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16- L’anarchia non è utopia

N 16 

«Questo concetto di comunità proprio non mi va giù!» grugnì il pubblico ministero.

«Ci facciamo portare un Jagermeister?»

«Non ho capito!»

«Per buttare giù!» dissi con leggerezza disincantata per non ferire il suo orgoglio suprematista.

«Questa idea di comunità di cui mi ha parlato dà per scontato una fiducia nel prossimo che… perché?»

«Perché?»

«Già, perché?» mi pressò anche il maresciallo.

«Soprattutto come?»

«In che senso come?»

«Come fate ad avere tutta questa fiducia? Il prossimo è sempre lì, in agguato, pronto a saltare addosso, a rubare il posto, ad approfittare delle debolezze, ad agguantare quello che è tuo». Con un gesto della mano mi invitò ad avvicinarmi: «Le faccio vedere cosa intendo!» mi sussurrò nell’orecchio.

Dalla tasca della giacca prese un pacchetto di patatine. Lo aprì, né mangiucchiò qualcuna, lo pose sul tavolo vicino a Manganello, si volse verso la signorina Servile. Mentre confabulava con lei, il maresciallo allungò furtivamente la mano e ne afferrò una manciata.

«Maresciallo!». Il PM si girò di scatto. Gli ordinò di risputarle. E a me: «Ha visto cosa intendo? Ecco perché la sua idea di fratellanza mi sembra molto ingenua!».

«Gli esperimenti di psicologia sociale di Milgram le fanno un baffo!1» scherzai. «Sa che in una sua poesia Pasolini diceva che l’ingenuità è un’eroica vocazione a non arrendersi mai?2. Era sempre molto estremo nelle sue passioni, come tutti i grandi artisti. Ma aveva ragione. Perché l’ingenuità può essere solo quella dello sprovveduto che crede agli asini che volano perché così gli hanno detto, ma anche quella del fiducioso, che non teme di lottare per ciò in cui confida. Gli anarchici sono così, non si stancano mai di praticare l’ideale che hanno dentro, pur essendo legati alla realtà più che all’illusione… Sa cosa diceva Graeber?».

«Chi, il cantante magrolino che ce l’aveva con la politica?»

«No, quello è Gaber3, E comunque Giorgio Gaber non era solo un cantante… Parlo del filosofo David Graeber. Vada all’articolo del 1.7.23. Se legge dove ho sottolineato…».

Pottutto scorse un paio di volte: «Tutto?»

«Dia a me!». Presi il foglio: «A chi dice che gli anarchici sono dei folli ingenui, Graeber risponde con Kropotkin, per il quale ingenui sono coloro che assegnano a qualcuno il ruolo di magistrato, con poteri di vita o di morte sugli altri esseri umani, nella convinzione che rimarrà sempre giusto e imparziale. E all’ulteriore obiezione che ci saranno sempre al mondo degli stronzi egoisti che si preoccuperanno solo di se stessi, replica che non ci sono dubbi, al mondo ci saranno sempre degli stronzi egoisti, anche in una società senza Stato, ma almeno non saranno al comando di un esercito4». Restituii la pagina. «È più chiaro adesso?». Guardandoli negli occhi capii che niente lo fosse. «Dapprima dice che i veri ingenui non sono gli anarchici, ma coloro che credono nell’infallibilità delle istituzioni pubbliche, senza accorgersi che l’aurea sacrale dei suoi burocrati giustifica le più immonde nefandezze di cui si fanno artefici. Poi afferma che una società antiautoritaria è comunque sempre migliore di quella in cui viviamo, poiché in essa anche il più stronzo…»

«Dopraho, moderi il linguaggio!» s’inalberò il PM.

«Mi perdoni, dottore. L’ha detto lui!»

«Chi, Manganello?»

«Graeber!»

«Quello che canta?»

«Il filosofo!» dissi. «Che sottolinea come in una società antiautoritaria anche il più eccetera eccetera, farebbe meno danni di quanti ne potrebbe fare in quella in cui viviamo.»

«Ha detto tutto questo?».

Dalla tasca della giacca Pottutto tirò fuori una Red Bull. Riempì il bicchiere di plastica piegandolo come si fa per evitare che la birra crei la schiuma, bevve d’un fiato. Appoggiò la lattina sul tavolo. «Prenda pure!» offrì al maresciallo.

«Grazie!» esclamò questi sorpreso.

La afferrò e subito la strizzò stizzosamente. Era vuota.

 

«Premetto che me ne frego delle vostre motivazioni…» disse Pottutto.

«Giusto. L’indifferenza è la cura degli inetti!» osservai.

«Non so cosa c’entrino gli insetti, ma volevo dire che, secondo me, l’anarchia è un’utopia!» esclamò col tono del PM che inchioda l’interrogato innanzi a una prova schiacciante.

«Lo dicono in tanti!» glissai. «A questa critica potrei rispondere in un’infinità di modi diversi» dissi. «Potrei citare uno dei miei autori preferiti, Gaston Piger, per il quale l’anarchia è utopia se messa in mano a donne e uomini con la testa infarcita dalla logica del dominio e della competizione e che, aggiunge, preferiscono la sicurezza delle catene e la deresponsabilizzazione della dipendenza5. Potrei rispondere con Amedeo Bertolo, per il quale l’anarchismo esprime la speranza e la volontà di una trasformazione sociale talmente radicale, talmente in contraddizione con l’ordine esistente, da rendere possibile una fortissima tensione utopica6. Potrei citare Pippo Guerrieri per cui tutta la storia è un tentativo di realizzare un’utopia7, oppure Tolstoj per il quale non possiamo conoscere i particolari del nuovo ordine di vita, dobbiamo crearli noi stessi perché la vita consiste nella ricerca dell’ignoto, nell’opera di armonizzazione delle nostre azioni con la nuova verità8. Mi soffermo su Emile Armand, per il quale l’anarchia è uno straordinario slancio ideale antagonista alla staticità reazionaria. Egli, infatti, dice: la lotta non cesserà mai. E mai, fortunatamente, il regno dell’uniformità si estenderà sulla terra, stagnante, monotono e mortifero. Vi saranno sempre dei protestatari, dei ribelli, dei refrattari, degli isolati. Vi saranno sempre dei marginali, dei fuori legge, dei recalcitranti, dei critici, dei ragionatori, dei negatori. Vi saranno sempre degli esseri che ameranno e odieranno vigorosamente. Vi saranno sempre dei passionali, dei non conformisti, dei perturbatori. Vi saranno sempre degli a-morali, degli a-legali, degli a-sociali. Vi saranno sempre gli antiautoritari9». Sollevai lo sguardo. «Bello, eh?»

«Mi si raggriccia la pelle!» mi canzonò il pubblico ministero. «Ma allora come la mette con la morte delle utopie?».

Confessai che non mi aspettavo una domanda così arguta: «Se per utopie si intendono quei sistemi che regolamentano ogni aspetto della vita quotidiana, l’episteme in generale, come direbbero i cattedrati, credo che non esistano più. La tecnologia ha cancellato l’immaginazione e senza immaginazione… Lei guarda la televisione?»

«Certo che la guardo. Come tutti, suppongo.»

«Lei la guarda?» chiesi a Manganello.

«Sto fisso su Fox Crimes!». E col suo solito sorriso edentulo: «C’è sempre da imparare!»

«Perché, lei non guarda la TI-VI?»

«Mi annoia» dissi.

«Tipico di voi intellettualoidi!»

«Trovo molto più divertente fantasticare.»

«Intellettuale e sognatore… la razza peggiore!»

 

 

NOTE

1 – Esperimento di Stanley Milgram realizzato nel 1961 per dimostrare la subordinazione dei soggetti innanzi all’autorità.

2 – Pierpaolo Pasolini, Il sogno della ragione, poesia contenuta nella raccolta Poesia in forma di rosa, 1964.

3 – Giorgio Gaber, cantautore, musicista, cabarettista, semplicemente un artista, 1939-2003.

4 – David Graeber, Dialoghi sull’anarchia, Eleuthera edizioni, 2019.

5 – Gaston Piger, Signorina anarchia, Ortica Editrice, 2021.

6 – Amedeo Bertolo, Anarchici e orgogliosi di esserlo, Eleuthera ed., 2017.

7 – Pippo Guerrieri, L’anarchia spiegata a mia figlia, BFS Edizioni, 2010.

8 – Tolstoj citato da Woodcock in L’Anarchia, 1966.

9 – Emile Armand, Vivere l’anarchia, Cassa Anti Repressione edizioni, 1983.

 

editing a cura di Costanza Ghezzi, costanzaghezzi@gmail.com

in foto Blue King di Moustaki

15 – Bene comune dello Stato vs bene comune dell’anarchia

N 15

«Ho detto che l’anarchia ha come fine il bene comune. Ma attenzione, anche lo Stato dichiara di voler realizzare il bene comune. E lo fa avvalendosi dei suoi mestieranti più agguerriti. Quando i vari politici, giornalisti, burocrati, scosciate, scrittori, artisti, prostituiti vari e tutti coloro che altrimenti dovrebbero lavorare evocano il bene pubblico come fine perseguito dallo Stato, mentono sapendo di mentire.»

«Ora non mi faccia la solita morale!»

«È un rischio che si corre sempre quando si disprezza!» replicai. «L’esempio è il legalismo imperante: fatua adorazione del sacro paganizzato! Peccato che lo Stato di divino abbia ben poco, visto che con la legge fa il proprio interesse, realizza il proprio profitto, legittima il proprio bene. E non mi riferisco solo allo Stato dei gentiluomini che lo governano, dei burocrati che ne consentono la conservazione o delle canaglie che se ne servono, ma a quello proprio dell’ordinamento stesso che si concretizza nell’assolutezza morale e materiale indispensabile alla perpetuazione di se stesso.»

«Molto qualunquista!»

«Il potere è reazionario per definizione. Lo dimostra il fatto che tanti di quei dei diritti civili che attribuiamo alla politica illuminata sono stati conquistati attraverso una massiccia contestazione extra-istituzionale sotto forma di sommosse, attacchi alla proprietà, dimostrazioni violente, espropri, incendi, sfide aperte, minaccia ai poteri costituiti1. Quando la politica legifera simulando un qualche interesse verso il popolo è solo per circoscrivere il malessere sociale che pregiudicherebbe la sua stabilità, oppure per riattizzare il capitalismo, che altrimenti stagnerebbe o regredirebbe. Sempre la stessa storia: captato il disagio, la politica lo argina aumentando o definendo nuove forme di controllo sociale!». Feci una pausa per ripartire con slancio: «Ditemi una cosa che lo Stato fa per i cittadini di sua iniziativa?».

Mentre il PM si lisciava la barba, «Le strade!» esclamò il maresciallo.

«Ma se l’altro giorno è venuto a prendermi perché un cratere mi aveva sfasciato la ruota dell’auto!» lo riprese Pottutto.

«Allora la sanità!»

«Lasci perdere!». Stavolta Pottutto si strappò un ciuffo dalla basetta: «Piscio saette da tre settimane e quei bastardi mi hanno fissato l’urologo fra nove mesi!»

«Ha provato con gli ortaggi? Sono pieni di vitamine… E se dico la scuola?». Di nuovo il maresciallo.

«Sulla scuola, potrei anche darle ragione» dissi. «Come luogo di addestramento all’obbedienza è assai efficiente!»

«Faccia poco lo spiritoso!» mi redarguì Pottutto.

«Esatto. Faccia poco lo spiritoso!» ripeté Manganello.

«Non mi avete ancora risposto!» sogghignai.

Ci pensarono.

«La giustizia!». Pottutto si accese.

«Se i magistrati fossero tutti come lei!» ironizzai.

Mi dette ragione.

«Ci sono: il Papa!». Di nuovo Manganello.

«Sta in un altro Stato!» lo corresse Pottutto.

«Come dottore, hanno spostato Roma?»

«Manganello, mi faccia una cortesia: si limiti a prendere appunti!».

E a me: «Adesso basta!» ruggì. «Se volevo rispondere alle domande a trabocchetto andavo al Quiz Show!»

«Ha ragione» dissi. «L’importante è che sia chiaro che il bene pubblico di cui tutti si riempiono la bocca fa solo l’interesse di chi sta lassù…». Puntai il dito verso l’alto.

«Persecuzio?» chiese il pubblico ministero allarmato.

«Che c’entra il procurato capo?»

«È nell’ufficio proprio sopra di noi!»

«Il bene comune di cui parla l’anarchia, invece, tiene conto delle personalità, degli interessi, delle aspirazioni reali di ogni individuo. Sorge dal basso e si sviluppa con la condivisione, l’unione delle singole aspirazioni per uno scopo condiviso: la comunità di egoisti, o più semplicemente comune, gruppo, clan, associazione, agglomerato, soviet addirittura. Qualunque struttura organizzata in maniera autonoma, antigerarchica e autogestita2, dove le persone si uniscono per condividere un obiettivo. Ed è con questa comunità partecipata che l’anarchia realizza la sua etica».

Potutto emise una smorfia poco convinta. «Qualcosa non quadra». Inforcò gli occhiali e lesse gli appunti: «Parla prima di individualità, poi di comunità. Ma se io sto bene per conto mio perché devo condividere con gli altri?»

«Ciascuno è libero di fare quello che vuole e nessuno può e deve ostacolarlo. Se a lei piace vivere un’esistenza ascetica è una sua scelta. Posso non condividerla perché credo che l’isolamento sia pur sempre una condizione transitoria, se non estintiva. Anche quando è una fuga necessaria, arriva il momento in cui l’individuo deve relazionarsi e allora la questione si porrà nuovamente e forse in maniera più esasperata perché avrà perso l’abitudine alla convivialità. Ciò detto, se lo spirito comunitario fosse imposto dall’alto sarebbe l’ennesimo dispotismo. Le faccio l’esempio del Kibbuz, quel modello di società cooperativa ebraica i cui membri si impegnavano a realizzare pratiche anarchiche come limitare l’autorità, abolire le gerarchie, favorire la partecipazione diretta. La regola era che i bambini venissero sottratti alle famiglie biologiche fin da piccoli affinché la comunità provvedesse alla loro educazione. In questo modo crescevano come essa voleva, acquisendone i principi e i valori. Principi e valori che, a prescindere dalla loro giustezza, erano pur sempre imposti dal gruppo sociale, pertanto non scelti. Pur partendo da premesse libertarie quindi, i suoi seguaci utilizzavano un metodo che non aveva niente a che vedere con la naturalità e la spontaneità. E senza naturalità e spontaneità, cioè senza una scelta libera, dove per libera intendo che porti a una personalità cosciente, non si realizza l’etica anarchica. Per questo l’anarchia non impone modelli. Al massimo spiega e consiglia affinché ciascuno scelga consapevolmente la propria via. Come diceva Ghandi: “la morale non sta nel seguire una strada già battuta, ma nel scegliere la propria e percorrerla senza paura”».

«Dopo Ghandi manca Einstein e poi li ha citati tutti!». Pottutto sghignazzò soddisfatto per la battuta. Poi cambiò intensità: «Le ricordo che ancora non mi ha dato un nome!»

«Non si agiti, abbiamo appena cominciato!».

 

NOTE:

 

1 – James Scott, Elogio dell’anarchismo, Elèuthera edizioni, 2014.

 

2 – Colin Ward, Anarchia un approccio essenziale, Elèuthera edizioni, 2014.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi– www.costanzaghezzi.com

Immagine: Giacomo Balla, Motocicletta, 1913.

14 – Cos’è il bene comune

Il pubblico ministero aggrottò le sopracciglia. Sguardo indagatore e denti che mordicchiavano il labbro. «Qualcosa non mi torna. Finora ha parlato di individualità. E l’individuo fa questo, e l’individuo fa quello, e l’individuo su e l’individuo giù. Ora parla di umanità. Mi sembra una contraddizione!»

«Una contraddizione?» chiesi.

«Manganello, lei non ci vede una contraddizione?»

«Dotto’». Il maresciallo si compresse. «Io so solo che devo andare in bagno!»

Lo seguimmo trotterellare verso la porta.

«Collega, devo passare!» si rivolse alla Sfinge davanti ad essa, che sembrava non avere alcuna intenzione di scansarsi. Gli batté la mano sulla spalla, gli pizzicò la guancia, gli tintinnò il pacco, gli puntò la pistola in un occhio. Niente.

«Bravo figliuolo, fossero tutti ligi come te!». Gli schiaffeggiò bonariamente la faccia. «Però adesso fammi il piacere…!»

«Maresciallo?». Pottutto lo richiamò.

«Sì, dottore?… Là, dottore?». Indicò la porticina che stava fra la segretaria e la parete. «Ma è alla turca!» eccepì. «Mi arrangio!». Si chiuse dentro. La riaprì. «Spiace se la tengo aperta? Manca la luce!»

«Torniamo a noi» bramì il PM. «Mi stava dicendo?»

«Mi ha chiesto perché sono passato dall’individuo all’umanità. La risposta è molto semplice: l’anarchico tiene alla libertà più di ogni altra cosa, dice Gaston Piger1. Ma è cosciente che se fosse finalizzata al sé, la vita sarebbe un vagare senza approdo. L’individuo, infatti, prova un senso di compiutezza solo quando si percepisce come parte di un tutto. Questo tutto è l’umanità, cioè la vita, che scorre e diviene insieme alle cose del mondo. In altre parole, egli coglie la propria essenza quando non agisce spinto dall’egoismo, ma dal desiderio di realizzare il bene comune. E il bene comune è l’interesse condiviso. Innanzi tutto condivisione dell’antiautoritarismo, principio supremo che accumuna i ribelli e salda il pluralismo fra comunità. Ma anche lo scopo che unisce i membri di una comunità, non necessariamente affine a quello di un’altra, benché accumunati dalla lotta contro ogni forma di dominio. Questa è la nostra idea di giustizia. Una concezione che, senza remore, si impregna di ottimismo antropologico, per cui l’uomo è cooperativo e capace di controllare la propria aggressività, come direbbe Alfie Kohn, e non aspetta altro che godere della propria essenza».

Sbatté la porta del bagno e il maresciallo trotterellò nella stanza: «Mi sono perso qualcosa?»

«Stavo per citare Bakunin».

Tornò dentro e chiuse a chiave. Qualche secondo e riaprì.

 «Scherzavo!» disse divertito.

«Dice il filosofo: “Noi crediamo nei diritti degli uomini, nella dignità e nella necessaria emancipazione della specie umana. Noi crediamo nella libertà e nella fraternità umana fondata sulla giustizia. In una parola, crediamo nel trionfo dell’umanità sulla terra”.»

«Che sarebbe?»

«Che sarebbe?» ripetei. «Cosa vuol dire essere uomini secondo voi?».

Pottutto liberò un’espressione tipo Franco Califano di fronte a una bella donna. «Glielo devo proprio dire?»

«E lei?» chiesi a Manganello.

«Ho sei figli… Non c’è bisogno di molte spiegazioni!»

«Bella visione maschio-centrica!» mi complimentai con entrambi. «L’uomo è un corpo». Mi sfiorai il braccio. «Dentro il corpo cosa c’è?»

«Ci sono gli organi» rispose Pottutto.

«Sicuramente. Oltre quelli?»

«Le vene?» ci provò Manganello.

«Siamo fatti di intelletto, istinto, sentimenti. In una parola: volontà. Siamo gli unici esseri viventi a possederlo?».

Entrambi finsero di non aver capito.

«Probabilmente no. Di sicuro però siamo la specie più evoluta, nel senso che può sfruttare la consapevolezza di sé per progredire. E come si progredisce?»

«Che lo chiede a noi?»

«È una domanda retorica» dissi. «Premendo un bottone dalla mattina alla sera e vegetando stremati il resto del tempo davanti a uno schermo per dimenticare, chi si è? Indebitandosi fino alla tomba per quattro mura? Bramando quell’ammorbidente di cui il comico sembra non possa fare a meno? Non scherziamo! La vita dell’uomo moderno, che lavora e consuma è una merda!»

«In effetti!». Pottutto sospirò. «Anch’io odio fare shopping la domenica con mia moglie!»

«In questo mondo in cui siamo meri ingranaggi, che fine fanno la ragione, l’istinto, il sentimento? Kaput! Arrivederci! Au revoir! Auf wiedersehen! Bye bye! Siamo stati educati a concepire la vita in funzione del lavoro, il lavoro in funzione del consumo, il consumo in funzione dell’esistenza. Ecco perché siamo infelici!»

«Non vedo molte alternative!»

«Le alternative sono due: o il meglio ubriachi che rotelle dell’ingranaggio2, o una rivoluzione culturale e pratica che ci restituisca la nostra umanità in armonia con l’equilibrio naturale delle cose, spogliandoci del superfluo, sottraendoci alla manipolazione dell’artificio. Basta poco per essere felici: relazioni umane faccia a faccia e un rapporto diretto con la natura. Tutto il resto è deturpazione del nostro essere, alterazione delle nostre attitudini, negazione della spontaneità. Quindi ansia, preoccupazione, infelicità.»

«Dove vuole arrivare, Dopraho?»

«Dove sono arrivato» dissi. «L’anarchia mira a costruire una società in cui le relazioni siano in armonia fra loro e si sviluppino in un ambiente che le aiuti a evolversi.»  

«Tutto qui?»

«Se le sembra poco!» dissi. «Sul primo punto tornerò. Sul secondo, invece, mi preme sottolineare che il rispetto dell’ambiente, cioè la sensibilità ai problemi ecologici, diversamente da quello che tanti credono, non è un fenomeno recente. Rousseau, Thoreau, Kropotkin e tanti altri ne parlavano secoli fa. Sul presupposto che l’individuo è parte di un tutto, molti di quei filosofi si opponevano alla tecnologia, all’industrializzazione, a tutti gli antropocentrismi che la mettono a rischio. Negli ultimi anni al dramma provocato dal progresso scientifico-tecnologico, l’anarco-ecologismo ha reagito realizzando molteplici azioni dimostrative contro il sistema, sempre più arrogante, aggressivo e distruttivo…»

«Più parla, più mi sembra Savonarola!3». Pottutto mi interruppe.

«Non farete bruciare sul rogo anche me?»

«Noi siamo civili. L’aspetta una bella cella d’isolamento per il resto dei giorni!»

«La ringrazio!»

«Non c’è di che!»

«Posso?» chiesi se potevo chiudere il concetto: «John Zerzan, ad esempio, partendo dalla critica alla civilizzazione, al consumismo e alla sofisticazione tecnologica, propone una provocatoria teoria primitivista in cui auspica il ritorno a una società di raccoglitori-cacciatori dove le relazioni umane siano improntate sul faccia a faccia, dove non ci sia divisione del lavoro, dove si creino spazi vitali radicalmente decentrati e non la realtà globalizzante e standardizzante della società di massa, in cui tutta la sfolgorante tecnologia si fonda sulla schiavitù di milioni di persone e sull’eccidio sistematico della terra4… Come soluzione è forse un po’ ardita: probabilmente le persone non sono ancora disposte a rinunciare alla comodità della vita moderna. Ma è solo questione di tempo perché capiscano che non ne posseggono più una!»

«Una società di raccoglitori-cacciatori?». Pottutto si ravvivò. «Raccogliere bacche e cacciare animali tutto il giorno? Non credo faccia per me. Con questo mal di schiena!».

NOTE

1 – Gaston Piger, Signorina anarchia, Ortica edizioni,2021.

2 – Così Aiello parlando del poeta Tao Yuanming che faceva uso di alcol “per lasciarsi alle spalle le costrizioni di una vita serrata negli obblighi del meccanismo sociale”. In Giuseppe Aiello, Taoismo e anarchia, La Fiaccola edizioni, 2017.

3 – Girolamo Savonarola, 1452-1498, fu un predicatore popolare che venne scomunicato e bruciato sul rogo come eretico.

4 – John Zerzan, Enrico Manicardi, Nostra nemica civiltà, Mimesis editore, 2018.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi. WWW.costanzaghezzi.com

dipinto: Pieter Claesz, Natura morta con prosciutto, 1870

 

12- L’anarchia non è un partito e non vuole governare

Il pubblico ministero guardò gli appunti sul libretto.

«Mi sono perso» disse. «Com’è che siamo passati a parlare della legge?»

«Mi aveva domandato quale fosse la nostra idea di giustizia e ho escluso che sia la legge e Dio.»

«Allora, vediamo di concludere!»

«Subito!» dissi. «Noi anarchici siamo convinti che qualunque condotta sia giusta se realizza la volontà personale in armonia con la volontà degli altri. Per questo vogliamo una società libera, egualitaria, orizzontale, in cui non sia possibile il dominio dell’uomo sull’uomo, della società sull’uomo, delle istituzioni sull’uomo.»

«E che c’entra lo Stato?»

«C’entra per due motivi: in primo luogo perché rappresenta la sublimazione della coercizione arbitraria. In secondo luogo, perché è la longa mano del Potere, cioè il mezzo attraverso il quale esso definisce e impone regole di condotta e convoglia la volontà collettiva in maniera da soddisfare gli interessi propri e di chi lo sostiene.»

«Quindi vorreste una società senza Stato per colpa di due leggiucole?» chiese Pottutto col tono di un vecchio amico. «Che esagerazione! Se il sistema non vi piace, create un partito e governate!»

«Ma chi, noi?»

«Di voi stiamo parlando!» disse Pottutto.

«Proprio di voi stiamo parlando!» gli fece eco il maresciallo. «Perché non governate se siete tanto bravi?».

Il PM lo guardò irritato: «lasci perdere le provocazioni maresciallo, che quando ci avete provato è sempre andata a schifio!»

«Non vorrei sembrare presuntuoso, ma l’anarchia non ha mai detto che vuole governare!» dissi.

«Ah, no? E che vuol fare, casino e basta?»

«Fate casino e basta, eh!» ripeté Manganello.

«Non siamo e non saremo mai un partito e non vogliamo o vorremo governare. Ho appena detto che ambiamo a una società senza dominio e lei mi invita a creare il nostro?».

Pottutto si incassò nelle spalle: «Potreste fare come quelli… come si chiamano quelli che anni fa volevano difendere le balene? Mi aiuti, Manganello!»

«Non so, dottore. Ho un po’ di confusione in testa!». Il doppio mento del maresciallo vibrò minacciosamente. «Balene, balene, balene…» ripeté. «Per caso voleva dire Pinocchio?»

«Che c’entra Pinocchio?»

«Quand’è stato mangiato dalla balena!»

«Gli ecologisti?» lo aiutai.

«Gli ecologisti, esatto!». Il PM batté le mani. «Se ne venivano fuori ora con le balene, ora gli orsi polari, ora con il nucleare… che poi, quante volte sarà scoppiato Chernobyl?». Allargò le braccia. «Dopo di che sono diventati un partito e…»

«E che fine hanno fatto?» chiesi. «Louise Michel affermava che: “Al potere gli uomini possono solo commettere delitti su delitti, senza distinzione di colore: basta che siano deboli ed egoisti. E anche se fossero devoti e forti, finirebbero comunque schiacciati”1. Questa è l’inevitabile realtà. Anche le persone più pure e idealiste, una volta entrate nei ranghi, vengono annientate!»

«È tutto un magna-magna!»

«E voi magnate?». Osservai prima l’uno poi l’altro. «Magnate, magnate!». Sorrisi. «Tolstoj rincarava la dose: chi si “unisce ai ranghi del governo” alla fine “diventa uno strumento nelle sue mani”.2»

«Il vecchio barbuto Tolstoj!». Pottutto sospirò ispirato.

«Ha letto i suoi libri?»

«Ci mancherebbe! Però ricordo la foto nel sussidiario… O era Socrate? O Marx? Sono tutti barbuti quei fanatici!».

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«Noi anarchici siamo contro i partiti e siamo contro ogni forma di governo. I partiti sono associazioni verticistiche di potere, dotati di organizzazione rigida e gerarchica. Di fatto l’antitesi della spontaneità di cui ci nutriamo. Quanto al governo, non avrebbe senso guidare il popolo dal momento che siamo i primi a non voler essere governati. Le persone non hanno bisogno di tutori, di custodi, di garanti, di responsabili, di politici che dicano cosa fare o, peggio ancora, che agiscano al posto loro. Sarebbe una contraddizione rispetto all’etica dell’autonomia. Se cedessimo alle tentazioni commetteremmo lo stesso errore di Andrea Costa, quando nel 1882 abbandonò l’Internazionalismo facendosi eleggere nel collegio di Ravenna. Voleva fare il riformista, mentre per molti fu solo un traditore.»

«Colgo dell’astio nelle sue parole!» rilevò il PM.

«Ma no!» mi difesi. «Forse!» cedetti. «Che non si confonda, però, la nostra avversione alle istituzioni col rifiuto aprioristico della politica. Aborriamo coloro che “cadono fatalmente al di sotto del livello generale”, credendosi “essi stessi superiori alla gente comune”, come Reclus definiva i galantuomini al governo, ma non la gestione della cosa pubblica. Essa è vitale e in quanto tale desiderabile. La concepiamo, però, non come un’imposizione verticistica, bensì come naturale sviluppo di relazioni attraverso cui ogni individuo partecipa personalmente e consapevolmente alla condivisione del bene comune. Oggi la politica “è il governo dello Stato”, diceva Bookchin…»

«Chi?»

«Buk-chin!» sillabai.

«È cinese?» domandò Manganello.

«Americano!» precisai.

«Ma di origine cinese?» insistette.

«Per il filosofo il governo “è professionismo” e “monopolio del potere da parte dei ricchi, non potere dei molti”. Dice anche che i politici, pur giurando di agire nell’interesse del popolo, “sono e diventano eletti formando in tal senso una precisa élite gerarchica” che “vuole obbedienza, non impegno”». Indicai la pila di fogli. «Lo trovate nelle pagine in cui spiego la sua teoria del municipalismo libertario e dell’ecologia sociale. Descrive esattamente il governo contro cui lottiamo. Perché, e riprendo ancora le sue parole, il senso di responsabilità verso la comunità nasce “da un’educazione politica formatasi nel corso di una partecipazione, non di un’obbedienza istituzionalizzata”3. Auspichiamo, infatti, un coinvolgimento diretto, orizzontale, che parta dal basso. Sbaglia chi ci definisce apolitici. Siamo antipolitici, ma nel senso che lottiamo contro la politica del dominio, della plutocrazia, della soggezione e dello sfruttamento. Perché una società funziona se edificata conoscendo il terreno, scavando solide fondamenta, con mura compatte e un tetto resistente alle intemperie. E soprattutto, se chi vi abiterà partecipa alla costruzione con entusiasmo. Immaginate che meraviglia sarebbe una casa costruita con le nostre mani, in cui lei, pubblico ministero…»

«Chi io?»

«Sì, lei!». Sorrisi. «In cui lei è orgoglioso del parquet che ha posto con tanta perizia». Guardai Manganello: «E lei maresciallo, non si commuove a pensare a quella mensola che ha messo con tanto amore?».

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«E se per gli anarchici è inconcepibile un partito, figuriamoci governare un popolo!»

«Suvvia, non faccia l’ipocrita. A chi non piace il potere? Lusso, donne, soldi, droga… soprattutto droga!»

«Non so di cosa parla!».

Il pubblico ministero guardò il maresciallo che, capito fosse arrivato il suo momento, puntò il dito: «E quegli otto chili di pasticche che abbiamo trovato nel bagagliaio della sua auto?»

«Che esagerazione!». Senza scompormi. «Non ho mai fumato neanche una canna. Ce l’ha messe lei?».

Si contrasse come un riccio: «Non ancora!» bisbigliò.

«L’obiettivo dell’anarchia non sarà mai la presa del potere. Governare significa dirigere l’andamento politico ed economico di uno Stato. Il che è impossibile visto che ne vogliamo la dissoluzione. Dice Errico Malatesta: “Per comprendere come una società possa vivere senza governo, basta osservare un po’ a fondo nella stessa società attuale, e si vedrà che in realtà la più gran parte, la parte essenziale della vita sociale, si compie anche oggi al di fuori dell’intervento governativo, e come il governo non interviene che per sfruttare le masse, per difendere i privilegiati, e per il resto viene a sanzionare, ben inutilmente, tutto quello che s’è fatto senza di lui e, spesso malgrado e contro di lui”. Poi prosegue con argomentazioni sempre dello stesso tenore e conclude…», girai la pagina, «”Sono appunto quelle cose in cui il governo non ha ingerenza, che camminano meglio e si accomodano, per volontà di tutti, in modo che tutti ci trovino utile e piacere”4». Restituii il foglio. «È più chiaro adesso cosa intendo quando dico che l’anarchia rifiuta il governo perché lo considera inutile?».

Pottutto fermò Manganello: «Lasci perdere, maresciallo. È sicuramente una domanda a trabocchetto!»

«Noi anarchici non vogliamo governare, né essere governati. Non vogliamo governare perché l’essere umano, possiede una dimensione etica naturale che gli consente di decidere personalmente cosa è giusto e cosa è sbagliato. Per fare ciò, però, occorre eliminare gli ostacoli artificiali che gli impediscono di essere libero: economia, Stato, religione, morale, tradizioni e così via. E il solo modo per conseguire questo obiettivo è creare un sistema di valori fondato sul piacere della condivisione attraverso il quale giungere al bene di tutti.»

«Essere governati?» mi sollecitò Pottutto.

«Rispondo nell’unico modo possibile e cioè citando Proudhon: “Essere governato significa essere guardato a vista, ispezionato, spiato, diretto, legiferato, regolamentato, incasellato, catechizzato, controllato, stimato, valutato, censurato, comandato, da parte di esseri che non hanno né il titolo, né la scienza, né la virtù. Essere governato vuol dire essere, a ogni azione, a ogni transazione, a ogni movimento, quotato, riformato, raddrizzato, corretto, tassato, addestrato, taglieggiato, sfruttato, monopolizzato, concusso, spremuto, mistificato, derubato”5».

Non mi aspettavo che Pottutto esclamasse un mamma mia! così tormentato. «Ha descritto esattamente il mio rapporto col dottor Persecuzio!».

Al solo udire quel nome Manganello sbiancò. Per la prima volta la segretaria si girò di un ventidue gradi. La Sfinge sulla porta ebbe un leggero tremolio della palpebra.

«Sarebbe?»

«Il procuratore capo!» bisbigliò a testa bassa.

Sogghignai immaginando che gli gridava: “Chiunque osi mettermi le mani addosso è un usurpatore o un tiranno e io lo proclamo mio nemico”6 e balbettava «E lei… e lei è… e lei è il mio…». Senza riuscire a concludere la frase.

«Perché ridacchia?»

«No, non ridacchio!»

«Ma certo che ridacchia. Vero Manganello che ridacchia?»

«Casomai ridacchiavo!» precisai. «Perché ora non sto ridacchiando!»

«Chiamo l’agente scelto Sevizia per farlo smettere di ridacchiare?» proferì il maresciallo condiscendente.

«Suvvia Manganello, un ridacchiamento non ha mai fatto male a nessuno!». Poi guardò me: «Ma se lo rifà…».

NOTE

1 – Louise Michel, Presa di possesso, 1890.

2 – Lev Tolstoj, Il rifiuto di obbedire, raccolta di riflessioni, 2019.

3 – Murrai Bookchin, Democrazia diretta, 2001.

4 – Errico Malatesta, L’Anarchia, 1891.

5 – Pierre Josepf Proudhon, L’idea Generale di Rivoluzione nel XIX secolo, Edizioni Centro Editoriale Toscano.

6 – Massima di P. J. Proudhon.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi: www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com

Immagine: Otto Dix, Trittico della guerra, 1928

 

 

 

11- La giustizia non è la legge

«Dico solo che per dare un senso alle cose non c’è bisogno di inventarsi chissà che. Come non è necessario Dio, non occorre una legge per stabilire cosa è bene cosa è male.»

«Ah, no?» Pottutto esclamò.

«Eh, no!». Ne imitai il tono. «Tanto perché la legge è emanazione dello Stato, “l’equivalente laico della Chiesa” come lo definiva Bakunin, il cui fondamento contrattualistico ha la stessa valenza di una Madonna che piange. In secondo luogo perché la legge definisce dall’esterno le condotte degli individui». Recuperai la loro attenzione con una pausa. «La legge, statale o morale che sia, non produce mai vera libertà. Quando la nostra condotta è ingabbiata nelle regole, si ha solo subordinazione a una volontà esterna. Con la legge, infatti, io non scelgo, sono libero solamente di obbedire a essa, direbbe Stirner. Se vuole…». Indicai la pila di fogli.

Pottutto cercò l’articolo con fare scocciato.

Lessi: «”Lo Stato restringe la libertà dei singoli solo per assicurare loro la parte restante. Ma ciò che resta può essere sicurezza, non è mai libertà”, perché, “la libertà è indivisibile; non si può toglierne una parte senza ucciderla tutta. Questa piccola parte che si toglie è l’essenza fondamentale della mia libertà”1.» Non li vidi convinti: «tutto chiaro?»

«Preso appunti, Manganello?». Il pubblico ministero colse in fallo il maresciallo a cui si era rotta la punta del lapis.

«Solo se incondizionatamente libero, ossia non determinato dai preconcetti, dalle superstizioni, dai dogmi, l’individuo può sviluppare una propria, esclusiva coscienza di sé, cioè una personalità, ed essere nel mondo, non essere del mondo. A quel punto potrà determinarsi come, uso le parole di Proudhon, “autocrate di se stesso”. Al contrario, senza consapevolezza non c’è personalità, quindi niente autonomia. E senza autonomia addio etica. Quando Stirner diceva che “La libertà deve essere totale, un pezzetto di libertà non è libertà” è perché aveva capito che la libertà è la condizione necessaria per il compimento della volontà, senza la quale ci scordiamo l’autodeterminazione».

Il pubblico ministero mi guardò storto.

«Perché mi fissa in quel modo?»

«Secondo me sta dicendo un sacco di fregnacce per nascondere la verità!»

Un «Cioè?» grosso come una casa penzolò dalle mie labbra.

«E cioè che volete fare quello che vi pare!»

«Dice? Se mi permette, faccio l’esempio della Scuola di Little Commonwealth fondata da Homer Lane.»

«Conosciamo questo Homer Lane?». Il magistrato domandò a Manganello che, in fretta e furia, sfogliò le prime due pagine di un blocchetto su cui erano appuntati alcuni nomi: «Non c’è!» gli rispose.

«Allora segni!» ordinò il primo.

«È morto anche lui!» dissi.

Ci rimasero molto male.

«Little Commonwealth era un esempio di scuola comunitaria autogestita che accoglieva giovani disadattati, in gran parte poveri o delinquenti. All’interno della struttura essi erano liberi di fare quello che volevano, compreso sfogare la spontaneità ribelle. Lane, invece di rimproverarli o punirli, li lasciava fare o partecipava al gioco. In quel modo lo scontro perdeva di significato e i ragazzi non solo si calmavano, ma cominciavano ad autoregolamentarsi.2»

Feci una pausa impressionato dalle loro espressioni da cernie nel congelatore. «Questa esperienza di educazione libertaria ci insegna due cose: la prima è che è possibile passare dalla legge del più forte all’auto-responsabilità. La seconda è che qualunque gruppo sociale, anche se costituito da “rifiuti della società”, può creare spontaneamente e armonicamente una comunità fondata sulla condivisione delle regole senza bisogno di imposizioni dall’alto. Da ciò consegue un’altra sacrosanta verità, ovverosia che le leggi servono solo a chi le fa, per perpetuare i propri privilegi.»

«Non può convincere un uomo di legge che la legge sia inutile!» esclamò Pottutto con sufficienza.

«Quindi, fosse un uomo d’agricoltura, ci riuscirei?» lo sferzai. «Se volete, possiamo leggere un altro estratto. Stavolta di Kropotkin.»

«Ancora questo Kropotkin?»

«Ha una prosa sublime!»

Il magistrato lesse: «“L’anarchia non è sinonimo di caos, ma corrisponde a una situazione armoniosa risultante dall’abolizione dello Stato e di tutte le forme di dominio e di sfruttamento dell’uomo. Si fonda sull’eguaglianza degli individui, la libera associazione, la federazione, l’autogestione e talvolta il collettivismo. L’anarchia, dunque, è strutturata e organizzata senza che vi sia una qualsiasi preminenza dell’organizzazione sull’individuo…”». S’interruppe un attimo. «Scommetto tre giorni senza rancio che vi siete messi d’accordo!»

«Emma Goldman invece aggiungeva che lo Stato “crea ordine con la sottomissione e lo conserva grazie al terrore”3».

«Ma io mica la sto terrorizzando?» il pubblico ministero s’inalberò.

«No, ma le piacerebbe!»

Lo ammise con una fugace oscillazione di quell’orribile capoccia a forma di pera.

++++

«Quasi quasi leggerei anche Malatesta. Che ne dite?»

Silenzio polare.

Poi il PM cercò la pagina: «”Il governo infatti si piglia la briga di proteggere, più o meno, la vita dei cittadini contro gli attacchi diretti e brutali; riconosce e legalizza un certo numero di diritti e doveri primordiali e di usi e costumi senza di cui è impossibile vivere in società; organizza e dirige certi esercizi pubblici, come posta, strade, igiene pubblica, regime delle acque, bonifiche, protezione delle foreste, ecc…”»

«Ora viene il bello. Legga, legga!»

«”Apre orfanotrofi e ospedali e si compiace spesso di atteggiarsi, solo in apparenza s’intende, a protettore e benefattore dei poveri e deboli. Ma basta osservare come e perché esso compie queste funzioni, per riscontrarvi la prova sperimentale, pratica, che tutto quello che il governo fa è sempre ispirato allo spirito di dominazione, ed è ordinato dal difendere, allargare e perpetuare i privilegi propri e quelli della classe di cui egli è il rappresentante e il difensore”». Il magistrato appoggiò il foglio sul tavolo.

«Non è finito!» dissi.

«Ah, no?»

«Un altro pezzettino!»

«Ma sono stanco!». Il PM brontolò. «”Un governo non può reggersi a lungo senza nascondere la sua natura dietro un pretesto di utilità generale, esso non può far rispettare la vita dei privilegiati senza darsi l’aria di volerla rispettata in tutti; non può far accettare i privilegi di alcuni senza fingersi custode del diritto di tutti”4».

«Bel paraculo lo Stato, eh?» dissi sornione. «Ma in tutto questo, sapete qual è la cosa buffa?»

«Ora mi fa anche gli indovinelli?»

«La cosa buffa è che le persone credono davvero che agisca per il bene pubblico. Sono talmente plagiate da essere convinte che la legge rappresenti la loro volontà. ”Ipnosi collettiva”, la chiamava Tolstoj». Sospirai. «Più prosaicamente, è semplice stupidità!»

NOTE

1 – M. Bakunin, Federalismo, Socialismo, Antiteologismo, incluso nel volume Libertà, eguaglianza, rivoluzione, 1976.

2 – Filippo Trasatti, Lessico minimo di pedagogia libertaria, 2020.

3 – Femminismo e Anarchia, Emma Goldman, Raccolta di scritti di Emma la rossa, pubblicata nel 2009.

4 – E. Malatesta, L’Anarchia, 1891.

Editing a cura di Costanza Ghezzi: www.costanzaghezzi.com, costanza ghezzi@gmail.com

Immagine: Avvocati e giudici del ritrattista Honoré Daumier

9- Morale e etica

«Ma c’è di più!» li presi in contropiede.

«Ci vuole dire dove tenete le armi?». Pottutto si eccitò.

«Le nostre armi sono le parole!» scherzai.

Dalla tasca interna della giacca, la stessa da cui prima aveva tirato fuori il castagnaccio, prese una clessidra. «Le do due minuti!». La sabbia cominciò a cadere. «Uno e cinquanta, uno e quarantanove, uno e quarantotto…».

Presi fiato. «L’anarchia è una scelta etica» sentenziai. «Conoscete la differenza fra etica e morale?» chiesi.

«La morale è andare a messa!». Il pubblico ministero improvvisò.

«Commettere un reato è immorale!» aggiunse il maresciallo per non essere da meno.

«La differenza è molto semplice: la morale è quel complesso di valori, ideali, tradizioni culturali e religiose che una società si dà per soddisfare il bisogno di sopravvivenza. E la società cos’è? È quella somma di persone riunite da un potere sovrano a cui viene detto che solo realizzando il suo interesse potranno conseguire il proprio. Quindi la morale è data dai valori, ideali, eccetera eccetera, che tale Potere crea e impone per legittimarsi e perpetuarsi. In altri termini, la morale è uno strumento di controllo: devi fare quello, non devi fare quello!».

 Conclusi: «E se per i primitivi queste prescrizioni si saldavano nelle consuetudini, in epoca medioevale negli imperativi religiosi, oggi che Dio è morto…»

«Come è morto?». Manganello sobbalzò sorpreso.

«È un po’ che è morto!» replicò saccente il pubblico ministero.

«Lo sanno tutti che la civilizzazione gli ha dato il colpo di grazia!» dissi.

«Ma dai!»

«La tecnologia ha ucciso l’immaginazione e senza immaginazione…». Non c’era bisogno che terminassi la frase. «Morto Dio, il suo posto è stato preso dallo Stato prima, dal capitalismo scientifico poi. Non cambia granché: una volta l’autorità stava lassù, oggi sta qua giù, in mezzo a noi. E non c’è autorità che non esprima la sua morale». Mi presi una pausa. «Ma, oltre a consentirle la conservazione, perché l’autorità ha bisogno della morale?»

«Per essere più giusta?»

«Wow, il nostro Manganello!» giubilai. «Soprattutto perché senza morale non ci sarebbero gli ingiusti, e senza ingiusti, il Potere non potrebbe proclamarsi giusto!». Schiarii la voce. «Non è detto, però, che un comportamento moralmente corretto sia anche oggettivamente corretto. Faccio un esempio: mio padre, oltre a essere un bevitore numero uno, aveva il vezzo di dimostrarci il suo amore con delle sane labbrate. Un giorno vidi mio fratello che frugava nel suo armadio. Colto in flagrante, confessò che stava cercando qualche spicciolino per uscire con gli amici. L’avessi riferito al babbo, cioè avessi raccontato la verità, avrei tenuto un comportamento moralmente corretto, ma mio fratello avrebbe preso una tale vagonata di botte che non lo avrei più riconosciuto. Non avessi detto la verità, sarei stato complice, cioè avrei tenuto una condotta moralmente improba, e il vecchio avrebbe cambiato i connotati anche a me.»

«Scommetto che non ha detto niente!». Pottutto sogghignò.

«I soldi li ho presi io senza dire nulla. Così mio padre non è impazzito e mio fratello non ha rischiato la vita… e sono andato al cinema con la mia ragazza!».

Il pubblico ministero mi fissò interdetto. Poi: «Mi spiace, ma la clessidra…». La indicò per mostrare che la sabbia era scesa completamente.

«C’è l’extra-time» dissi. «Mi avete interrotto più volte!».

Alzarono le mani.

++++

«L’etica, dal greco ethos, cioè carattere, comportamento, ha un significato più ampio. Di fronte a una determinata situazione, a una condotta da tenere, una scelta da fare, l’individuo si interroga su cosa è giusto e cosa è sbagliato. Attiva quindi un ragionamento che tenga conto degli aspetti personali, sociali, ambientali, altro, che lo portano a una soluzione che contempli la sua personale idea di giustizia». Li vidi dubbiosi. «Faccio un esempio. Se mi trovo in un bosco, posso buttare la sigaretta accesa fra le sterpaglie rischiando un incendio, oppure posso spengerla con le dita e metterla in tasca. Decido per questa seconda alternativa in quanto valuto che, se provocassi un incendio, non solo violerei la legge, cosa di cui mi fregherebbe il giusto, ma ucciderei gli alberi, gli animali, la natura circostante, cosa di cui non mi darei pace. Attraverso un giudizio razionale-emotivo, quindi, scelgo un comportamento che realizza il mio senso di giustizia, ovvero proteggere madre natura. Questa è l’etica.»

«No, questa è la morale!» replicò Pottutto piccato.

«No, è etica!» ribattei.

«È morale!» insistette.

«Etica!». E siccome le vene cominciavano a gonfiarsi: «Prego!» Gli passai la pallina di pongo. «Se non si arrabbia, glielo spiego in un altro modo!» dissi conciliante.

«Già, lo spieghi anche a me, perché non ho mica capito tanto bene!» sibilò il maresciallo.

«Lo spiego a entrambi, contenti?». Mi voltai verso le segretaria gobboni sul computer. «Lo spiego anche a lei, signorina?».

Fece no col ditino.

«Ho detto che il Potere impone alla società la sua morale per non estinguersi. Ma chi o cos’è questo Potere?» chiesi a bruciapelo. «Ve lo dico io!» li soccorsi. «È il potere economico: chi ha i soldi. In una società autoritaria, sempre loro comandano!» dissi con la faccia dell’ovvietà. «Quindi la morale è quell’insieme di linea guida a cui le persone devono conformarsi per soddisfare il potere economico che si ramifica nelle molteplici strutture di dominio. Fin qui ci siamo?».

Proseguii: «Con l’etica la situazione si ribalta: è l’individuo che giudica, dubita, valuta, sceglie. Non è più un soggetto passivo, ma diventa attore, interprete e giudice della contingenza. Stabilisce cosa è giusto e cosa è sbagliato. E lo fa attraverso un processo razionale ed emotivo, sottolineo emotivo perché non esiste ragione senza sentimento, che tenga conto del carattere, delle esperienze, delle conoscenze, degli affetti, di tutto ciò che forma la sua personalità in divenire.»

«Mi sa di già sentito!» eccepì il pubblico ministero convinto.

«Probabile in quarta liceo!» chiarii. «Il concetto ha radici, infatti, nell’illuminismo.»

«Ecco, nell’illuminismo… Ce l’avevo sulla punta della lingua!». Il PM gongolò. «Grozio?».

Non mi sembrò il caso di spiegare che Grozio era un giusnaturalista. Mi limitai a un Kant detto sottovoce per non mortificarlo. «L’anarchia, infatti, coglie, e in alcuni casi estremizza, i principi illuministici. A proposito…»

«Mi perdoni». Il magistrato indicò ancora la clessidra: «Ormai abbiamo superato l’extra-time, i supplementari e i calci di rigore!»

«Chiudo velocemente!» lo rassicurai. «Nel 1781…»

«Allora mi prende in giro? Dice di fare veloce e va indietro di tre secoli?»

«Mi faccia finire, vedrà che… Nel 1781 Kant scriveva quel Vangelo contemporaneo che è la Critica della ragion pura. Per farla breve, egli distingueva fra il fenomeno e il noumeno. Il fenomeno è la conoscenza empirica data dall’esperienza. Il noumeno è la conoscenza della cosa in sé, che può avvenire soltanto attraverso la ragione pura, cioè un giudizio emancipato da ogni determinazione morale, normativa, eccetera. Un processo razionale che sfocia nell’idea. Etico, quindi. In maniera simile ragiona l’anarchico, che può considerarsi l’ultimo degli illuministi, quando critica l’ordine esistente per tendere alla propria idea assoluta di giustizia suprema. Egli rifiuta la legge e la morale per creare un proprio codice che tenga conto della sua personalità, dei suoi interessi, delle sue aspirazioni. Si affranca così dai condizionamenti esterni per porre in essere scelte autonome. Come diceva Ghandi, infatti, l’etica sta nel scegliere la propria strada e percorrerla senza paura. Ed è proprio in virtù di quell’ideale supremo, di quel giudizio di valore che guida ogni decisione personale che Malatesta attribuisce al sentimento di amore che nasce dal soffrire quando gli altri soffrono, il fondamento dell’essere anarchico. Perché cosa è più etico di voler eliminare ogni sorta di ingiustizia?»

«Non ho capito una cosa». Pottutto borbottò guardando Manganello, che gli rispose con un’espressione da: «Solo una?». Giochicchiò con il tappino della penna. «Lei parla di giustizia, di bene e male, ma non ho capito a cosa si riferisce. E soprattutto, è un’ora che siamo qui e ancora non mi ha fatto un nome! Per me, ad esempio, a questo punto potrebbe essere giusto applicarle due elettrodi… Dove va, Manganello?»

«A prendere il generatore coi cavi elettrici!» bofonchiò il maresciallo. «Non ha appena detto che…?»

«Si metta a sedere!».

Ringraziai il pubblico ministero per la clemenza e gli feci presente che non sarebbero bastati due giorni per riassumere tremila anni di storia di filosofia etica.

«Allora mi dica quale è la vostra idea di giustizia e tagliamo la testa al toro!».

 

Dipinto: Minjun Yue, Free and leisure, 2003

Editing a cura di Costanza Ghezzi, www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com

 

8- Anarchia e nichilismo: distruggere ed edificare

Il PM sbirciò nuovamente l’immagine della showgirl.

«Andiamo avanti con l’interrogatorio?» dissi. Non capivo se la sua espressione fosse dovuta alla consapevole rassegnazione che non gli sarebbe mai toccata oppure a quel tipo di biasimo che neanche anni di liberazione sessuale con Wilhelm Reich1 avrebbero sanato. «Vorrei sottolineare un altro aspetto…»

«Su di lei?». Puntò il dito sulla soubrette.

«Dell’anarchia.»

«Giusto, dell’anarchia. Di quello parlavamo!»

«In tanti associano erroneamente l’anarchia al nichilismo. Sono due cose completamente diverse» sentenziai.

«Diverse!». Pottutto gorgogliò ancora imbambolato.

«Benché abbiano tratti comuni…»

«Comuni.»

«Granciporro» dissi per vedere se ripeteva anche quello.

«Come?»

«Dicevo che il nichilismo e l’anarchia sono due cose completamente diverse. Il nichilismo è una dottrina filosofica che…»

«Mi scusi se la interrompo» mi fermò il magistrato.

«Non si preoccupi, sarò breve!» avendo intuito cosa volesse chiedere. «Il nichilismo nasce verso la metà del XIX secolo. Si sviluppa in Russia e si diffonde in Europa come critica radicale della società, dei suoi valori, delle sue leggi, della metafisica, della morale. Molti dei suoi esponenti, infatti, pianificavano di sovvertire i regimi uccidendo i tiranni. Ma il nichilismo è anche una filosofia. Afferma che, se il reale non è reale, non è possibile conoscerlo, quindi la realtà è nulla.»

«Non fa una piega!» disse Manganello.

«Zitto un po’!» Pottutto pensieroso. «Tipo Gorgia? Anche lui, se non sbaglio…»

«Si vede che ha fatto il classico!» lo adulai. «E ha ragione, perché la filosofia è come un bravo cuoco, non butta via niente!» dissi. «A proposito di cucina, mi raccomando i complimenti alla mammina per il castagnaccio. Veramente buono!» unsi ancora. «Tornando al nichilismo, esso nasce in reazione alla fede irrefutabile che l’illuminismo riponeva verso la ragione e trova in Artur Schopenhauer uno dei maggiori sostenitori. Egli afferma che il mondo non esiste perché è pura apparenza, però la volontà può percepirlo attraverso la propria negazione. Un po’ contorto, lo so. Ma Il mondo come volontà e rappresentazione è un libro bellissimo2. Anche Stirner, l’ho citato prima, può considerarsi un nichilista…»

«L’albanese?»

«Il filosofo!»

«Anche Stirner, dicevo, è considerato un teorico del nichilismo, soprattutto per le sue posizioni antireligiose e negazioniste. Ma l’elenco dei sostenitori è lunghissimo. Pensate che alcuni anarchici, in gran parte anarco-individualisti, si dichiaravano nichilisti per distinguersi dalla corrente sociale dell’anarchismo. Mi viene in mente Renzo Novatore, che si vantava di negare qualunque cosa e lo faceva, parole sue, con entusiasmo dionisiaco che irride qualsiasi prigione teoretica, scientifica, morale. Un rifiuto del mondo che lo portava a lottare contro le strutture coercitive per affermare la propria capacità di potenza3.» 

«Sembra Nietzsche!»

«Novatore si è molto ispirato al grande filosofo. Parla di capacità di potenza da realizzare attraverso azioni di lotta individuale, spesso anche violenta, contro il sistema…»

«Un rompipalle, insomma!»

«Coi controfiocchi!»

«E dov’è che abita questo Novatore?»

«Abitava!»

«Si è trasferito?»

«Anche lui è morto.»

«No!» tuonò Manganello candidamente deluso.

«Commissario» lo rasserenai, «mica li può arrestare tutti!».

++++

«Se il nichilismo nega pervicacemente la società, Dio, l’uomo, l’essere, l’anarchia si sviluppa in tutt’altro modo. Essendo una dottrina pratica che ambisce al progresso della condizione umana, contempla la distruzione dell’ordine esistente per sviluppare una realtà alternativa, diversa, migliore. Diceva, infatti, Proudhon: destruam et aedificabo4. Ovvero: distruggerò e edificherò. Gli anarchici abbattono per creare. Non per piacere o bisogno o semplicemente per negare, ma per realizzare il fine etico di una società più giusta. E quando anche Bakunin afferma che la passione per la distruzione è anch’essa passione creatrice è convinto, come lo sono tutti gli anarchismi, dell’importanza di cancellare gli impianti, gli apparati, le dottrine, l’ideologia, la morale, qualunque dogmatismo che regge il sistema per crearne uno nuovo fondato su una libertà ed eguaglianza che siano finalmente reali, concrete, incondizionate, reciprocamente godibili, non speciosamente concesse dall’alto.»

«E così si ritorna all’autorità!». Manganello sollevò la testa.

«Sempre là si va a finire!». Il pubblico ministero mugugnò con un’espressione sufficiente.

«Quindi l’anarchia non è nichilismo. Non vuole distruggere punto e basta. Vuole sì eliminare ogni forma di autorità che deturpa lo spirito umano, ma vuol anche costruire un mondo antiautoritario e paritario. Destruam et edificabo, appunto! Distruggere le dipendenze alienanti per diventare padroni di se stessi. Finalmente attori principali della propria vita. Questa è l’anarchia».

 

NOTE

1 – Reich, assertore della liberalizzazione sessuale per eliminare la “corazza caratteriale” che impedisce alle persone di essere felici.

2 – Artur Shopenhauer, Il Mondo come volontà e rappresentazione, 1819.

3 – Renzo Novatore, da Anch’io sono un nichilista, articolo scritto nel 1920.

4 – Proudhon, Il sistema delle contraddizioni economiche, 1846.

Dipinto: Cornelis Escher, Occhio, 1955.

Editing a Cura di Costanza Ghezzi, www.costanzaghezzi.it, costanzaghezzi@gmail.com

7- Trilussa

A proposito di socialismo, mi venne in mente una poesia di Trilussa.

«Vogliamo farci una risata?» proposi al pubblico ministero.

«Ci dice tutti i nomi degli anarchici che hanno collaborato con lei?»

«Molto meglio!»

«Ha deciso di iscriversi al concorso per allievi ufficiali?»

Il pubblico ministero sfogliò le pagine del blog fino ad arrivare a quella che avevo indicato.

Mi bastarono due versi per capire che manco la filastrocca del pulcino aveva mai letto.

«Dia a me!» lo esortai.

«Provo io?». Manganello si propose.

«No!» rispose un coro che comprendeva oltre al sottoscritto e il pubblico ministero, anche la segretaria e, seppur con un sibilo informe, la Sfinge davanti alla porta.

«Mi raccomando, silenzio finché non ho finito!» li istruii. Cominciai:

«Un Gatto, che faceva er socialista

solo a lo scopo d’arivà in un posto,

se stava lavoranno u pollo arrosto

nella cucina d’un capitalista.

 

Quanno da un finestrino su per aria

S’affacciò un antro Gatto: Amico mio,

persa – je disse – che ce so pur’io

ch’appartengo a la classe proletari!

 

Io che conosco bene l’idee tue

So certo che quer pollo che te magni,

se vengo giù, sarà diviso in due:

mezzo a te, mezzo a me… Semo compagni!

 

-No, no: – rispose er Gatto senza core

Io nun divido gnente cò nessuno:

fo er socialista quanno sto a diggiuno,

ma quanno magno so conservatore!1».

 

Terminata la lettura seguì qualche secondo in cui il pubblico ministero e il maresciallo non batterono ciglio. Fu la segretaria la prima a strozzare un abbozzo di risata. Bastò perché Pottutto gorgogliasse un: «Ah!» vibrato, a cui seguì l’eh, eh! di Manganello che lo fissava per capire se e quanto osare.

«Carina!» disse il primo sospettoso. «Socialista quando ha fame… conservatore quando mangia…»

«È geniale!» replicai deluso da quella reazione asfittica. «Carina è una felpa con un bel disegno. Carina è la giraffa di peluche che si vince al Luna Park. Carina può essere Elisabetta Canalis!»

«No, quella è bona!». Il maresciallo sciolse gli istinti.

«Manganello!». Pottutto lo riprese. E parlandogli con la mano davanti alla bocca: «Chi è Elisabetta Canalis?»

«Non la conosce?»

«Dovrei?».

Il maresciallo smanettò il cellulare e gli mostrò una foto in cui la soubrette era avvolta da pizzi e trasparenze.

«Simpatica!» il PM frinì. «Simpatica e intelligente!»

«Suvvia, dottore!» Manganello gli fece gomitino. «Si lasci andare. Altro che simpatica, questa è proprio bona!».

 

NOTE

1, Trilussa, Er compagno scompagno.

 

Dipinto: Enrico Robusti, Rane fritte, 2002.

Editing a cura di Costanza Ghezzi – www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com

 

DUE PAROLE VELOCI SU “UNDERGROUND ANARCHICO”

Underground Anarchico è un blog a puntate in cui parlo di anarchia. Lo faccio immaginando di trovarmi nella stanza degli interrogatori davanti ai simpatici pubblico ministero dottor Pottutto e al fido scudiero il maresciallo Manganello. Ovviamente si tratta di fantasia: nella realtà lo sarebbero molto meno.

I capitoli sono brevi e ciascuno di essi tratta un argomento. Verranno pubblicati ogni primo del mese.

Ho scelto il dialogo sia per dare risalto alla spontaneità della narrazione piuttosto che alla sistematicità del ragionamento, sia perché l’anarchia è un “sentimento” che non ha bisogno di sistemi per essere compreso. Che poi compreso da chi? Gli anarchici sanno cosa sono. Sono gli altri, i farisei e i sempliciotti, che ne parlano senza cognizione. Posso dire, quindi, che il blog sia rivolto prevalentemente a loro. Per questo ho cercato di essere il più semplice, a tratti banale, possibile.

Il linguaggio è immediato e diretto. Ho voluto spogliare il testo da ogni orpello e artificio narrativo per dare risalto allo scambio di battute, fondamentale per fare emergere la personalità dei personaggi ed esaltare, seppur in maniera sintetica, i concetti e la passione anarchica.

Numerose sono le citazioni. Anche se non le amo particolarmente, su questo la penso come Shopenhauer, lo scopo degli articoli è divulgativo, quindi non potevo non dare voce ai padri dell’anarchia che l’hanno spiegata in maniera molto più efficace di quanto sarei in grado di fare personalmente.

Invito chiunque a contribuire. Accetto pareri, consigli, anche collaborazioni. Chi volesse può scrivere alla mail: raimondomariadopraho@gmail.com

Dedico Underground Anarchico alle vittime di Stato, per le quali non ci sarà mai giustizia.

Adesso vi saluto perché non ho da dire altro.

Anzi no, quasi dimenticavo: come non ringraziare la mia editor Costanza Ghezzi? Perché vogliamo parlare dell’ideatore e consulente editoriale del blog Raimondo Preti?

6- L’anarchia non è comunismo

«Un’altra caratteristica essenziale dell’anarchia è che essa non è una filosofia sistematica ma pratica. Forse l’unica che può definirsi tale. Non fluttua nell’astrazione, ma scava nel fango e nella poltiglia, nella melma in cui l’essere si trova quotidianamente intrappolato. Paul Goodman diceva che “la relatività del principio anarchico rispetto alla situazione esistente ne rappresenta una parte essenziale”. Mi fermai per indicare il punto esatto della pagina. «Posso leggere?»

«Perché?»

«Goodman sostiene che “non può esserci una storia dell’anarchismo che definisca anarchico uno stato di cose divenuto permanente. È un continuo misurarsi con una nuova situazione, una vigilanza continua per garantire che le libertà passate non vadano perdute, che non si trasformino nel loro opposto, proprio come la libera impresa si è tradotta nella schiavitù del salario e del capitalismo monopolistico; l’autonomia del potere giudiziario nel monopolio dei tribunali, dei poliziotti e degli avvocati; e l’autonomia didattica negli apparati scolastici”1».

 Sollevai lo sguardo: il pubblico ministero conversava col soffitto, Manganello si puliva le unghie con la cannuccia dell’Estathé.

«L’anarchia è quindi pensiero e azione. Pensiero che aspira alla libertà e all’eguaglianza, azione finalizzata a realizzarla. Per questo fa così paura!»

«Più che paura, direi, rompe i coglioni!» rilevò Pottutto.

«Sicuramente» sorrisi. «Ma solo a chi sta al potere!»

«Parla come i comunisti!». Manganello si illuminò.

Mi aspettavo quell’obiezione: «Il comunismo non c’incastra niente!». Sollevai teatralmente le mani in un gesto di rifiuto. «A eccezione di alcuni pensatori libertari come ad esempio Landauer, che sostiene che “l’anarchia è il fine il socialismo è il mezzo”, vale per tutti l’affermazione di Bakunin: “il così detto stato popolare è nient’altro che il governo dispotico della massa da parte di un’aristocrazia nuova e molto ristretta”». Con tono elastico aggiunsi: «Bakunin è un altro dei padri dell’anarchia. Un vero rivoluzionario. Conoscete?»

«Non mi sovviene! A lei Manganello?»

«Non mi dice nulla. Signorina Servile» si rivolse alla segretaria, «mi può dare un’occhiata alla banca dati per vedere in quale carcere è detenuto?»

«È morto in Svizzera» precisai.

«Vedi i colleghi elvetici!» esclamò il maresciallo con un pizzico d’invidia.

«Nel 1876. Per morte naturale!» lo delusi. «L’anarchia, come il liberismo e il comunismo, nasce fra il XVIII e il XIX secolo in reazione al machiavellico separatismo fra etica e politica. Presente la frase “il fine giustifica i mezzi”? A un certo punto ci si rese conto che autorizzare il potere a fare quello che vuole non è il massimo, così i liberali provarono a tirare le fila con la teoria contrattualistica. Poi vennero i comunisti col loro materialismo storico. Distante dagli uni e dagli altri, c’è l’anarchia. Posso?» chiesi il permesso di prendere la pila di fogli su cui erano stampate le pagine del mio blog.

«Assolutamente no!». Pottutto batté sopra la mano.

La sua rudezza non mi impressionò: «Allora vada all’articolo in cui parlo di Godwin». Attesi che raggiungesse la pagina. «Come vede, cito più volte la sua Giustizia politica del 1793. Legge lei o leggo io?». Lessi io: «”Chi possiede l’autorità di fare le leggi?”». Guardai la platea per essere sicuro mi seguisse. «”Quali sono le caratteristiche di quell’uomo o di quel gruppo cui spetta la tremenda facoltà di prescrivere agli altri membri della comunità ciò che essi devono fare o devono evitare? La risposta a questa domanda è estremamente semplice. La legislazione, come generalmente la si intende, non è un affare di competenza umana. Il vero legislatore è l’immutabile ragione, ai cui decreti ci dobbiamo ricondurre. Le funzioni della società si estendono non già alla creazione, ma all’interpretazione della legge; essa non può decretare, può solo dichiarare ciò che la natura delle cose ha già stabilito, la cui priorità scaturisce irresistibilmente dalle circostanze”2»

Gli restituii il foglio.

«Qui nasce l’anarchia moderna!» decretai. «Da queste premesse, Godwin sviluppa e amplifica il concetto illuminista di ragione. Essa diventa il mezzo mediante il quale l’individuo persegue il bene comune in ogni settore della vita: l’educazione, la politica, l’economia, la società. Come per Kant, l’uomo è il solo padrone di se stesso e deve esercitare la propria sovranità fuori dai condizionamenti empirici della morale e delle leggi. E lo fa attraverso un processo razionale che porta alla verità, alla giustizia, al bene comune. Quindi etico. Meraviglioso, non vi pare?»

«Splendido!» esclamò Pottutto con l’occhietto pio.

«Può ripetere, per favore? Mi sono perso quando si è domandato chi può fare le leggi!» Manganello senza ritegno.

Rilessi tre volte, e una il pubblico ministero. Alla quinta, il PM propose di spiegarglielo con un disegno.

Con pazienza sintetizzai: «L’illuminista Godwin è considerato l’iniziatore dell’anarchia moderna perché per primo nega qualunque forma di dominio. È grazie a lui che, anni dopo, Proudhon affermerà: “il governo dell’uomo da parte dell’uomo è la schiavitù”. Per gli anarchici, infatti, niente e nessuno può comandare l’individuo poiché non esiste un’autorità che gli è superiore. Detto questo, non c’è bisogno che specifichi qual è la nostra posizione sui totalitarismi, seppur popolari!»

«Si riferisce ai comunisti…?» chiese Pottutto.

«E i socialisti?» domandò Manganello.

«Che c’entrano i socialisti, Manganello!». Il PM lo rimbrottò. «Lo sanno tutti che sono stati fatti fuori dai comunisti perché erano invidiosi dei democristiani!»

«Ma dai?»

«Tangentopoli!».

Manganello avvampò: «I comunisti sono democristiani? O i democristiani sono socialisti? Non ci sto capendo più niente».

Proseguii: «Esistono un’infinità di motivi che portano gli anarchici a diffidare di qualunque sistema che trasferisce il dominio da un tipo di Stato all’altro mantenendo il principio di autorità e il conseguente sfruttamento degli uomini.»

«Me ne dica tre perché dobbiamo passare ad altro.»

«Ma sono molti di più!»

«Allora non li voglio sapere!». Pottutto ghignò beffardo. «Prego!»

«Grazie!»

«Non c’è di che!»

«Come ho detto prima citando Bakunin, il comunismo sfocia inevitabilmente nel dispotismo. Elisee Reclus parlando ai “troppo spesso fratelli nemici” usava una massima che amo tantissimo, e cioè che “l’uomo che va in carrozza non sarà mai amico dell’uomo che va a piedi”, per invitarli a diffidare dai loro capi in quanto “la loro morale in stretta connessione col loro interesse si altera e, pur credendosi sempre fedeli alla causa dei loro rappresentati le divengono per forza di cose infedeli”. A quel punto, “divenuti detentori del potere, dovranno servirsi degli strumenti del potere: esercito, preti, magistrati, carabinieri, poliziotti e spie”3. Anche Reclus, come Bakunin, aveva intuito la deriva autoritaria del comunismo». Mi fermai un attimo. «Il secondo motivo che mi viene in mente è che socialismo, comunismo, liberismo e altre soluzioni stato-centriche sono distanti anni luce dalla cultura anarchica. Noi vogliamo realizzare la massima sovranità individuale, per cui è inconcepibile una sovranità superiore, sia essa pagana o religiosa, che la neghi». Con la mano indicai il numero tre. «La terza motivazione è forse più intuitiva, ma non meno importante: socialismo e comunismo negano la libertà; al contrario, il liberismo sacrifica l’eguaglianza in suo nome. Per noi anarchici, invece, non c’è libertà senza eguaglianza e non c’è eguaglianza senza libertà. La dimensione etica anarchica fa leva proprio sul presupposto che la vera libertà individuale si realizza garantendo l’eguaglianza del prossimo e che l’eguaglianza del prossimo ha bisogno della completa realizzazione di ogni singola libertà. Per l’anarchia si è liberi quando si è uguali e si è uguali quando si è liberi: “né opprimere, né essere oppressi”, direbbe Emile Armand: né servi né padroni!».

Il pubblico ministero portò la penna fra i denti e mi fissò dubbioso.

Il maresciallo lo imitò. Ma anziché tra i denti la punta del lapis finì in una narice. «Ahia!» starnazzò.

«Ha finito?» chiese il pubblico ministero. Poi si massaggiò la pancia. «Mi consente una chiamata?» 

«Prego!» dissi.

«Sono Pottutto, con chi parlo? Assistente Randello può cortesemente procurarmi una lavagna? Non una lavanda, ho detto una lavagna!… Non ho detto bevanda, ho detto lavagna, come quella che sta in classe! … Come non è mai andato a scuola?». Guardò Manganello: «Da quando assumete gli analfabeti?».

Gli occhietti del commissario articolarono un prolungato nistagmo: «il sovraintendente Coltello ci teneva tanto che suo genero lavorasse con noi!»

«Dei cartoncini bristol? Non avete neanche quelli?». Tappò la cornetta e si rivolse a Manganello: «Capisco l’ignoranza e chiudo un occhio per la raccomandazione, ma che sappiano almeno mettere due neuroni insieme, cribbio!». Gli fumavano le orecchie. «Già che ci sono, Randello, volevo anche chiederle… Mi ha riattaccato!». Per qualche secondo si guardò intorno con aria da naufrago che si è appena svegliato sulla spiaggia di un’isola deserta. Ricompose il numero: «Randello, è sempre lei? Ispettore Puntello buongiorno, sono il pubblico ministero Pottutto. Sto chiamando dalla stanza degli interrogatori. Posso chiedere a lei?». Pausa. «La schiacciata coi ciccioli a questo punto sarà carbonizzata!». Si morse il labbro. «So che non è un cameriere!». Pausa. «So che sta lavorando!». Pausa. «So che… ehi, abbassi la voce. Sa chi sono io?». La faccia divenne color mammola e riemerse la famigerata arterite alla tempia. «Mi ha riattaccato!» bisbigliò nel vuoto.

Per distrarlo ripresi il discorso: «A proposito di distinzione fra libertà ed eguaglianza, sa che Simmel diceva che non esisteva prima del XIX secolo? Prenda Kant, ad esempio. Per Kant l’individuo è concepito non nella sua peculiarità, ma come parte di un’universalità che chiama “umanità”. Lo stesso imperativo categorico “agisci come se la massima della tua azione sia massima di legislazione universale”, considera ogni pensiero e azione individuale come elementi di un tutto, l’umanità appunto. È nel XIX secolo che l’individualità prende forma. Nascono il socialismo e il liberalismo. Pensi solo a come il romanticismo esaltava le emozioni individuali!4». Diversamente dalle mie aspettative, però, continuava a guardarsi intorno irritato.

Intuito che il problema fosse dovuto alla lunga attesa per la schiacciata coi ciccioli: «vuole che solleciti io?». Indicai il telefono.

Disse che preferiva lasciar perdere. Infilò una mano nella tasca della giacca ed estrasse un contenitore di plastica con dentro un triangolo di castagnaccio. «L’ha fatto la mia mammina!» gemette.

E così, tra un morso e un altro, gli raccontai del voltagabbana comunista nella guerra civile spagnola: «Sa che probabilmente sono stati i sicari stalinisti a uccidere il leader anarchico Buenaventura Durruti?… La stessa fine che i marxisti hanno fatto fare a Nestor Machno e agli anarchici durante la guerra civile russa. Finché gli facciamo comodo…!»

«Non ci pensi!». Pottutto mi consolò.

«Però spiace. Perché se i comunisti fossero stati meno stronzi, adesso, invece di essere qui, avrei potuto battere la punizione che avrebbe salvato la mia squadra dalla retrocessione!».

Note

1 Riflessioni sul principio anarchico in Individuo e comunità, 1995

2 William Godwin, Giustizia politica, 1793.

3 Elisee Reclus, L’Anarchia, 1894.

4 George Simmel, Forme dell’individualismo, 2001.

 

Dipinto: Boris Kustodiev, Il Bolscevico, 1920.

editing a cura di Costanza Ghezzi, www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com