là!». Indicò il bagno.

Mi tenni la sete e: «Il potere è maledetto! diceva Bakunin. Esso genera gerarchia, subordinazione, obbedienza, oppressione e tutto ciò che rende il mondo un posto malvagio. In una parola: diseguaglianza. E una società fondata sulla diseguaglianza non sarà mai il luogo in cui gli individui potranno essere felici!»

«Ah, no?»

«Eh, no!» sorrisi. «Senza eguaglianza non c’è libertà. E viceversa. Infatti, sempre il russo diceva: la libertà degli altri, lungi dall’essere un limite o la negazione della mia libertà, né è al contrario la condizione necessaria e la conferma. Non divengo veramente libero se non attraverso la libertà degli altri, così che più numerosi sono gli uomini liberi che mi circondano, più profonda e ampia è la loro libertà, più estesa, più profonda e più ampia diviene la mia libertà

«A me non dispiace se qualcuno mi dice cosa fare!»

«Tipo essere libero di scegliere fra obbedire o obbedire? Servitù volontaria, la chiamava quel giovanotto impertinente di Étienne De La Boétie nel XVI secolo. All’età di diciotto anni scrisse un libretto talmente rivoluzionario che venne pubblicato post-mortem in cui affermava che l’uomo viene educato alla servitù, si adatta alla servitù, accetta la servitù, a tal punto che le persone non conoscono altro che lo stato di servitù e si accontentano e sopportano, aspirando a compiacere il sistema per poter godere e partecipare dei piaceri offerti, godendo e gratificandosi della miseria di coloro che invece non riescono a farlo. Cionondimeno invitava gli uomini a liberarsi dal giogo: decidete di non servire più, e sarete liberi2. Auspicava, infatti, la rivolta individuale per diventare ciò che Stirner, quattro secoli dopo, avrebbe definito essere padroni di se stessi

«Sinceramente io tutti questi servi non li vedo!» obiettò Pottutto. «Lei ne vede, Manganello?»

«Magari!» crocchiò il maresciallo. «Qui non si finisce mai di lavorare!».

Riprese il PM: «Lei confonde la sana coercizione che garantisce la disciplina con la schiavitù». Si volse verso il maresciallo: «Che ne pensa, Manganello?»

«Ineccepibile!»

«Che ho detto?»

«Che se gli anarchici vanno affanculo si sta tutti meglio?».

Pottutto gli strappò dalle mani il foglio sul quale disegnava quello che con molta fantasia poteva essere un cavallo.

«È un cane!» precisò il maresciallo.

«Lei parla di disciplina» dissi. «Quindi di legge. Ma chi fa la legge?»

«Il Parlamento, naturalmente!»

«Fuochino!»

«La forza!» seguì un sorprendente Manganello.

«Bravo maresciallo!». Si meritava i complimenti. «In una società fondata sul dominio, solo e soltanto il più forte detiene il potere. A volte in maniera violenta come nei totalitarismi, altre in maniera subdola e manipolatrice come nelle democrazie. Potere che definisce i comportamenti che la massa deve necessariamente osservare. Si chiama ordine sociale e il suo scopo è consentire al Potere stesso di sopravvivere, crescere, perpetuarsi.»

«E fin qui è una filastrocca già sentita. Se adesso ci facesse magari qualche nome!».

Lo ignorai: «Cosa indica il termine Potere?». Perché non si sforzassero troppo: «Ve lo dico io. Nella società del dominio il più forte è sempre e soltanto il più ricco, colui che domina dalla piramide di lingotti, azioni, monete su cui è seduto, dando ordine ai governi e al vassallaggio di menare gli schiavi perché non smettano di lavorare alla sua edificazione.»

«Quindi?»

«Quindi propongo la lettura di una bella poesia sul Potere» dissi.

«No, la poesia no!» gorgogliò Pottutto.

«Pure sul potere!» seguì Manganello.

«Non è proprio una poesia, ma l’estratto di una canzone…»

«Manganello, vada a prendere il mangianastri!»

«Non serve!» dissi. «Basta il testo… legga pure a voce alta!»

«A voce alta?»

«A voce alta!».

Pottutto prese un respiro profondo e:

 

Certo bisogna farne di strada

da una ginnastica d’obbedienza

fino ad un gesto molto più umano

che ti dia il senso della violenza

Però bisogna farne altrettanta

Per diventare così coglioni

Da non riuscire più a capire

Che non ci sono poteri buoni3

 

Il magistrato tolse fiaccamente gli occhiali e mi fissò implorandomi di parlare per primo.

«Per il momento limitiamoci a constatare che non ci sono poteri buoni!» dissi senza aggiungere altro.

«Tutto qui?»

«Mi conceda un po’ di suspense!»

 

NOTE

1 – Ratatouille, film di animazione della Pixar Animation Studios, 2007.

2 – Etienne de La Boétie, Discorso della servitù volontaria, 1548.

3 – Fabrizio De André, Nella mia ora di libertà, nell’album Storia di un impiegato, 1973.

 

uditing a cura di Costanza Ghezzi, costanzaghezzi@gmail.com

Immagine: Andrè Martin De Barros, Golgota, 2007

16- L’anarchia non è utopia

N 16 

«Questo concetto di comunità proprio non mi va giù!» grugnì il pubblico ministero.

«Ci facciamo portare un Jagermeister?»

«Non ho capito!»

«Per buttare giù!» dissi con leggerezza disincantata per non ferire il suo orgoglio suprematista.

«Questa idea di comunità di cui mi ha parlato dà per scontato una fiducia nel prossimo che… perché?»

«Perché?»

«Già, perché?» mi pressò anche il maresciallo.

«Soprattutto come?»

«In che senso come?»

«Come fate ad avere tutta questa fiducia? Il prossimo è sempre lì, in agguato, pronto a saltare addosso, a rubare il posto, ad approfittare delle debolezze, ad agguantare quello che è tuo». Con un gesto della mano mi invitò ad avvicinarmi: «Le faccio vedere cosa intendo!» mi sussurrò nell’orecchio.

Dalla tasca della giacca prese un pacchetto di patatine. Lo aprì, né mangiucchiò qualcuna, lo pose sul tavolo vicino a Manganello, si volse verso la signorina Servile. Mentre confabulava con lei, il maresciallo allungò furtivamente la mano e ne afferrò una manciata.

«Maresciallo!». Il PM si girò di scatto. Gli ordinò di risputarle. E a me: «Ha visto cosa intendo? Ecco perché la sua idea di fratellanza mi sembra molto ingenua!».

«Gli esperimenti di psicologia sociale di Milgram le fanno un baffo!1» scherzai. «Sa che in una sua poesia Pasolini diceva che l’ingenuità è un’eroica vocazione a non arrendersi mai?2. Era sempre molto estremo nelle sue passioni, come tutti i grandi artisti. Ma aveva ragione. Perché l’ingenuità può essere solo quella dello sprovveduto che crede agli asini che volano perché così gli hanno detto, ma anche quella del fiducioso, che non teme di lottare per ciò in cui confida. Gli anarchici sono così, non si stancano mai di praticare l’ideale che hanno dentro, pur essendo legati alla realtà più che all’illusione… Sa cosa diceva Graeber?».

«Chi, il cantante magrolino che ce l’aveva con la politica?»

«No, quello è Gaber3, E comunque Giorgio Gaber non era solo un cantante… Parlo del filosofo David Graeber. Vada all’articolo del 1.7.23. Se legge dove ho sottolineato…».

Pottutto scorse un paio di volte: «Tutto?»

«Dia a me!». Presi il foglio: «A chi dice che gli anarchici sono dei folli ingenui, Graeber risponde con Kropotkin, per il quale ingenui sono coloro che assegnano a qualcuno il ruolo di magistrato, con poteri di vita o di morte sugli altri esseri umani, nella convinzione che rimarrà sempre giusto e imparziale. E all’ulteriore obiezione che ci saranno sempre al mondo degli stronzi egoisti che si preoccuperanno solo di se stessi, replica che non ci sono dubbi, al mondo ci saranno sempre degli stronzi egoisti, anche in una società senza Stato, ma almeno non saranno al comando di un esercito4». Restituii la pagina. «È più chiaro adesso?». Guardandoli negli occhi capii che niente lo fosse. «Dapprima dice che i veri ingenui non sono gli anarchici, ma coloro che credono nell’infallibilità delle istituzioni pubbliche, senza accorgersi che l’aurea sacrale dei suoi burocrati giustifica le più immonde nefandezze di cui si fanno artefici. Poi afferma che una società antiautoritaria è comunque sempre migliore di quella in cui viviamo, poiché in essa anche il più stronzo…»

«Dopraho, moderi il linguaggio!» s’inalberò il PM.

«Mi perdoni, dottore. L’ha detto lui!»

«Chi, Manganello?»

«Graeber!»

«Quello che canta?»

«Il filosofo!» dissi. «Che sottolinea come in una società antiautoritaria anche il più eccetera eccetera, farebbe meno danni di quanti ne potrebbe fare in quella in cui viviamo.»

«Ha detto tutto questo?».

Dalla tasca della giacca Pottutto tirò fuori una Red Bull. Riempì il bicchiere di plastica piegandolo come si fa per evitare che la birra crei la schiuma, bevve d’un fiato. Appoggiò la lattina sul tavolo. «Prenda pure!» offrì al maresciallo.

«Grazie!» esclamò questi sorpreso.

La afferrò e subito la strizzò stizzosamente. Era vuota.

 

«Premetto che me ne frego delle vostre motivazioni…» disse Pottutto.

«Giusto. L’indifferenza è la cura degli inetti!» osservai.

«Non so cosa c’entrino gli insetti, ma volevo dire che, secondo me, l’anarchia è un’utopia!» esclamò col tono del PM che inchioda l’interrogato innanzi a una prova schiacciante.

«Lo dicono in tanti!» glissai. «A questa critica potrei rispondere in un’infinità di modi diversi» dissi. «Potrei citare uno dei miei autori preferiti, Gaston Piger, per il quale l’anarchia è utopia se messa in mano a donne e uomini con la testa infarcita dalla logica del dominio e della competizione e che, aggiunge, preferiscono la sicurezza delle catene e la deresponsabilizzazione della dipendenza5. Potrei rispondere con Amedeo Bertolo, per il quale l’anarchismo esprime la speranza e la volontà di una trasformazione sociale talmente radicale, talmente in contraddizione con l’ordine esistente, da rendere possibile una fortissima tensione utopica6. Potrei citare Pippo Guerrieri per cui tutta la storia è un tentativo di realizzare un’utopia7, oppure Tolstoj per il quale non possiamo conoscere i particolari del nuovo ordine di vita, dobbiamo crearli noi stessi perché la vita consiste nella ricerca dell’ignoto, nell’opera di armonizzazione delle nostre azioni con la nuova verità8. Mi soffermo su Emile Armand, per il quale l’anarchia è uno straordinario slancio ideale antagonista alla staticità reazionaria. Egli, infatti, dice: la lotta non cesserà mai. E mai, fortunatamente, il regno dell’uniformità si estenderà sulla terra, stagnante, monotono e mortifero. Vi saranno sempre dei protestatari, dei ribelli, dei refrattari, degli isolati. Vi saranno sempre dei marginali, dei fuori legge, dei recalcitranti, dei critici, dei ragionatori, dei negatori. Vi saranno sempre degli esseri che ameranno e odieranno vigorosamente. Vi saranno sempre dei passionali, dei non conformisti, dei perturbatori. Vi saranno sempre degli a-morali, degli a-legali, degli a-sociali. Vi saranno sempre gli antiautoritari9». Sollevai lo sguardo. «Bello, eh?»

«Mi si raggriccia la pelle!» mi canzonò il pubblico ministero. «Ma allora come la mette con la morte delle utopie?».

Confessai che non mi aspettavo una domanda così arguta: «Se per utopie si intendono quei sistemi che regolamentano ogni aspetto della vita quotidiana, l’episteme in generale, come direbbero i cattedrati, credo che non esistano più. La tecnologia ha cancellato l’immaginazione e senza immaginazione… Lei guarda la televisione?»

«Certo che la guardo. Come tutti, suppongo.»

«Lei la guarda?» chiesi a Manganello.

«Sto fisso su Fox Crimes!». E col suo solito sorriso edentulo: «C’è sempre da imparare!»

«Perché, lei non guarda la TI-VI?»

«Mi annoia» dissi.

«Tipico di voi intellettualoidi!»

«Trovo molto più divertente fantasticare.»

«Intellettuale e sognatore… la razza peggiore!»

 

 

NOTE

1 – Esperimento di Stanley Milgram realizzato nel 1961 per dimostrare la subordinazione dei soggetti innanzi all’autorità.

2 – Pierpaolo Pasolini, Il sogno della ragione, poesia contenuta nella raccolta Poesia in forma di rosa, 1964.

3 – Giorgio Gaber, cantautore, musicista, cabarettista, semplicemente un artista, 1939-2003.

4 – David Graeber, Dialoghi sull’anarchia, Eleuthera edizioni, 2019.

5 – Gaston Piger, Signorina anarchia, Ortica Editrice, 2021.

6 – Amedeo Bertolo, Anarchici e orgogliosi di esserlo, Eleuthera ed., 2017.

7 – Pippo Guerrieri, L’anarchia spiegata a mia figlia, BFS Edizioni, 2010.

8 – Tolstoj citato da Woodcock in L’Anarchia, 1966.

9 – Emile Armand, Vivere l’anarchia, Cassa Anti Repressione edizioni, 1983.

 

editing a cura di Costanza Ghezzi, costanzaghezzi@gmail.com

in foto Blue King di Moustaki

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Per chi volesse lasciare il suo commento, postare qualcosa, fare domande, può farlo scrivendo a RAIMONDOMARIADOPRAHO@GMAIL.COM

No volgarità

No offese

No foto porno

STORNELLI D’ESILIO, di PIETRO GORI, 1895

STORNELLI D’ESILIO di Pietro Gori

 

O profughi d’Italia

a la ventura

si va senza rimpianti

né paura.

 

Nostra patria è il mondo intero

nostra legge è la libertà

ed un pensiero

ribelle in cor ci sta.

 

Dei miseri le turbe

sollevando

fummo d’ogni nazione

messi al bando.

 

Nostra patria è il mondo intero

nostra legge è la libertà

ed un pensiero

ribelle in cor ci sta.

 

Dovunque uno sfruttato

si ribelli

noi troveremo

schiere di fratelli.

 

Nostra patria è il mondo intero

nostra legge è la libertà

ed un pensiero

ribelle in cor ci sta.

 

Raminghi per le terre

e per i mari

per un’Idea lasciamo

i nostri cari.

 

Nostra patria è il mondo intero

nostra legge è la libertà

ed un pensiero

ribelle in cor ci sta.

 

Passiam di plebi varie

tra i dolori

de la nazione umana

precursori.

 

Nostra patria è il mondo intero

nostra legge è la libertà

ed un pensiero

ribelle in cor ci sta.

 

Ma torneranno Italia

i tuoi proscritti

ad agitar la face

dei diritti.

 

Nostra patria è il mondo intero

nostra legge è la libertà

ed un pensiero

ribelle in cor ci sta.

15 – Bene comune dello Stato vs bene comune dell’anarchia

N 15

«Ho detto che l’anarchia ha come fine il bene comune. Ma attenzione, anche lo Stato dichiara di voler realizzare il bene comune. E lo fa avvalendosi dei suoi mestieranti più agguerriti. Quando i vari politici, giornalisti, burocrati, scosciate, scrittori, artisti, prostituiti vari e tutti coloro che altrimenti dovrebbero lavorare evocano il bene pubblico come fine perseguito dallo Stato, mentono sapendo di mentire.»

«Ora non mi faccia la solita morale!»

«È un rischio che si corre sempre quando si disprezza!» replicai. «L’esempio è il legalismo imperante: fatua adorazione del sacro paganizzato! Peccato che lo Stato di divino abbia ben poco, visto che con la legge fa il proprio interesse, realizza il proprio profitto, legittima il proprio bene. E non mi riferisco solo allo Stato dei gentiluomini che lo governano, dei burocrati che ne consentono la conservazione o delle canaglie che se ne servono, ma a quello proprio dell’ordinamento stesso che si concretizza nell’assolutezza morale e materiale indispensabile alla perpetuazione di se stesso.»

«Molto qualunquista!»

«Il potere è reazionario per definizione. Lo dimostra il fatto che tanti di quei dei diritti civili che attribuiamo alla politica illuminata sono stati conquistati attraverso una massiccia contestazione extra-istituzionale sotto forma di sommosse, attacchi alla proprietà, dimostrazioni violente, espropri, incendi, sfide aperte, minaccia ai poteri costituiti1. Quando la politica legifera simulando un qualche interesse verso il popolo è solo per circoscrivere il malessere sociale che pregiudicherebbe la sua stabilità, oppure per riattizzare il capitalismo, che altrimenti stagnerebbe o regredirebbe. Sempre la stessa storia: captato il disagio, la politica lo argina aumentando o definendo nuove forme di controllo sociale!». Feci una pausa per ripartire con slancio: «Ditemi una cosa che lo Stato fa per i cittadini di sua iniziativa?».

Mentre il PM si lisciava la barba, «Le strade!» esclamò il maresciallo.

«Ma se l’altro giorno è venuto a prendermi perché un cratere mi aveva sfasciato la ruota dell’auto!» lo riprese Pottutto.

«Allora la sanità!»

«Lasci perdere!». Stavolta Pottutto si strappò un ciuffo dalla basetta: «Piscio saette da tre settimane e quei bastardi mi hanno fissato l’urologo fra nove mesi!»

«Ha provato con gli ortaggi? Sono pieni di vitamine… E se dico la scuola?». Di nuovo il maresciallo.

«Sulla scuola, potrei anche darle ragione» dissi. «Come luogo di addestramento all’obbedienza è assai efficiente!»

«Faccia poco lo spiritoso!» mi redarguì Pottutto.

«Esatto. Faccia poco lo spiritoso!» ripeté Manganello.

«Non mi avete ancora risposto!» sogghignai.

Ci pensarono.

«La giustizia!». Pottutto si accese.

«Se i magistrati fossero tutti come lei!» ironizzai.

Mi dette ragione.

«Ci sono: il Papa!». Di nuovo Manganello.

«Sta in un altro Stato!» lo corresse Pottutto.

«Come dottore, hanno spostato Roma?»

«Manganello, mi faccia una cortesia: si limiti a prendere appunti!».

E a me: «Adesso basta!» ruggì. «Se volevo rispondere alle domande a trabocchetto andavo al Quiz Show!»

«Ha ragione» dissi. «L’importante è che sia chiaro che il bene pubblico di cui tutti si riempiono la bocca fa solo l’interesse di chi sta lassù…». Puntai il dito verso l’alto.

«Persecuzio?» chiese il pubblico ministero allarmato.

«Che c’entra il procurato capo?»

«È nell’ufficio proprio sopra di noi!»

«Il bene comune di cui parla l’anarchia, invece, tiene conto delle personalità, degli interessi, delle aspirazioni reali di ogni individuo. Sorge dal basso e si sviluppa con la condivisione, l’unione delle singole aspirazioni per uno scopo condiviso: la comunità di egoisti, o più semplicemente comune, gruppo, clan, associazione, agglomerato, soviet addirittura. Qualunque struttura organizzata in maniera autonoma, antigerarchica e autogestita2, dove le persone si uniscono per condividere un obiettivo. Ed è con questa comunità partecipata che l’anarchia realizza la sua etica».

Potutto emise una smorfia poco convinta. «Qualcosa non quadra». Inforcò gli occhiali e lesse gli appunti: «Parla prima di individualità, poi di comunità. Ma se io sto bene per conto mio perché devo condividere con gli altri?»

«Ciascuno è libero di fare quello che vuole e nessuno può e deve ostacolarlo. Se a lei piace vivere un’esistenza ascetica è una sua scelta. Posso non condividerla perché credo che l’isolamento sia pur sempre una condizione transitoria, se non estintiva. Anche quando è una fuga necessaria, arriva il momento in cui l’individuo deve relazionarsi e allora la questione si porrà nuovamente e forse in maniera più esasperata perché avrà perso l’abitudine alla convivialità. Ciò detto, se lo spirito comunitario fosse imposto dall’alto sarebbe l’ennesimo dispotismo. Le faccio l’esempio del Kibbuz, quel modello di società cooperativa ebraica i cui membri si impegnavano a realizzare pratiche anarchiche come limitare l’autorità, abolire le gerarchie, favorire la partecipazione diretta. La regola era che i bambini venissero sottratti alle famiglie biologiche fin da piccoli affinché la comunità provvedesse alla loro educazione. In questo modo crescevano come essa voleva, acquisendone i principi e i valori. Principi e valori che, a prescindere dalla loro giustezza, erano pur sempre imposti dal gruppo sociale, pertanto non scelti. Pur partendo da premesse libertarie quindi, i suoi seguaci utilizzavano un metodo che non aveva niente a che vedere con la naturalità e la spontaneità. E senza naturalità e spontaneità, cioè senza una scelta libera, dove per libera intendo che porti a una personalità cosciente, non si realizza l’etica anarchica. Per questo l’anarchia non impone modelli. Al massimo spiega e consiglia affinché ciascuno scelga consapevolmente la propria via. Come diceva Ghandi: “la morale non sta nel seguire una strada già battuta, ma nel scegliere la propria e percorrerla senza paura”».

«Dopo Ghandi manca Einstein e poi li ha citati tutti!». Pottutto sghignazzò soddisfatto per la battuta. Poi cambiò intensità: «Le ricordo che ancora non mi ha dato un nome!»

«Non si agiti, abbiamo appena cominciato!».

 

NOTE:

 

1 – James Scott, Elogio dell’anarchismo, Elèuthera edizioni, 2014.

 

2 – Colin Ward, Anarchia un approccio essenziale, Elèuthera edizioni, 2014.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi– www.costanzaghezzi.com

Immagine: Giacomo Balla, Motocicletta, 1913.

14 – Cos’è il bene comune

Il pubblico ministero aggrottò le sopracciglia. Sguardo indagatore e denti che mordicchiavano il labbro. «Qualcosa non mi torna. Finora ha parlato di individualità. E l’individuo fa questo, e l’individuo fa quello, e l’individuo su e l’individuo giù. Ora parla di umanità. Mi sembra una contraddizione!»

«Una contraddizione?» chiesi.

«Manganello, lei non ci vede una contraddizione?»

«Dotto’». Il maresciallo si compresse. «Io so solo che devo andare in bagno!»

Lo seguimmo trotterellare verso la porta.

«Collega, devo passare!» si rivolse alla Sfinge davanti ad essa, che sembrava non avere alcuna intenzione di scansarsi. Gli batté la mano sulla spalla, gli pizzicò la guancia, gli tintinnò il pacco, gli puntò la pistola in un occhio. Niente.

«Bravo figliuolo, fossero tutti ligi come te!». Gli schiaffeggiò bonariamente la faccia. «Però adesso fammi il piacere…!»

«Maresciallo?». Pottutto lo richiamò.

«Sì, dottore?… Là, dottore?». Indicò la porticina che stava fra la segretaria e la parete. «Ma è alla turca!» eccepì. «Mi arrangio!». Si chiuse dentro. La riaprì. «Spiace se la tengo aperta? Manca la luce!»

«Torniamo a noi» bramì il PM. «Mi stava dicendo?»

«Mi ha chiesto perché sono passato dall’individuo all’umanità. La risposta è molto semplice: l’anarchico tiene alla libertà più di ogni altra cosa, dice Gaston Piger1. Ma è cosciente che se fosse finalizzata al sé, la vita sarebbe un vagare senza approdo. L’individuo, infatti, prova un senso di compiutezza solo quando si percepisce come parte di un tutto. Questo tutto è l’umanità, cioè la vita, che scorre e diviene insieme alle cose del mondo. In altre parole, egli coglie la propria essenza quando non agisce spinto dall’egoismo, ma dal desiderio di realizzare il bene comune. E il bene comune è l’interesse condiviso. Innanzi tutto condivisione dell’antiautoritarismo, principio supremo che accumuna i ribelli e salda il pluralismo fra comunità. Ma anche lo scopo che unisce i membri di una comunità, non necessariamente affine a quello di un’altra, benché accumunati dalla lotta contro ogni forma di dominio. Questa è la nostra idea di giustizia. Una concezione che, senza remore, si impregna di ottimismo antropologico, per cui l’uomo è cooperativo e capace di controllare la propria aggressività, come direbbe Alfie Kohn, e non aspetta altro che godere della propria essenza».

Sbatté la porta del bagno e il maresciallo trotterellò nella stanza: «Mi sono perso qualcosa?»

«Stavo per citare Bakunin».

Tornò dentro e chiuse a chiave. Qualche secondo e riaprì.

 «Scherzavo!» disse divertito.

«Dice il filosofo: “Noi crediamo nei diritti degli uomini, nella dignità e nella necessaria emancipazione della specie umana. Noi crediamo nella libertà e nella fraternità umana fondata sulla giustizia. In una parola, crediamo nel trionfo dell’umanità sulla terra”.»

«Che sarebbe?»

«Che sarebbe?» ripetei. «Cosa vuol dire essere uomini secondo voi?».

Pottutto liberò un’espressione tipo Franco Califano di fronte a una bella donna. «Glielo devo proprio dire?»

«E lei?» chiesi a Manganello.

«Ho sei figli… Non c’è bisogno di molte spiegazioni!»

«Bella visione maschio-centrica!» mi complimentai con entrambi. «L’uomo è un corpo». Mi sfiorai il braccio. «Dentro il corpo cosa c’è?»

«Ci sono gli organi» rispose Pottutto.

«Sicuramente. Oltre quelli?»

«Le vene?» ci provò Manganello.

«Siamo fatti di intelletto, istinto, sentimenti. In una parola: volontà. Siamo gli unici esseri viventi a possederlo?».

Entrambi finsero di non aver capito.

«Probabilmente no. Di sicuro però siamo la specie più evoluta, nel senso che può sfruttare la consapevolezza di sé per progredire. E come si progredisce?»

«Che lo chiede a noi?»

«È una domanda retorica» dissi. «Premendo un bottone dalla mattina alla sera e vegetando stremati il resto del tempo davanti a uno schermo per dimenticare, chi si è? Indebitandosi fino alla tomba per quattro mura? Bramando quell’ammorbidente di cui il comico sembra non possa fare a meno? Non scherziamo! La vita dell’uomo moderno, che lavora e consuma è una merda!»

«In effetti!». Pottutto sospirò. «Anch’io odio fare shopping la domenica con mia moglie!»

«In questo mondo in cui siamo meri ingranaggi, che fine fanno la ragione, l’istinto, il sentimento? Kaput! Arrivederci! Au revoir! Auf wiedersehen! Bye bye! Siamo stati educati a concepire la vita in funzione del lavoro, il lavoro in funzione del consumo, il consumo in funzione dell’esistenza. Ecco perché siamo infelici!»

«Non vedo molte alternative!»

«Le alternative sono due: o il meglio ubriachi che rotelle dell’ingranaggio2, o una rivoluzione culturale e pratica che ci restituisca la nostra umanità in armonia con l’equilibrio naturale delle cose, spogliandoci del superfluo, sottraendoci alla manipolazione dell’artificio. Basta poco per essere felici: relazioni umane faccia a faccia e un rapporto diretto con la natura. Tutto il resto è deturpazione del nostro essere, alterazione delle nostre attitudini, negazione della spontaneità. Quindi ansia, preoccupazione, infelicità.»

«Dove vuole arrivare, Dopraho?»

«Dove sono arrivato» dissi. «L’anarchia mira a costruire una società in cui le relazioni siano in armonia fra loro e si sviluppino in un ambiente che le aiuti a evolversi.»  

«Tutto qui?»

«Se le sembra poco!» dissi. «Sul primo punto tornerò. Sul secondo, invece, mi preme sottolineare che il rispetto dell’ambiente, cioè la sensibilità ai problemi ecologici, diversamente da quello che tanti credono, non è un fenomeno recente. Rousseau, Thoreau, Kropotkin e tanti altri ne parlavano secoli fa. Sul presupposto che l’individuo è parte di un tutto, molti di quei filosofi si opponevano alla tecnologia, all’industrializzazione, a tutti gli antropocentrismi che la mettono a rischio. Negli ultimi anni al dramma provocato dal progresso scientifico-tecnologico, l’anarco-ecologismo ha reagito realizzando molteplici azioni dimostrative contro il sistema, sempre più arrogante, aggressivo e distruttivo…»

«Più parla, più mi sembra Savonarola!3». Pottutto mi interruppe.

«Non farete bruciare sul rogo anche me?»

«Noi siamo civili. L’aspetta una bella cella d’isolamento per il resto dei giorni!»

«La ringrazio!»

«Non c’è di che!»

«Posso?» chiesi se potevo chiudere il concetto: «John Zerzan, ad esempio, partendo dalla critica alla civilizzazione, al consumismo e alla sofisticazione tecnologica, propone una provocatoria teoria primitivista in cui auspica il ritorno a una società di raccoglitori-cacciatori dove le relazioni umane siano improntate sul faccia a faccia, dove non ci sia divisione del lavoro, dove si creino spazi vitali radicalmente decentrati e non la realtà globalizzante e standardizzante della società di massa, in cui tutta la sfolgorante tecnologia si fonda sulla schiavitù di milioni di persone e sull’eccidio sistematico della terra4… Come soluzione è forse un po’ ardita: probabilmente le persone non sono ancora disposte a rinunciare alla comodità della vita moderna. Ma è solo questione di tempo perché capiscano che non ne posseggono più una!»

«Una società di raccoglitori-cacciatori?». Pottutto si ravvivò. «Raccogliere bacche e cacciare animali tutto il giorno? Non credo faccia per me. Con questo mal di schiena!».

NOTE

1 – Gaston Piger, Signorina anarchia, Ortica edizioni,2021.

2 – Così Aiello parlando del poeta Tao Yuanming che faceva uso di alcol “per lasciarsi alle spalle le costrizioni di una vita serrata negli obblighi del meccanismo sociale”. In Giuseppe Aiello, Taoismo e anarchia, La Fiaccola edizioni, 2017.

3 – Girolamo Savonarola, 1452-1498, fu un predicatore popolare che venne scomunicato e bruciato sul rogo come eretico.

4 – John Zerzan, Enrico Manicardi, Nostra nemica civiltà, Mimesis editore, 2018.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi. WWW.costanzaghezzi.com

dipinto: Pieter Claesz, Natura morta con prosciutto, 1870

 

N 13 – Riappropriarsi dell’umanesimo

«Okay, lo ammetto. Un po’ ridacchiavo!». E soprattutto non smettevo di farlo. Perché dopo aver immaginato il magistrato citare Proudhon, ho visto il procuratore capo…»

«Ma chi, il dottor Persecuzio?». Pottutto pigolò terrorizzato.

«Dov’è?». Manganello scattò in piedi e guardandosi intorno: «Quando l’ha visto?»

«Non l’ho visto. L’ho immaginato!»

«Perché?». Il PM in apnea. «Manganello, Dopraho sta impazzendo!»

«Non sono pazzo!»

«Infatti ho detto sta. Conosce l’italiano? Sta impazzendo: voce del verbo stare impazzendo!»

«Se non vi calmate, me ne vado!» gridai.

Fu sufficiente perché l’uno ritrovasse il suo equilibrio psicofisico manipolando la pallina di pongo e l’altro ricominciasse a disegnare sul foglio.

«E che faceva?»

«Persecuzio? Ma niente… la rimbrottava da dietro la scrivania, poi cominciava a rimpicciolirsi e rimpicciolirsi e rimpicciolirsi fino a diventare una specie di lillipuziano che lei schiacciava con la punta della scarpa. Al che lei si voltava, stringeva la mano a Serge Latouche e Michael Foucault, entrambi vestiti da paggetti, e se ne andava.»

«Allora mi prende in giro?» sbuffò il magistrato.

«Assolutamente!»

«Manganello, secondo lei mi sta prendendo in giro?».

Il commissario si arrotolò dietro l’orecchio un lembo di doppio mento: «Non saprei» disse. «Però l’agente scelto Sevizia lo farei venire lo stesso!»

«E cosa c’entra Persecuzio coi suoi amici Latorre e… Focollo?»

«Latouche e Foucault» lo corressi. «Ma niente… gliel’ho detto, la mente va per associazioni, connessioni, molto per i fatti suoi… Sa che Latouche è uno dei maggiori filosofi della decrescita?». Provai a cambiare discorso.

«Decrescita?… come Messi?1»

«Non proprio!» dissi scoraggiato. «La decrescita più che un difetto ormonale è un’economia che si limita a soddisfare i reali bisogni delle persone. E dell’anarchia dice che il suo obiettivo consiste nel condizionare le decisioni pubbliche, non nel prendere il potere. Fa l’esempio zapatista, un movimento politico e non elettivo…2 E Foucault, invece…». Mi fermai perché, sempre per quel discorso di associazioni, connessioni e così via, per un attimo desiderai esporre ai miei interlocutori la relazione fra le sue governamentalità miste e le teorie post-anarchiche di Todd May, Lewis Call, Saul Newman e tanti altri. Solo per un attimo. Quello dopo realizzai che non le avrebbero comprese neanche se avessi presentato delle mappe concettuali.

«Che è successo?» domandò il PM sorpreso dal mio improvviso incupimento.

Come se fossi stato catapultato davanti al Benefattore dello Stato Unico di Zamjatin3 e avessi dovuto spiegargli chi sono gli umani: «Vi ho detto che non condivido l’approccio collaborazionista del post-anarchismo?»

«No, eh? Sapesse noi!»

«Lo conosce?»

«Assolutamente. Ma già dal nome…!»

«Per farla breve: i pensatori post-anarchici sostengono che la società sia un reticolo di modelli che induce all’acquiescenza. L’unica possibilità di reagire al dominio è che l’azione del singolo crei una breccia di libertà che poi diventi principio condiviso che cambia il mondo.»

«E questa cosa non le piace?»

«Non è che non mi piace, trovo che insistere sulla suggestione dell’azione individuale che demolisce i muri sia alquanto retorica. I muri saltano in aria o si abbattono a picconate o franano da soli o, più sagacemente, si aggirano. Riconosco al post-anarchismo il merito di aver invalidato e abbandonato ogni fideismo nella legge morale per concentrarsi sul reale, cioè su condotte non dogmatiche ma funzionali a un determinato contesto: quello che Onfray chiama nominalismo4. Riconosco altresì che concetti come l’anarchia della quotidianità di Paul Goodman, gli atti di quotidiana resistenza di Scott, le rivoluzioni silenziose di Colin Ward offrono spunti interessanti alla coscienza e alla crescita del movimento anarchico. Dubito però, anzi sono certo, che la soluzione contro il dominio consista nello sviluppare monadi isolate prive di animus rivoluzionario.»

«Si appunti la parola monadi. Deve essere un termine in codice!» bisbigliò Pottutto a Manganello.

«Le monadi sono…». Lasciai perdere. «Quando leggo autori post anarchici, ho come la sensazione che abbiano interiorizzato l’irreversibilità. Il che, peraltro, è più che possibile dal momento che il capitalismo ha cristallizzato la cultura. Sperare che l’azione individuale cambi la realtà è illusorio quanto l’attesa del Gran Giorno. Senza considerare che la condotta isolata, anche quando parte da propositi meritori, spesso viene ingabbiata nel solipsismo, nella misantropia, nell’alienazione.»

«Non mi piacciono tutte queste parole straniere!» bisbigliò Manganello al PM.

«Gliel’ho detto maresciallo: sta parlando in codice per metterci alla prova.»

«Dice?»

«Dico, dico. Sorrida come se capisse!». Poi mi invitò a concludere.

«Concludendo, l’azione individuale è il punto di partenza, ma occorre superare il settarismo, riappropriarsi dell’umanesimo berneriano attraverso cui trasformare la consapevolezza di sé in condivisione sostanziale. Credo sia indispensabile tornare a parlare di umanità!».

Pottutto fece un’espressione da esticazzi!

Manganello scoppiò una risata tutta sputacchi e carne danzante.

«Forse è meglio se approfondisco l’argomento!»

«Anche no. Grazie!».

 

NOTE

1 – Lionel Messi, campione argentino da bambino affetto dalla Sindrome di Asperger, una malattia   ormonale che blocca la crescita.

2 – Serge Latouche, Stato e rivoluzione, in Aavv, L’anarchismo oggi un pensiero necessario, 2014.

3 – E. I. Zamjatin, Noi, Fanucci editore, 1921.

4 – Michel Onfray, Il post-anarchismo spiegato a mia nonna, edizioni Elèuthera, 2011.

Editing a cura di COstanza Ghezzi

Immagine: la Primavera di Botticelli 1480

 

“Resoconto Napadema” di Giuseppe Aiello

Pubblico il “Resoconto Napadema dell’amico Giuseppe Aiello, autore, fra gli altri dell’illuminante “Taoismo e anarchia”.

In foto il suo prossimo evento a Firenze:

 

“Non abbiamo paura delle macerie – NAPADEMA 17-19 marzo 2023
Parecchie cose cambiano in cinque anni e tanti ne sono passati rispetto all’ultima
organizzazione di “Non Abbiamo PAura DElle Macerie” – di qui in avanti Napadema –
così che il mondo quasi stenta a riconoscersi. Era questa un’iniziativa che ideammo (il
plurale non sta a indicare un collettivo, un gruppo o una comitiva, ma persone che
liberamente si accordavano senza necessità di strutturazione né di patti associativi) in
nome di una semplice constatazione: di fronte alla relativa imprevedibilità degli eventi che
portano periodicamente al bilico o al crollo delle strutture portanti delle società umane
l’unico modo che chi si propone un futuro di libera e pacifca convivenza ha, per provare
ad attrezzarsi, è quello di entrare in relazione con il saper fare, a tutto campo. A meno di
non credere nei partiti o in illuminate istituzioni, nel qual caso si può anche aderire con
fede e senza soverchie capacità critiche, caso che però non è il nostro. L’idea di separare la
distruzione dell’esistente da una pars construens rimandata a un futuro più o meno
remoto è macchinosa e poco realistica, visto che l’insofferenza concreta verso l’autorità e le
infnite coercizioni che il Dominio esercita sugli individui poco può se non si adopera al
tempo stesso alla realizzazione di una consapevolezza: bisogna avere i mezzi per
conquistarsi una libertà che così poco vale e niente dura quando è concessa dall’alto.
Primo passo: saper fare. Cosa? Qualunque cosa reputiamo vada nella direzione giusta,
nella massima corrispondenza tra fni e mezzi. Comuni, falegnamerie, cucine, case editrici,
non ha in fondo grande importanza dove va a concentrarsi il nostro intento, ma il metodo,
o più semplicemente – se la parola vi sembra opprimente – la ricerca di un percorso. Che
non è, meglio ribadire a scanso di equivoci, un ambito separato e neppure distinguibile da
quello della distruzione dell’esistente, e la soluzione non consiste nell’approntare prima
una squadra demolizioni per la società disciplinare e dopo un contesto in cui sia
fnalmente possibile edifcare qualcosa di decente; ma neppure il contrario, dove ci si può
convincere che disseminare il pianeta di esperienze libertarie sia non solo necessario ma
anche suffciente all’auspicato ribaltamento: la scissione dei due momenti è una scorciatoia
teorico-pratica umanamente comprensibile, magari utile per difendersi dal senso di
impotenza che a tratti ci assedia, ma di brevissimo respiro.
Era – è – essenziale ripartire dopo questi anni in cui ogni pensiero di autodeterminazione è
diventato un malinconica barzelletta al cospetto della suprema autorità dello scientismo
totalitario al quale si sono entusiasticamente piegati numerosi e insospettabili evangelisti
dell’anarchismo dopolavoristico che in nome della disciplina distanziatrice si sono trovati
a dare man forte alle direttive recepite ed emesse dal livello mediano della gerarchia
planetaria – Organizzazione mondiale della sanità, multinazionali farmaceutiche, potere
politico, gente così. C’è chi oggi dice che dovremmo passare oltre, dimenticare gli appelli a
chiudersi in casa mentre le macchine delle forze dell’ordine pattugliavano il territorio,
scordarci degli invasati della vaccinazione totale e della stigmatizzazione di ogni libera
scelta; degli zelanti che da una parte inseguivano i poveri – sperando che avessero fame
così da passare, portandogli una pillola di elemosina, per paladini dell’umanitarismo – e
dall’altra chiudevano due occhi sullo spaventoso dilagare dei danni da farmaci e sul
consolidarsi di una strategia a lungo termine della quale Pftzer e compagnia costituiscono
un pezzetto mica male. Dovremmo dunque tacere degli apologeti della carcerazione
planetaria, arresti domiciliari remunerati: tumichiudi tumipaghi?
Il Sistema ha vinto su tutta la linea, eppure gli scettici della narrazione psicopandemica
uniformata non sono scomparsi.
A qualcuno piace partire da lunghe e complesse trattazioni che affrontino presupposti,
analisi e dettagli, qui il suggerimento è chiedere conforto, in nome della sintesi, a uno che
di dotte disquisizioni poco si intendeva, ma di rivoluzioni sì:
Siamo noi lavoratori che facciamo funzionare le macchine nelle industrie, che estraiamo il carbone e
i minerali dalle miniere, che costruiamo le citta… Le macerie non ci fanno paura. Sappiamo che non
erediteremo che rovine, perche la borghesia cerchera di buttare giu il mondo nell’ultima fase della
sua storia. Ma, le ripeto, a noi non fanno paura le macerie, perche portiamo un mondo nuovo nei
nostri cuori. Questo mondo sta crescendo in questo istante…
Buenaventura Durruti, 1936
L’intento non era quello di un convegno, e convegno non è stato. Abbiamo chiesto a chi
veniva da fuori e a chi invece vive e opera a Napoli di raccontarci come vanno le cose.
Sono stati presenti progetti che hanno una lunga esperienza come le edizioni La Fiaccola,
che hanno più di mezzo secolo, e Urupìa che si avvia a compiere trent’anni di vita
comunitaria in alto Salento; gruppi costituitisi in tempi abbastanza recenti come la
Falegnameria Autonoma Libertaria, che per la prima volta si è espressa pubblicamente
sulle sue pratiche correnti e intenzioni future, e chi, come Usciamo dagli sche®mi, sentì tre
anni fa l’urgenza di un segno esplicito e plateale quando le strade erano vuote e i bambini
carcerati in casa dietro ai monitor.
La ricetta per ricostruire le comunità polverizzate dal rullo compressore degli apparati
tecnoindustriali non ce l’abbiamo, ma qualcosa da mettere in campo pare di sì.
***
Santa Fede Liberata è un antico edifcio che si trova nel cuore del centro storico di Napoli,
a un passo dalle nobili piazze sulle quali si distende Spaccanapoli, un tempo farraginosa
arteria del traffco centrocittadino e oggi condotta forzata in cui la fumana turistica
esercita la sua potenza omogeneizzatrice, qui come ovunque fuisca. Era il luogo migliore
dove organizzare Napadema, forse l’unico possibile. I secoli l’hanno un po’ usurata e porta
feramente i segni del tempo: per ristrutturarla completamente ci vorrebbero diversi
milioni di euro, ma non sembra questo un evento che sarà attuato a breve termine.
Decidiamo che l’intervento inaugurale, quello che il venerdì pomeriggio dà l’avvio
all’incontro, sarà destinato alla spiegazione del sentiero sinora seguito da Santa Fede
(qualcosa potete trovare in Quale deserto fegato, pubblicato da La Fiaccola tre anni fa) che da
un’occupazione simbolica da parte di un comitato radicato nel quartiere ha attraversato
fasi variegate che hanno condotto a una parziale separazione dagli altri cosiddetti “beni
comuni” napoletani e – lo scrivo senza voler attribuire etichette di alcun genere – ad
ospitare negli ultimi anni numerose iniziative di impronta libertaria che hanno diffcoltà a
trovare spazio altrove. Napadema rappresentava anche la volontà di richiamare l’attacco
disciplinare subito nel 2020-21, e il racconto per immagini e voce del periodo in cui
sfolgoravano le prestazioni del governatore campano a base di minacce di esser bruciati
con i lanciafamme, da parte di un gruppo composto in gran parte da donne (molte di loro
insegnanti e/o mamme) che scelse di chiamarsi Usciamo dagli sche®mi. Ci hanno restituito
la consapevolezza di una delle armi più importanti che abbiamo nei confronti del Sistema,
ovvero il saper dire no, facendolo – quando si può – attraverso l’ironia, la consapevolezza e
il gioco. Viste malissimo dal gregge restiamoacasa/tsopertutti, ci hanno raccontato con
garbo e senza melodrammi delle loro iniziative nel deserto urbano e del grande e
imprevisto impatto mediatico ottenuto («i giornalisti ci telefonavano per sapere cosa
avremmo fatto nei giorni a venire!»). Da quel gruppo, che decise a un certo punto di
dissolversi nel cosmo, sono nate diverse altre entità sparse, ad esempio la Jamm’ Band che
ha splendidamente suonato per noi la sera di venerdì.
Il sabato mattina ci siamo invece inoltrati nel settore dell’indissolubile rivoluzionario
amore tra materiale e immateriale, discorrendo di legno prima e di cibo poi. La
Falegnameria Autonoma Libertaria è una cooperativa di fondazione relativamente recente
che si è insediata in una bottega storica del centro con persone che cercano di concretizzare
quanto afferma la ragione sociale scelta attraverso la condivisione delle decisioni e del
lavoro. Parlando del rispetto del tempo proprio e altrui, della relazione con chi arriva per
riparare qualcosa (la psiche non è esclusa) e della semplice ed effciente organizzazione
interna i falegnami hanno fatto serpeggiare la malcelata invidia di chi impiega la propria
giornata in lavori più drasticamente concettuali. Più delicata è l’impresa nella quale si
cimentano da alcuni anni cuciniere e cucinieri di Cucina Clandestina che si ostinano a
diffondere una pratica che concili qualità dei prodotti e arte culinaria anche in luoghi dove
storicamente ciò che si mangia pare essere l’ultimissimo problema (e com’è? Prima la
sovversione e dopo l’alimentazione?). Se Napadema è andata bene è stato in grandissima
parte grazie alle due cucine (alla Cucina Clandestina si è infatti associata la Cucina
dell’Amore) che ci hanno sfamato e di Urupìa che ci ha dissetato con il suo vino.
Sabato pomeriggio ci siamo dedicati innanzitutto all’editoria autogestita, con Malamente,
una delle piccole case editrici libertarie più attive negli ultimi anni, che pubblica dal 2015
una rivista arrivata al trentesimo numero, «Perché l’incertezza e la crisi di questi tempi
sono anche possibilità che si aprono, vecchie certezze che crollano». Visto che avevamo
deciso di dedicarci al centro sud la partecipazione marchigiana è stata il tocco
settentrionale (vabbeh’) all’iniziativa. Il fatto che non nasca in ambito metropolitano è una
buona indicazione per ribadire quanto dovrebbe essere ormai chiaro da due decadi
almeno: visto che centro non c’è, ogni luogo è adatto per cominciare a tirarsi su le maniche.
La massima suspense si è raggiunta con l’intervento di Marco Piracci, unico invitato
“singolo” in quanto autore di Cyborg (sempre La Fiaccola a pubblicarlo) per la particolare
attualità degli argomenti di cui tratta. Con il suo intervento che ha descritto con spietata
gentilezza il binario imboccato dall’ideologia transumanista, perfettamente consona agli
sviluppi della società digitalizzata, paradiso del controllo incessante sugli individui, con
risultati che vanno oltre l’immaginazione della maggior parte di noi.
Il resto della serata è stato dedicato invece a chi è venuto dalla Sicilia sia a illustrarci la
lunga storia di Sicilia Libertaria e La Fiaccola (Ragusa), sia rivolgendosi alla microeditoria
d’urgenza come Scirocco (Madonie), nata dall’impellenza di dire la propria nei momenti
più bui della coazione distanziatrice. L’invito includeva la specifca richiesta di un
sommario inquadramento sulle condizioni di vita in un’isola che ha la sorte – malasorte,
potremmo dire – di star piazzata al centro di uno dei luoghi strategicamente cruciali per il
potere militare-politico planetario (sì, lo so che qualcuno vorrebbe ch’io scriva
“capitalismo”, ma rassegnatevi: per il Sistema il capitalismo, ammesso che esista, non è né
motore né carrozzeria, e manco pneumatici: al massimo fa da specchietto retrovisore per le
allodole). Si è parlato di basi militari che infestano il nostro sud e di MUOS, con diversi
approcci per provare a contrastarlo, e con modalità che possono anche causare episodi di
scarsa sintonia; ma tant’è, se volevamo l’assoluto accordo facevamo un partito marxista,
non certo un’adunata di insofferenti alla servitù volontaria.
Abbiamo chiuso (al sole, che è stato sempre dalla nostra parte senza esitazione alcuna per
tutti e tre i giorni) con Panchovilla in Sabina, una realtà abbastanza giovane formata da
persone che si dedica alla campagna – perché «Con la fne della metropoli c’è bisogno di
concepire un altrove» – senza rinunciare alla città (Roma-Pigneto), anzi attivandosi per
intense e profcue sinergie, e con la comune Urupia, che invece la terra l’ha scelta
integralmente da quasi sei lustri. Eppure mai uscita dalla fase sperimentale, cosa che la fa
mantenere giovane e vitale: chi c’è stato dieci o venti anni fa e volesse tornarci troverà lo
stesso posto (modifcato), alcune delle stesse persone (un po’ cambiate, manco tanto), altre
comunarde che prima non c’erano e un’aria diversa. Migliore? Peggiore? Potrei dire più
aperta e forse meno visionaria e sognatrice; in ogni caso tutto fuorché un posto che «dopo
tanti anni ancora resiste», come spesso ho sentito dire, ma che continua a sperimentare e a
reinventarsi.
Non voleva, dicevamo, essere un convegno e non lo è stato, e neppure una rassicurante
rassegna per gli amanti della libertà ormai orfani di tutto. Casomai un principio di messa a
punto per cominciare a capire dove metter mano per l’avvenire.
In margine, vanno ringraziati i sostenitori del nazionalismo ucraino, quelli
dell’imperialismo russo e gli esponenti della lega scientista “in Pftzer we trust” per averci
fatto la grazia di non manifestarsi in alcun modo. Possiamo ben sperare che in qualche
modo la nostra minuscola opera di ricostruzione sia ricominciata. Pazientissimamente e
festina lente perché, come disse quel meccanico di León tanti anni fa, ancora non abbiamo
paura delle macerie.
Giuseppe Aiello, aprile 2023″

12- L’anarchia non è un partito e non vuole governare

Il pubblico ministero guardò gli appunti sul libretto.

«Mi sono perso» disse. «Com’è che siamo passati a parlare della legge?»

«Mi aveva domandato quale fosse la nostra idea di giustizia e ho escluso che sia la legge e Dio.»

«Allora, vediamo di concludere!»

«Subito!» dissi. «Noi anarchici siamo convinti che qualunque condotta sia giusta se realizza la volontà personale in armonia con la volontà degli altri. Per questo vogliamo una società libera, egualitaria, orizzontale, in cui non sia possibile il dominio dell’uomo sull’uomo, della società sull’uomo, delle istituzioni sull’uomo.»

«E che c’entra lo Stato?»

«C’entra per due motivi: in primo luogo perché rappresenta la sublimazione della coercizione arbitraria. In secondo luogo, perché è la longa mano del Potere, cioè il mezzo attraverso il quale esso definisce e impone regole di condotta e convoglia la volontà collettiva in maniera da soddisfare gli interessi propri e di chi lo sostiene.»

«Quindi vorreste una società senza Stato per colpa di due leggiucole?» chiese Pottutto col tono di un vecchio amico. «Che esagerazione! Se il sistema non vi piace, create un partito e governate!»

«Ma chi, noi?»

«Di voi stiamo parlando!» disse Pottutto.

«Proprio di voi stiamo parlando!» gli fece eco il maresciallo. «Perché non governate se siete tanto bravi?».

Il PM lo guardò irritato: «lasci perdere le provocazioni maresciallo, che quando ci avete provato è sempre andata a schifio!»

«Non vorrei sembrare presuntuoso, ma l’anarchia non ha mai detto che vuole governare!» dissi.

«Ah, no? E che vuol fare, casino e basta?»

«Fate casino e basta, eh!» ripeté Manganello.

«Non siamo e non saremo mai un partito e non vogliamo o vorremo governare. Ho appena detto che ambiamo a una società senza dominio e lei mi invita a creare il nostro?».

Pottutto si incassò nelle spalle: «Potreste fare come quelli… come si chiamano quelli che anni fa volevano difendere le balene? Mi aiuti, Manganello!»

«Non so, dottore. Ho un po’ di confusione in testa!». Il doppio mento del maresciallo vibrò minacciosamente. «Balene, balene, balene…» ripeté. «Per caso voleva dire Pinocchio?»

«Che c’entra Pinocchio?»

«Quand’è stato mangiato dalla balena!»

«Gli ecologisti?» lo aiutai.

«Gli ecologisti, esatto!». Il PM batté le mani. «Se ne venivano fuori ora con le balene, ora gli orsi polari, ora con il nucleare… che poi, quante volte sarà scoppiato Chernobyl?». Allargò le braccia. «Dopo di che sono diventati un partito e…»

«E che fine hanno fatto?» chiesi. «Louise Michel affermava che: “Al potere gli uomini possono solo commettere delitti su delitti, senza distinzione di colore: basta che siano deboli ed egoisti. E anche se fossero devoti e forti, finirebbero comunque schiacciati”1. Questa è l’inevitabile realtà. Anche le persone più pure e idealiste, una volta entrate nei ranghi, vengono annientate!»

«È tutto un magna-magna!»

«E voi magnate?». Osservai prima l’uno poi l’altro. «Magnate, magnate!». Sorrisi. «Tolstoj rincarava la dose: chi si “unisce ai ranghi del governo” alla fine “diventa uno strumento nelle sue mani”.2»

«Il vecchio barbuto Tolstoj!». Pottutto sospirò ispirato.

«Ha letto i suoi libri?»

«Ci mancherebbe! Però ricordo la foto nel sussidiario… O era Socrate? O Marx? Sono tutti barbuti quei fanatici!».

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«Noi anarchici siamo contro i partiti e siamo contro ogni forma di governo. I partiti sono associazioni verticistiche di potere, dotati di organizzazione rigida e gerarchica. Di fatto l’antitesi della spontaneità di cui ci nutriamo. Quanto al governo, non avrebbe senso guidare il popolo dal momento che siamo i primi a non voler essere governati. Le persone non hanno bisogno di tutori, di custodi, di garanti, di responsabili, di politici che dicano cosa fare o, peggio ancora, che agiscano al posto loro. Sarebbe una contraddizione rispetto all’etica dell’autonomia. Se cedessimo alle tentazioni commetteremmo lo stesso errore di Andrea Costa, quando nel 1882 abbandonò l’Internazionalismo facendosi eleggere nel collegio di Ravenna. Voleva fare il riformista, mentre per molti fu solo un traditore.»

«Colgo dell’astio nelle sue parole!» rilevò il PM.

«Ma no!» mi difesi. «Forse!» cedetti. «Che non si confonda, però, la nostra avversione alle istituzioni col rifiuto aprioristico della politica. Aborriamo coloro che “cadono fatalmente al di sotto del livello generale”, credendosi “essi stessi superiori alla gente comune”, come Reclus definiva i galantuomini al governo, ma non la gestione della cosa pubblica. Essa è vitale e in quanto tale desiderabile. La concepiamo, però, non come un’imposizione verticistica, bensì come naturale sviluppo di relazioni attraverso cui ogni individuo partecipa personalmente e consapevolmente alla condivisione del bene comune. Oggi la politica “è il governo dello Stato”, diceva Bookchin…»

«Chi?»

«Buk-chin!» sillabai.

«È cinese?» domandò Manganello.

«Americano!» precisai.

«Ma di origine cinese?» insistette.

«Per il filosofo il governo “è professionismo” e “monopolio del potere da parte dei ricchi, non potere dei molti”. Dice anche che i politici, pur giurando di agire nell’interesse del popolo, “sono e diventano eletti formando in tal senso una precisa élite gerarchica” che “vuole obbedienza, non impegno”». Indicai la pila di fogli. «Lo trovate nelle pagine in cui spiego la sua teoria del municipalismo libertario e dell’ecologia sociale. Descrive esattamente il governo contro cui lottiamo. Perché, e riprendo ancora le sue parole, il senso di responsabilità verso la comunità nasce “da un’educazione politica formatasi nel corso di una partecipazione, non di un’obbedienza istituzionalizzata”3. Auspichiamo, infatti, un coinvolgimento diretto, orizzontale, che parta dal basso. Sbaglia chi ci definisce apolitici. Siamo antipolitici, ma nel senso che lottiamo contro la politica del dominio, della plutocrazia, della soggezione e dello sfruttamento. Perché una società funziona se edificata conoscendo il terreno, scavando solide fondamenta, con mura compatte e un tetto resistente alle intemperie. E soprattutto, se chi vi abiterà partecipa alla costruzione con entusiasmo. Immaginate che meraviglia sarebbe una casa costruita con le nostre mani, in cui lei, pubblico ministero…»

«Chi io?»

«Sì, lei!». Sorrisi. «In cui lei è orgoglioso del parquet che ha posto con tanta perizia». Guardai Manganello: «E lei maresciallo, non si commuove a pensare a quella mensola che ha messo con tanto amore?».

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«E se per gli anarchici è inconcepibile un partito, figuriamoci governare un popolo!»

«Suvvia, non faccia l’ipocrita. A chi non piace il potere? Lusso, donne, soldi, droga… soprattutto droga!»

«Non so di cosa parla!».

Il pubblico ministero guardò il maresciallo che, capito fosse arrivato il suo momento, puntò il dito: «E quegli otto chili di pasticche che abbiamo trovato nel bagagliaio della sua auto?»

«Che esagerazione!». Senza scompormi. «Non ho mai fumato neanche una canna. Ce l’ha messe lei?».

Si contrasse come un riccio: «Non ancora!» bisbigliò.

«L’obiettivo dell’anarchia non sarà mai la presa del potere. Governare significa dirigere l’andamento politico ed economico di uno Stato. Il che è impossibile visto che ne vogliamo la dissoluzione. Dice Errico Malatesta: “Per comprendere come una società possa vivere senza governo, basta osservare un po’ a fondo nella stessa società attuale, e si vedrà che in realtà la più gran parte, la parte essenziale della vita sociale, si compie anche oggi al di fuori dell’intervento governativo, e come il governo non interviene che per sfruttare le masse, per difendere i privilegiati, e per il resto viene a sanzionare, ben inutilmente, tutto quello che s’è fatto senza di lui e, spesso malgrado e contro di lui”. Poi prosegue con argomentazioni sempre dello stesso tenore e conclude…», girai la pagina, «”Sono appunto quelle cose in cui il governo non ha ingerenza, che camminano meglio e si accomodano, per volontà di tutti, in modo che tutti ci trovino utile e piacere”4». Restituii il foglio. «È più chiaro adesso cosa intendo quando dico che l’anarchia rifiuta il governo perché lo considera inutile?».

Pottutto fermò Manganello: «Lasci perdere, maresciallo. È sicuramente una domanda a trabocchetto!»

«Noi anarchici non vogliamo governare, né essere governati. Non vogliamo governare perché l’essere umano, possiede una dimensione etica naturale che gli consente di decidere personalmente cosa è giusto e cosa è sbagliato. Per fare ciò, però, occorre eliminare gli ostacoli artificiali che gli impediscono di essere libero: economia, Stato, religione, morale, tradizioni e così via. E il solo modo per conseguire questo obiettivo è creare un sistema di valori fondato sul piacere della condivisione attraverso il quale giungere al bene di tutti.»

«Essere governati?» mi sollecitò Pottutto.

«Rispondo nell’unico modo possibile e cioè citando Proudhon: “Essere governato significa essere guardato a vista, ispezionato, spiato, diretto, legiferato, regolamentato, incasellato, catechizzato, controllato, stimato, valutato, censurato, comandato, da parte di esseri che non hanno né il titolo, né la scienza, né la virtù. Essere governato vuol dire essere, a ogni azione, a ogni transazione, a ogni movimento, quotato, riformato, raddrizzato, corretto, tassato, addestrato, taglieggiato, sfruttato, monopolizzato, concusso, spremuto, mistificato, derubato”5».

Non mi aspettavo che Pottutto esclamasse un mamma mia! così tormentato. «Ha descritto esattamente il mio rapporto col dottor Persecuzio!».

Al solo udire quel nome Manganello sbiancò. Per la prima volta la segretaria si girò di un ventidue gradi. La Sfinge sulla porta ebbe un leggero tremolio della palpebra.

«Sarebbe?»

«Il procuratore capo!» bisbigliò a testa bassa.

Sogghignai immaginando che gli gridava: “Chiunque osi mettermi le mani addosso è un usurpatore o un tiranno e io lo proclamo mio nemico”6 e balbettava «E lei… e lei è… e lei è il mio…». Senza riuscire a concludere la frase.

«Perché ridacchia?»

«No, non ridacchio!»

«Ma certo che ridacchia. Vero Manganello che ridacchia?»

«Casomai ridacchiavo!» precisai. «Perché ora non sto ridacchiando!»

«Chiamo l’agente scelto Sevizia per farlo smettere di ridacchiare?» proferì il maresciallo condiscendente.

«Suvvia Manganello, un ridacchiamento non ha mai fatto male a nessuno!». Poi guardò me: «Ma se lo rifà…».

NOTE

1 – Louise Michel, Presa di possesso, 1890.

2 – Lev Tolstoj, Il rifiuto di obbedire, raccolta di riflessioni, 2019.

3 – Murrai Bookchin, Democrazia diretta, 2001.

4 – Errico Malatesta, L’Anarchia, 1891.

5 – Pierre Josepf Proudhon, L’idea Generale di Rivoluzione nel XIX secolo, Edizioni Centro Editoriale Toscano.

6 – Massima di P. J. Proudhon.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi: www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com

Immagine: Otto Dix, Trittico della guerra, 1928