18- Perché fa paura l’anarchia
N. 18
Il pubblico ministero invitò la signorina Servile ad aprire la finestra. «Metta questo a contrasto!». Dalla tasca della giacca tirò fuori un codice di procedura penale.
La segretaria lo appoggiò fra le persiane.
Stavo per riprendere a parlare che dalla strada si levò un urlo straziato. Mi voltai e il codice non c’era più.
«Signorina? Aggiunga al capo d’imputazione le lesioni aggravate!» le ordinò Pottutto.
Non volevo dargli soddisfazione replicando che ce l’aveva messo lui, così: «Perché vi fa tanto paura l’anarchia?» lo sferzai. «L’anarchia non è caos e non è disordine. Non è anomia, né acrazia. E allora perché?»
«Perché?» ripeté Pottutto. Guardò Manganello, poi giochicchiò con la penna prima di squadrarmi: «Scarpe da ginnastica consumate, jeans strappati, maglietta stropicciata… Solo un anarchico può presentarsi in questo modo a un interrogatorio!»
«Ma se mi hanno arrestato mentre giocavo a calcio!»
«Perché, lei non può giocare a calcio come tutte le persone civili con un bel completino di flanella, la camicia chiara e la cravatta in tinta unita?».
Il maresciallo lo tolse dall’imbarazzo: «Lo so io!» disse. «Perché quando ci sono le manifestazioni, siete gli unici che reagite alle nostre legnate!»
«E vi facciamo pure male!» sfoggiai un sorriso amichevole. «Ma non può essere per qualche bernoccolo che ci odiate tanto, no?».
Pottutto sfogliò i fogli del mio blog cercando la risposta.
Manganello si arricciò la ciccia dell’avambraccio.
«Siete dei sovversivi!» disse il primo.
«Ma questo è un complimento!» replicai ironicamente. «Se ci lasciaste vivere come vogliamo, nessuno sovvertirebbe niente. Invece volete che ubbidiamo, che ci adeguiamo al regime, che reprimiamo la nostra volontà per soddisfare la vostra!»
«Perché la nostra è quella giusta?» replicò Manganello.
«Se amate essere servi, servite pure. Ma non pretendete che tutti lo siano!»
«Non è possibile!» intervenne Pottutto. «Lo Stato non può accettare che qualcuno lo sia e altri no. Si creerebbero delle intollerabili discriminazioni. È una questione di eguaglianza. Lei che fa tanto il saputello saprà che l’articolo tre della Costituzione dice che siamo tutti uguali!»
«Ci sono!» esclamò Manganello appoggiando il ventre sul tavolo. «Voi anarchici siete violenti!»
«Violenti noi? Ma se siamo anti-violenti per definizione? Ovviamente se veniamo provocati, rispondiamo. Ma non c’è niente di violento in quello che diciamo e facciamo.»
«È sempre una violenza fare ciò che non si deve fare!» gongolò Pottutto.
«Direi che violenza è costringere a fare ciò che non si vuole fare!» rilevai. «Quindi se obbedissimo senza lamentarci saremmo dei bravi cittadini? Sa che non avevo mai considerato questa prospettiva? Quasi quasi quando esco ne parlo coi ragazzi. Poi torno e vi riferisco. Okay?… Ma non scherziamo! Che il Potere ci dia la possibilità di organizzarci, che non ci imponga le sue leggi, che non ci obblighi al suo sistema economico, che non ci opprima con la sua religione e la sua morale. E allora andremo tutti d’amore e d’accordo!»
«Non faccia l’ingenuo, sa che questo non è possibile!»
«Certo che lo so. Perché lo Stato pretende di essere il dominatore assoluto». Cambiando tono: «Mi dispiace deluderla, ma noi obbediamo solo alla nostra ragione, al nostro istinto, alla nostra volontà.»
«E allora prendetevi le manganellate!». Manganello si stizzì.
«Lo lasci perdere, maresciallo!». Pottutto lo redarguì. «Quanto a lei» tornò a me, «è la storia a dire che siete violenti!»
«La storia scritta da chi?» gli replicai. «C’è stato solo un periodo, quello della così detta propaganda del fatto fra la fine dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale in cui gli anarchici hanno pensato di reagire all’oppressione con azioni dirette contro i simboli del potere. Si trattava però di pochi, isolati idealisti che speravano di risvegliare le masse. Sono tutti morti sul campo o finiti in prigione.»
«Allora gliene dico un’altra: non si capisce cosa volete!» si esaltò il pubblico ministero.
«Ma l’ho già ripetuto un’infinità di volte: vogliamo solo vivere la nostra vita senza che nessuno ci dica cose fare!»
«Non mi sono spiegato. Lo Stato ha bisogno di certezza, anche quando si parla di nemici. Voi invece siete un casino totale: uno dice una cosa, uno ne dice un’altra… insomma, che palle!»
«L’anarchia è pluralista per definizione. Per questo dovete rassegnarvi a non poterla controllare. Non abbiamo una segreteria di partito che ordina come dobbiamo pensare e cosa dobbiamo fare, non abbiamo un leader, non abbiamo un movimento omogeneo…»
«Però capisce che così…!». Pottutto fece una faccia spazientita. «Almeno un ufficio di pubbliche relazioni, una sede, un capo da arrestare ogni tanto… Ogni volta sembra di ricominciare dall’inizio!»
«Per noi la figura del capo è inammissibile!»
«Ma per noi sì!»
«Lo vede?»
«Lo vede cosa?»
«Che ho ragione. Per voi è inconcepibile che possiamo agire senza un leader perché siete il prodotto della società del dominio: una società in cui ci sono dominanti e dominati, chi dà gli ordini e chi obbedisce. Siete come quegli europei che raggiunsero le coste del Sud America e quando trovarono gli indigeni che vivevano in una società senza fede, senza legge, senza Re, quindi senza gerarchia, li considerarono incivili. Non vi capacitate di come le persone possano unirsi, organizzarsi, autogestirsi, senza che qualcuno si imponga sugli altri. Siete talmente succubi del principio di autorità che, se non foste servi dello Stato, con la stessa fierezza lo sareste di qualcos’altro. Per questo ridiamo di voi esattamente come facevano gli indigeni quando osservavano gli europei che davano gli ordini e obbedivano1.»
«Le faccio notare che quella società del dominio, che le piace tanto svilire, ha portato la civilizzazione!»
«A dire il vero, ha portato parecchio sterminio di massa. La civilizzazione è solo la creazione di nuovi spazi di mercato da sfruttare per aumentare il profitto di chi non si accontenta di quel troppo che già possiede!» replicai a denti stretti. «Penso che la narrazione liberal-capitalista da una parte e comunista dall’altra abbiano paura. Paura della nostra libertà, della nostra determinazione, della nostra capacità di autogestione che minaccia il loro dominio. Per questo ci ostacolano, ci reprimono, ci denigrano. Zinn diceva: finché le lepri non avranno i loro storici, la storia sarà raccontata dai cacciatori2. Ma attenzione, che la storia è in continuo divenire e ciò che oggi sembra certo, domani chissà!».
Per qualche secondo mi fissarono inespressivi.
Poi Manganello ruppe il silenzio: «Adesso che c’entrano le lepri?».
NOTE
1 – Aneddoto raccontato da Pierre Clastres in Anarchia Selvaggia, Eleuthera Edizioni, 2017.
2 – Howard Zinn, 1922-2010, storico, saggista. Citato da Isabelle Attard in Perché sono diventata anarchica, Eleuthera Edizioni, 2021.
Editing a cura di Costanza Ghezzi, costanzaghezzi@gmail.com
Immagine: Renè Magritte, L’arte di vivere, 1967