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COS’E’ LA FELICITA’

COS’E’ LA FELICITA’

Il Potere si è fatto furbo: non ordina, seduce. Promette benessere in cambio del corpo, necessario per lavorare, e della mente, necessaria per consumare. Con una mano aliena in fabbrica, in ufficio, in strada o dovunque paghino tre soldi da dissipare in consumi imposti ed estorsioni legalizzate, nell’altra tiene la caramella dell’accettazione sociale con cui premia chi si illude di realizzare la propria felicità se genera quella del più forte. Intanto l’economia si frega le mani, la politica è sempre più lorda di pervertimento, la massa affonda nella melma compiacendosi del suo sapore.

La chiamano socializzazione, ma è l’espediente attraverso cui controllare l’individuo. E per chi disattende il dovere di dissolversi in essa, quei pochi recalcitranti isolati, disprezzati, emarginati dalle sue dinamiche comandate, i mastini sono sempre pronti. A qualcosa dovranno pur servire!

Aveva ragione La Fontaine quando diceva che “il nostro nemico è il nostro padrone”. Con il capitalismo tecno consumistico però, esso non ha più un volto umano ma corrisponde al ruolo che ciascuno assolve per assimilarsi al branco. L’annientamento del sé in cambio del riconoscimento sociale quale unica fonte di felicità.

Ma è proprio necessario essere infelici per avere la felicità?

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Tanto per cominciare, si dice “sono felice”, non “ho la felicità”. Sembra una sciocchezza, ma le parole sono importanti e queste affermano che essa è uno stato personale che attiene all’essere, non all’avere. Ẻ un sentimento, non un bene di consumo che si può smerciare. Avere non è essere felici, ma sembrare felici.

Trattasi poi di uno stato soggettivo, per cui è difficile trovare sia una definizione universale, che un’uniformità di cause scatenanti. Può essere determinata da condizioni personali come l’età: una cosa può generarla a venti anni e non a cinquanta; lo stato sociale: l’affamato gioisce davanti a un tozzo di pane che invece disgusta l’abbiente; la personalità: io sto bene quando scrivo, Mevio quando fa i calcoli matematici. Solo per fare qualche esempio. E, come se non bastasse, muta pure per il soggetto stesso che, senza motivo apparente, oggi può rallegrarsi di un evento, che forse domani lo rattristerà. Siamo tutti così volubili!

Il capitalismo ha provato a standardizzarla omologando personalità, bisogni e desideri: un lavoro profittevole, maggiori comodità, l’arrivismo sfrenato, possedere più beni, consumare fino all’esaurimento, eccetera. E poi ha colonizzato ogni luogo col suo modello di società uniformata, reazionaria e conservativa affinché l’individuo fosse manipolabile, prevedibile, volontariamente succube.

Ma trattasi di finzioni che provocano uno stato di sospensione momentanea. Uno “stare bene” determinato dal riflesso sociale, quindi eteronomo, non soggettivo. L’illusione distrae, non cancella il baratro. In questo modo, infatti, la volontà affoga in artifici consumati i quali deve crearne di nuovi in un circolo vizioso e senza fine. Non bisogna essere illuminati per capire che i beni, i traguardi, gli interessi, i desideri, gli egotismi, i profitti creano bagliori di appagamento temporanei e subordinati alla contingenza, pertanto effimeri.

Perché invece la felicità sia piena e vera occorre svincolare la volontà da qualunque determinazione indotta. Deve godere di ineludibile spontaneità. Spontaneità che per manifestarsi richiede un ambiente che non ne pregiudichi le potenzialità. Un luogo incontaminato dove l’individuo diventa padrone esclusivo della propria sovranità e finalmente si percepisca non come entità isolata che si barcamena per sopravvivere, bensì come elemento di uno spazio, di un tempo, di una materia mutevole, senza principio né fine. In esso non simula eternità, è eterno.

Spogliatosi della precarietà insita nell’essere e che la socialità amplifica, la sua volontà contempla senza condizionamenti, instaura connessioni sensoriali e intellettive, si immerge nella sostanza delle cose producendo identità empatiche. Ora è pianta, ora è animale, ora è roccia, ora è vento e così via in un’immedesimazione simbiotica fra molteplicità che diventa fusione nella comune partecipazione. Replicata l’esperienza all’infinito svanisce la relatività in luogo di una partecipazione esaltante, senza regole, né tempo, né confini, illimitata e indeterminata, in cui vivere, non sopravvivere, nella condivisione dell’unità in continuo, eterno divenire.

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Asserire che l’unica forma di felicità è quella data dalla relazione genuina con la natura che porta a fondersi nella sua immensità non significa scegliere una vita selvaggia o sollecitare lo sviluppo di chissà quali attitudini sciamaniche. Non si tratta di essere primitivi della foresta o Baba che rifuggono la materialità per cercare l’elevazione spirituale. Vuol dire invece ripristinare l’equilibrio naturale che le artificiosità hanno pervertito.

La volontà si realizza quando sfoga gli istinti, soddisfa i bisogni, afferma le proprie possibilità, impara a relazionarsi attraverso l’autodeterminazione. E perché ciò avvenga deve evolvere in totale spontaneità, senza doversi adattare ai condizionamenti né obbedire alle imposizioni. Solo se pura, completamente libera dalle necrofile subordinazioni mondane che ora la ammorbano, spesso ne alterano l’essenza, trova la propria identità. Per questo ha bisogno di svilupparsi laddove niente è contaminato, guarda caso il suo ambiente primigenio.

Quanto gli artefatti creati dal consorzio sociale sono effimeri e fuorvianti, tanto l’ordine naturale è spazio entro il quale la volontà prende forma in tutta la sua integrità. La purezza si conquista con la libertà, ma la libertà si esercita e si mantiene quando, eliminati gli artefatti, si relaziona spontaneamente con le diversità, creando connessioni armoniche che consentano la condivisione e la partecipazione all’evoluzione di cui è parte. La Natura non è una fuga, ma lo stato in cui scoprire e realizzare se stessi. Una perfezione che, se condivisa con affini, è piacere sublime.

Riconoscere il primato dell’autenticità rispetto all’obbedienza coartata o automatizzata implica innanzi tutto rifiutare ciò che deprava le coscienze trasfigurando il sé: dalla logica del profitto alle idee fisse, al progresso barbaro e schiavizzante causa di ogni perversione. Divenuti padroni di se stessi, occorre dedicarsi a un’esistenza diretta ed empatica con l’ecosistema affinché l’alterità sia identità. Nessuna sofisticazione. Nessuna superfluità. Nessuna gerarchia. Nessuna prepotenza e malversazione. Nessun costrutto artificiale o obbligo prescritto da forze preordinate. Nessuna trasgressione alla propria indole. Ma entità interagenti, cooperanti e adattative, spontaneità che si relazionano in maniera egualitaria per compiere l’obbiettivo condiviso di perfezionarsi attraverso la biosimbiosi.

Quando la volontà è pura e opera in un ambiente non condizionato da pulsioni predatorie e distruttive, quelle esaltate da qualsiasi logica del dominio, dominio che nella nostra epoca prende forma di progresso civilizzante e omologato, è padrona di se stessa e istintivamente cerca l’identità nelle molteplicità che animano il mondo. Impara a connettersi ad esse, crea quelle interrelazioni che la portano alla percezione prima, alla fusione poi nel divenire universale della vita. Ed è nell’estasi dell’indistinta unità delle cose, che il dare e ricevere amore infonde felicità.

 

foto da Google Immagini

42- LA COMUNITÀ

42- LA COMUNITÀ

 

«Mi perdoni» intervenne Pottutto. «Non è che quello che lei chiama dominio da un giorno all’altro fa le valige, saluta tutti e se ne va. Una rivoluzione dovrete pur farla?»

«Sarò più chiaro: la rivoluzione non serve a niente. Il Potere vince sempre perché ha l’interesse, il denaro, e i mezzi per potersi rigenerare. Soprattutto in epoca di sonnambulismo tecno-consumistico, dove l’indifferenza edonistica consente il moltiplicarsi delle pratiche arbitrarie» dissi. «Bisogna lavorare ai fianchi perché le gambe dell’avversario cedano. Fuor di metafora, occorre sovvertire la superstizione per cui l’autorità è condizione necessaria allo svolgimento delle ordinarie funzioni sociali: l’individuo deve essere autocrate di se stesso perché una vita da subalterni è una vita sprecata!».

Manganello sollevò lo sguardo per soffiare un epigrafico: «Boh!».

Pottutto se ne accorse e: «Può rispiegare, che il maresciallo non ha capito?»  

«Certo che ho capito!»

«Allora che ho detto?» lo stuzzicai.

«Per cortesia, non ci si metta anche lei!». Il PM mi stoppò.

«Nelle persone alligna una sorta di “ipnosi collettiva”1, come diceva Tolstoj, per cui sembra che senza qualcuno che decide per loro sia impossibile organizzare una vita comune…»

«E voi volete risvegliarle con la rivoluzione!»

«Rivoluzionari!» squittì Manganello.

«No. La rivoluzione guarda le masse, noi le libere coscienze. Nietzsche diceva che la massa è il trionfo della mediocrità dove l’individuo spersonalizzandosi perde la capacità di agire autonomamente e ha bisogno di un leader carismatico che dica cosa fare. Essa si crogiola nell’uniformità, anche se è sovversiva. Quando Bakunin, Malatesta, Kropotkin e così via auspicavano la rivolta, non intendevano il gregge belante, bensì l’unione degli individui. Perché solo il singolo può avere coscienza di sé e agire autonomamente per il proprio benessere. Un’unione che, come diceva Godwin, si raggiunge sviluppando attitudini, sensibilità, consapevolezza attraverso il dialogo. Un confronto di uomini puri, cioè liberati dagli ingranaggi mentali, che realizzano scopi condivisi attraverso la partecipazione personale.»

«Voglio proprio vedere come fate se le persone non si mettono d’accordo neanche…?»

«È vero. Le persone sono egoiste. Ma sono egoiste perché nella società del dominio l’egoismo è una virtù. E lo saranno finché continueranno a identificarsi nel profitto. Quando dico che l’anarchia è innanzi tutto una scelta etica mi riferisco non solo al rifiuto di ogni forma di autorità, ma anche alla possibilità di concepire la propria persona e le relazioni sociali e con l’ambiente in un’ottica completamente diversa da quella a cui siamo stati abituati. L’uomo deve smettere di pensare e agire in termini di guadagno, debolezza che lo porta a lottare con l’esistenza, per immergersi nell’esperienza dove godere della partecipazione al tutto. Capito che il profitto nega il sé e che il dominio è una gabbia, la vita semplice è la via maestra per l’antiautoritarismo. Un’esistenza disintossicata dal perseguimento degli interessi materiali ogni qual volta essi ostacolano il godimento della naturale sostanza delle cose. E quando si è puri, donarsi diviene un atto spontaneo: la solidarietà è una legge naturale dell’umanità, come Malatesta la definisce, in quanto l’armonia degli interessi e dei sentimenti, il concorso di ciascuno al bene di tutti e di tutti al bene di ciascuno, è lo stato in cui solo l’uomo può esplicare la sua natura e raggiungere il massimo sviluppo e il massimo benessere possibile2

«Che sintetizzando significa…?»

«Significa che quando l’individuo capisce di essere determinato dalle idee fisse e schiavizzato dal profitto, può riscattarsi in due modi: suicidarsi se non ha sufficiente volontà ribelle», sorrisi beffardamente, «o realizzare la propria personalità unendosi ad affini consapevoli che essa si manifesta in armonia col tutto. Questa unione di affratellati da una società cosciente e voluta è la comunità anarchica

«Le ricordo che i figli dei fiori si sono estinti cinquant’anni fa!»

«Il paragone non mi sembra appropriato!»

«Dice?»

«Direi proprio di sì!»

«E allora perché tiene la camicia aperta?».

Feci finta di nulla: «Dopo due secoli di insurrezioni fallite, di supplizi fisici e morali, di emarginazione sociale, gli anarchici hanno capito che l’anarchia non si realizza risvegliando le masse, ma attraverso un cambiamento cosciente che porti alla costituzione di infinite comunità quanti sono gli obiettivi, con regole condivise, orizzontali e solidali.»

«La solita vecchia strategia dell’unione fa la forza!»

«Ci si associa per proteggersi dalla tirannia o per vivere l’alternativa al conformismo. Ci si associa per realizzare interessi comuni, discussi e deliberati consensualmente. E non c’è associazione senza accordo fra uomini liberi. In luogo delle leggi porremo i contratti, preconizzava Proudhon. Gli affini si trovano e decidono insieme. Stipulano un vero e proprio contratto perché l’idea di contratto esclude quella di governo, in quanto, fra parti contraenti v’è, necessariamente, un autentico interesse personale per ciascuna, mentre, fra governante e governato, invece, qualunque sia il sistema di rappresentazione, o delega della funzione governativa, v’è necessariamente un’alienazione di parte della libertà e dei mezzi del cittadino3. Lo trovate citato nell’articolo del 1.3.24.»

«Devo leggerlo?»

«Una letta veloce gliela darei!»

Pottutto si volse repentinamente verso Manganello.

«Maresciallo che fa, mangia durante l’interrogatorio?». Lo stordì con una spintarella. «Dia a me!». Gli sequestrò lo snack. «È quello col caramello filante dentro?»

«Ci sono anche le noccioline.»

«È buono?»

«Buono assai!»

«Non ci credo!»

«Glielo assicuro, dottore!».

Per accertarsi che dicesse la verità, se lo pappò.

«Siete tipo separatisti?» brontolò pulendosi i denti con l’unghia del mignolo.

«Lo sapevo che erano separatisti. Come quelli spagnoli…». Manganello cercò il suo l’ausilio: «Com’è che si chiamano?». Poi gorgogliò esaltato: «Siete dei separatisti bergamaschi!»

«Sì, i famosi separatisti bergamaschi!» lo dileggiò Pottutto. «Baschi, maresciallo. Sono i separatisti baschi!»

«Non siamo separatisti!» affermai laconico. «I separatisti vogliono sottrarsi alla sovranità politica e territoriale dello Stato per crearne uno proprio. Gli anarchici, invece, non riconoscono la sua autorità tout court. Non vogliono costituirne una identica, vogliono vivere senza che qualcuno o qualcosa decida per loro.»

«Indipendentisti?»

«No!»

«Un po’ rompicoglionisti, però…!»

«Il cambiamento è una metamorfosi, non una trasfigurazione. Costituita una comunità ne sorgeranno dieci, da dieci mille, da mille infinite. E quando le bolle temporanee di autonomia si trasformeranno in comunità permanenti e libere senza interagire con i sistemi economici, sociali o politici più ampi in cui sono inserite4, quando sarà chiaro che se ogni uomo ha la libertà di fare tutto quello che vuole, a patto che non violi l’eguale libertà di ogni altro uomo è al contempo libero di interrompere il rapporto con lo stato5, a quel punto, sentendosi accerchiato, il Potere reagirà, ruggirà, scalcerà come l’animale ferito che sa di dover morire. Oppure, per evitare la propria dissoluzione, cesserà la repressione e accorderà il diritto di separazione. Sarà l’inizio di una nuova epoca…». Sospirai. «Nel frattempo, non rimane che sovvertire il visibile con l’invisibile. Anche nell’ombra la gemma diventerà fiore, il fiore un albero, l’albero una foresta che restituirà respiro a un mondo ormai arido…»

«Leopardi?» chiese il pubblico ministero.

«Leopardi?».

Seguì qualche secondo di silenzio cosmico.

 

NOTE

 

– 1 Le Tolstoj, Il rifiuto di obbedire, ivi.

– 2 Malatesta, Anarchia, ivi.

– 3 P.J. Proudhon, L’idea generale della rivoluzione, 1865.

– 4 D. Graeber, Rivoluzione. Istruzioni per l’uso, 2009.

– 5 Herbert Spencer, Social Statics, 1851.

 

editing a cura di costanza Ghezzi

In foto: H. Bosh, Il volo verso il cielo

 

41 – RIBELLIONE: INSURREZIONE E ALTRE FORME DI AZIONE DIRETTA -segue

Pottutto chiese a Manganello di portargli un cappuccino.

Il maresciallo uscì senza fiatare. Pochi secondi e rientrò per avvisarlo che il latte era finito.

«Allora solo caffè!»

«La macchinetta dà solo tè all’ibisco…»

«Lasci perdere, ho la pressione bassa di mio!». Il PM replicò stizzito. Dalla solita tasca della giacca estrasse una moka e un fornellino elettrico. Accese e la fissammo in silenzio finché non cominciò a fischiare.

«Senti che profumo!». Riempì la tazzina sua, quella del maresciallo. «Lei ne vuole?» chiese a me.

Lo gustammo come tre vecchi amici al bar. Dopo di che mi domandò se volessi fare qualche nome. Gli risposi «Più tardi!». Replicò un laconico: «Tanto lo sapevo!».

Ricominciai a parlare: «C’è un momento in cui il ribelle capisce che non basta disertare, che il sopruso può cessare solo quando si annienta la fonte che lo determina. A quel punto si presentano due soluzioni non necessariamente antitetiche: creare una realtà alternativa ed elusiva, l’underground, oppure ricorrere all’insurrezione. Approfondirò la prima fra un po’. Due parole sulla seconda. L’insurrezione è quell’azione che si compie attraverso una protesta violenta e decisa con lo scopo di minare il sistema e imporre il cambiamento mediante scontri asimmetrici, tipo la guerriglia, e psicologici, tipo il terrorismo.»

«Insurrezionalisti!» gorgogliò Manganello.

«Non solo!» replicai. «Perché sicuramente queste azioni producono un bell’effetto scenico, ma hanno scarsa sostanza… Anche se riconosco che sono un bel palo in culo al Potere!»

«Dopraho!». Manganello schizzò indignato.

«Mi perdoni, ma ci stava!»

«Dottore?». Fissò Pottutto in attesa di una sua reazione.

«Effettivamente ci stava!»

«Grazie!» replicai.

«Prosegua!»

«Il ribelle è sempre un insubordinato perché l’insubordinazione consiste nel non sottomettersi all’ordine a cui si dovrebbe obbedire. Si può assimilare alla disobbedienza, benché più reattiva. In cuor suo, ogni anarchico è un insubordinato!»

«Qui la volevo!» bramì Pottutto soddisfatto. «Manganello, aggiunga l’insubordinazione al capo di imputazione!» esclamò roboante. «Beh, che c’è?» fece rivolto a me.

«Mica sono un militare!» eccepii indignato.

«Dovrebbe dirmi grazie. Guardi che bel curriculum le ho preparato?». Indicò il capo d’imputazione.

Lo assecondai e ripresi: «Non è però un no che cambia le cose. Al rifiuto devono seguire azioni che destabilizzino il Potere. La prima che mi viene in mente è il boicottaggio. Sapete come è nato il nome? Nell’Irlanda del XIX secolo viveva un proprietario terriero di nome Boycott. Era un tipo vecchia maniera che amava sfruttare i propri lavoratori. Così essi decisero di inscenare un’azione non violenta nei suoi confronti. I vicini di casa non gli parlavano, se entrava in un negozio fingevano di non vederlo, in chiesa evitavano di sedergli accanto, cose di questo tipo. Insomma, venne così preso di mira che alla fine fu costretto ad abbandonare il paese.»

«Più che boicottaggio, mi sembra bullismo!» esclamò Pottutto.

«Ma a fin di bene!» replicai. «Oggi con il termine boicottaggio s’intende quell’azione di disturbo dai connotati prevalentemente economici realizzata nei confronti di un’azienda. Consiste nel non comprare o nell’ostacolare l’acquisto dei prodotti, colpendola nell’unica cosa che le preme: il profitto. Detta così può sembrare una goliardata. Vi garantisco invece che è molto efficace. Ed è pure etica perché trafigge al cuore sia i principi su cui si fonda il capitalismo, sia la democrazia che lo tutela.»

«Riecco il comunista!» grugnì Manganello.

«Gli anarchici rifiutano la legge del più forte, non negano lo scambio. Il commercio è un fenomeno naturale anche in un sistema di relazioni fra comunità autogestite, dove però prevalgono i principi della solidarietà, del minimo necessario, del dono, della reciprocità. Le merci che produciamo sono fatte perché ne abbiamo bisogno: lavoriamo per il benessere dei nostri simili, nonché per il nostro e non già per un astratto mercato, di cui non sappiamo nulla e che non possiamo in alcun modo controllare, diceva Morris nel suo meraviglioso Notizie da nessun luogo6. L’anarchia non ha niente a che vedere con la dittatura del proletariato perché è autarchica, orizzontale, solidale, e non le interessa appropriarsi del capitale. Vuole distruggerlo quale causa di divisione per produrre solo ciò che è necessario» chiosai la digressione economica. «Tornando al boicottaggio, ne riconosco l’efficacia a breve termine. Nel medio tuttavia non impedisce allo Stato di intervenire a favore dell’impresa danneggiata e ripristinare lo status quo. Occorre pertanto che tale azione sia rafforzata da condotte più incisive…»

«Tipo?»

«Tipo il sabotaggio. Quell’azione solitamente diretta ad arrecare un danno sia per riequilibrare le posizioni durante una negoziazione, sia come strumento di lotta per rivendicare diritti. Presente il luddismo?7»

«Conosce questo luddismo, Manganello?»

Il maresciallo sollevò gli occhi e quando li riabbassò: «L’ho visto una volta, ma solo di sfuggita!»

«Il luddismo fu un movimento di protesta operaia del XIX secolo sorto quando l’introduzione del telaio meccanico provocò un abbassamento del salario e l’incremento della disoccupazione. Si va dal più moderato ostruzionismo, allo sciopero, al rallentamento di attività economiche e civili, alle più cruente espressioni di rappresaglia come le manomissioni, i danneggiamenti, le distruzioni di strutture pubbliche o private o infrastrutture…»

«Uh, quante belle cose!», mi interruppe il maresciallo. «Prima di proseguire, però, mi consente di…». E al PM: «Posso chiamare Sevizia? Vista l’ora non vorrei che tornasse a casa senza…?».

Parlò con il corpo di guardia, l’infermeria, il deposito e la palestra. Tutti posti in cui era stato avvistato. Poi trillò il telefono.

«Pronto?» rispose Pottutto. «Buona sera Spaccafegato. Ha chiamato il suo collega Manganello per sapere dov’è l’agente Sevizia… No, non le ho chiesto del maggiore Sparo… neppure del sottotenente Legnata!». Qualche secondo di attesa e: «Perfetto, la ringrazio. Gli comunichi di passare da noi quando ha finito. Arrivederci!». Attaccò. «È impegnato con un cinese. Pare che sia una cosa lunga perché quello non spiccica una parola di italiano!», e a me: «Cosa diceva del sabotaggio?»

«Del sabotaggio?»

«Di quello parlava!»

«Giusto!». Schioccai le dita. «Stavo dicendo che, se unito al boicottaggio e soprattutto alle tecniche di guerriglia, logora l’avversario con attacchi continui e rapidi realizzando l’arte di fiaccare il nemico con mille piccole punture a spillo, come la chiamava Mao Tze-Tung. Si tratta di un complesso di azioni adattabili alla flessibilità delle organizzazioni anarchiche consentendo a ogni cellula di decidere autonomamente e, sul campo, di sfuggire alla rappresaglia. Inoltre, non implicando un movimento di massa, non generano effetti collaterali e stimolano la partecipazione sociale. La controindicazione è sempre la solita e cioè che queste condotte non cancellano né eludono l’ordine costituito che può riorganizzarsi e diventare più repressivo di prima. Più efficace, invece, è l’occupazione di fabbricati, scuole, terreni, imprese e eccetera» ripresi.

«Ah ah!» starnazzò Manganello. «Fa tanto il superiore, ma alla fine anche voi quando c’è da prendere…!»

«Occupiamo siti solitamente in stato di abbandono, dismessi, a volte anche fatiscenti e li restituiamo a nuova vita per svolgere attività sociali, ludiche, incontri, riunioni, ma anche economiche, di intrattenimento e via discorrendo.»

«Tanto poi vi facciamo sgomberare!»

«Vero. Ma può capitare che la nostra resistenza prevalga. E così vi rivediamo in borghese al mercatino dell’artigianato la domenica. La divisa vi rende un corpo di scherani, che si abituano a considerare i cittadini come carne da manette e da prigione e faccian della caccia all’uomo la principale o l’unica fonte di occupazione8. Sotto sotto però siete dei bravi ragazzi!» 

«Ahimè, siamo umani anche noi!» sospirò Manganello.

«Può capitare di occupare anche aree, diciamo così, più istituzionali come fabbriche o sedi di imprese. Ma sono per lo più azioni dimostrative. L’esempio forse più eclatante è la Zad, o più propriamente zona da difendere. Si tratta di stanziarsi in un territorio per impedire l’edificazione di grandi opere. Com’è avvenuto per Notre Dame Des Landes vicino Nantes nel 2008, dove gli occupanti si opposero alla costruzione di un aeroporto e svilupparono al suo posto una comunità anticapitalista, ambientalista e autogestita. Qualcosa di simile è stato realizzato anche in Val Susa per contrastare la realizzazione della linea ad alta velocità. Ma dalle nostre parti chi parla di diritti e libertà vola dalla finestra o va in prigione per terrorismo.9»

«Dovrei ridere?»

«Una volta occupato il sito, la comunità si autogestisce. Autogestirsi significa autogovernarsi, cioè governarsi autonomamente. Determinarsi senza l’intermediazione dell’autorità. Come dice Antonio Senta, per superare lo Stato è necessario creare esperienze di autogestione, allargare la sfera della cooperazione umana non statale, basata sulla reciprocità e non sul profitto, sul dono e non sul valore. Dare cioè vita a innumerevoli forme di democrazia diretta, assemblate, decentrate, collegate fra loro in senso federalista… Vuole che ne parli adesso o facciamo più tardi?»

«Sono quasi le otto di sera!»

«La notte è giovane!» esclamai. «Comunque le dico che è un metodo organizzativo del vivere sociale innanzi tutto etico, in quanto rifiuta il comando e si esplica in senso non gerarchico, attraverso una pratica collaborativa, solidale e paritaria10. È partecipazione faccia a faccia, mediante un confronto continuo finalizzato a realizzare l’interesse comune. Non c’è un’autorità che decide chi, come e perché. Ciascuno contribuisce agli obiettivi condivisi secondo le sue capacità e le sue forze e…»

«Mi perdoni, ma sul terrorismo non dice nulla?». Pottutto mi incalzò famelico.

«L’anarchia ha abbandonato certe pratiche. Non ha bisogno di creare terrore nella collettività per destabilizzare l’ordine.»

«Nessun attentato, rapimento, strage?»

«No!»

«Suvvia, non faccia il modesto!»

«Che le devo dire?» sbuffai. «Se con terrorismo intende un atteggiamento che vuole realizzare un’idea in maniera radicale, dico che siamo terroristi in quanto realizziamo la nostra idea di mondo. Se invece significa violenza che crea terrore colpendo innocenti indiscriminatamente, sottolineo che è una pratica vile che ripudiamo categoricamente sia perché l’individuo è intangibile, sia perché una società libera non può essere l’imposizione di un ordine nuovo al posto di quello vecchio11

«Vuol farmi credere che non ha mai fatto esplodere una bomba?»

«Ma che discorsi, certo che l’ho fatto!»

«Ora confessa!». Pottutto tirò una gomitata ingalluzzita al maresciallo.

«Come potrei rinunciare alla bomba di Maradona per i botti di capodanno?».

 

 

NOTE

 

– 6 William Morris, Notizie da nessun luogo, 1890.

– 7 Luddismo, la prima fase del movimento operaio britannico (primi decenni del sec. XIX), caratterizzato da reazioni violente contro l’introduzione delle macchine e la conseguente disoccupazione.

– 8 Errico Malatesta, Al caffè, 2010.

– 9 Nel primo caso faccio riferimento all’anarchico Giuseppe Pinelli, precipitato da una finestra della Questura di Milano nella notte fra il 15 e il 16 dicembre del 1969. Nel secondo a Maria Soledad Rosas e Edoardo Massari, arrestati insieme a Silvano Pellissero il 5 marzo 1998 con l’accusa di essere membri del gruppo terroristico dei Lupi Grigi, poi suicidatisi in carcere. Pellissero, invece, venne assolto.

– 10 Antonio Senta, Premesse del curatore in P. Kropotkin, L’anarchia, 2013.

– 11 Paul Goodman, Individuo e comunità, ivi.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: Pablo Picasso, Donna che piange, 1937

 

27 STATO: CRITICA ALLA DELEGA ELETTORALE – SEGUE

 

«La democrazia non è la sola cosa che non ci piace dell’ordine costituito. Prima però di rimpinguare la lista, vorrei fossero chiari i motivi.»

«Li serbi per l’interrogatorio di garanzia!»

«Ma come?» esclamai. «Preferisce che sia un altro giudice a prendersi i meriti della confessione?». Mi rivolsi anche a Manganello: «Immagini la soddisfazione del suo nome scritto sul giornale!»

Si guardarono senza parlare.

«Va bene!» disse Pottutto. «Ma sia breve. E poi voglio dei nomi!»

«Quali nomi?»

Batté il pugno sul tavolo: «Tutti. A partire da quando andava all’asilo!».

Non avevo ricordi di quella fase embrionale, così gli raccontai di come sabotavo il registro di classe. Poi ripresi a parlare: «Ho criticato il concetto di sovranità popolare e ho affermato che le elezioni sono una farsa perché rappresentano l’abdicazione alla sovranità individuale.»

«Brevemente!»

«Brevemente!» ripetei. «Delegare significa essere servi di qualcuno, per pigrizia, interesse, abitudine, comodità, paura, ecc1, quindi rinchiusi in quella gabbia di bisogni gestita da esperti, nello specifico quei mestieranti della manipolazione che sono i politici, in cui è impossibile l’esercizio dell’autonomia. Per questo gli anarchici ne rifiutano ogni forma, compresa la delega politica. Come dice Enrico Manicardi, forse il più importante teorizzatore italiano dell’anti-civilizzazione, o gli uomini non sono considerati capaci di autodeterminarsi, allora non si spiega come uno solo possa farlo per gli altri, oppure si ammette che lo sono, ma allora non c’è bisogno che qualcuno li comandi.»

«Tutto qui?»

«Mi ha chiesto brevemente!»

«Scommetto che non è finita!»

«Lei è una volpe!» lo adulai. «Un’altra obiezione, infatti, prende spunto dalle argomentazioni di Lisander Spooner. Egli sostiene l’immoralità che la delega politica escluda la responsabilità del governante per le sue azioni. In effetti se la prassi e il Codice civile prevedono che il mandatario sia responsabile verso il mandante, perché la Costituzione sancisce che ogni membro del Parlamento esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato2

«Perché?» chiese Manganello a Pottutto.

«Perché?», Pottutto chiese a me.

«Perché ha ragione Spooner quando afferma che il governo esercita secondo diritto e ragione, un dominio puramente personale, arbitrario, irresponsabile e usurpato dai legislatori stessi, e non un potere delegato loro da qualcuno3. Basti pensare che nel diritto comune il mandato generico si applica solo ai minori e gli interdetti per ribadire che la rappresentanza è il congegno mediante il quale il popolo sovrano viene con il proprio consenso interdetto e sottoposto alla tutela delle classi privilegiate4».

«Solita esagerazione!»

«Che non sia un’esagerazione lo conferma Bakunin quando sostiene che il principio di autorità dello Stato si fonda sull’idea eminentemente teologica, metafisica e politica secondo cui le masse, sempre incapaci di governarsi da sole, devono sottomettersi al benefico giogo di una saggezza e di una giustizia loro imposte. Per cui se per il Potere il popolo è una bestia5, il governo può costringerlo all’obbedienza con ogni mezzo repressivo che si autolegittima a usare. Ne consegue che, e torno a Bakunin, persino nell’imporre il bene lo Stato è nocivo e corruttore proprio perché opera un’imposizione!6».

Afferrai il bicchiere di plastica. Era vuoto. Finsi di bere per non dare soddisfazione ai mei interlocutori.

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«Altra favoletta è che in democrazia tutti possano partecipare all’attività politica. Niente di più falso!» dissi. «Intanto per candidarsi, fare campagna elettorale, svolgere attività serve denaro. Molto denaro. Talmente tanto che il parlamento straripa di ricchi affaristi che non hanno la minima idea di cosa sia la vita reale. In secondo luogo, per partecipare all’attività politica occorre avere conoscenza. Una conoscenza culturale, delle tradizioni, della collettività, delle relazioni, della pratica che persino nelle società policefale conferisce competenze sull’uso del potere nei processi decisionali partecipativi7. Una conoscenza che manca alla massa di elettori costretta a vivere in una dimensione marginalizzata, dominata da dinamiche tecnologiche padroneggiate solo da pochi eletti. Ciò comporta che le stesse scelte politiche, economiche, sociali vengono affidate a uomini di scienza, con l’effetto di creare una dittatura di saggi onnipotenti, ma in realtà incoscienti, su cittadini incapaci di misurare la portata della posta in gioco8. Non siete d’accordo?»

«Su cosa?». Manganello sollevò mollemente il testone.

«Almeno faccia finta di ascoltarmi!» lo ripresi.

«Ma la sto ascoltando!»

«Allora si sforzi di capire!»

«Si sforzi un pochino, maresciallo. Non mi faccia fare queste figure!», lo rimproverò anche Pottutto.

+++++ 

«Altro paradigma della democrazia rappresentativa è il principio della maggioranza con cui si stabilisce che la decisione prevalente è quella che raccoglie più consensi. Fondata sull’assunto rousseauiano che la sua decisione realizza sempre la volontà generale9, di cui però non dà dimostrazione, essa porta all’inevitabile schiavitù volontaria. Di fatto la maggioranza è il più subdolo mezzo per annientare le divergenze. Inconcepibile per chi, come noi anarchici, fa del pluralismo un principio unificatore».

«E quindi?»

«Quindi vi invito ancora a leggere Spencer. Trovate le sue parole nell’articolo del 1.10.23. Asserisce il filosofo: forse si dirà che questo consenso non è specifico ma generale e che è inteso che il cittadino abbia dato il suo assenso a ogni cosa che il suo rappresentante possa fare quando egli ha votato per lui. Ma supponiamo che egli non abbia votato per lui e, al contrario, abbia fatto tutto ciò che era in suo potere per eleggere qualcuno che sostiene idee opposte. Cosa diciamo allora? La risposta, probabilmente, sarebbe che, prendendo parte alle elezioni, egli ha tacitamente consentito ad attenersi alla decisione della maggioranza. E come la mettiamo con chi non ha votato affatto? Ebbene, in questo caso, non può giustamente lamentarsi, visto che non ha protestato contro la sua imposizione. In questo modo, abbastanza curiosamente, sembra che egli abbia dato il suo consenso in qualunque modo abbia agito: sia che abbia detto sì, sia che abbia detto no, sia che sia rimasto neutrale! Una dottrina piuttosto imbarazzante questa10». Pausa. «E così si ritorna a Stirner, per cui il principio della maggioranza e delle elezioni in generale non è altro che l’ennesimo strumento con cui il Potere concede diritti per creare schiavitù».

«Vorrebbe decidere con la monetina?» disse sarcastico Pottutto.

«Avete presente l’esempio della scatola di fagioli?» chiesi.

«A quest’ora ci sta più uno snack al cioccolato!»

«Immaginate che il vostro commerciante preferito un giorno smetta di vendere la marca di fagioli che vi piace tanto perché, per risparmiare, decide di trattare esclusivamente quella che va per la maggiore. A quel punto o cambiate alimentari, oppure dovete adattarvi. In ogni caso subite la sua volontà11. Cosa spiega questo esempio?»

«Io so solo che i fagioli mi fanno scorr…!»

«Manganello!». Pottutto lo interruppe prima che finisse la volgarità.

«Dimostra che la maggioranza è sempre autoritaria in quanto chi è in minoranza deve obbedire alla sua volontà anche se ciò va contro i suoi interessi» rilevai. «Esiste unicamente un sistema che mette tutti d’accordo: la democrazia diretta, che consente la partecipazione personale alle decisioni, e che sia unanime, cioè condivisa.»

«Ma figurati!»

«Occorre cambiare la mentalità. Concepire la società non come un ostacolo ma come una sintesi delle singole individualità. Liberi accordi stabiliti tra gruppi liberamente costituiti per soddisfare l’infinita varietà di bisogni e di aspirazioni degli uomini civili, diceva Kropotkin12

«Embè, se lo diceva Kropotkin!»

 

NOTE

 

– 1 Francesco Codello, Né obbedire né comandare, lessico libertario, ivi.

– 2 Art 67 della Costituzione Italiana.

– 3 Lisander Spooner, Contro il potere legislativo, in La società senza Stato, a cura di Nicola Ianmnello, 2004.

– 4 Max Sartin, Il sistema rappresentativo e l’ideale anarchico, in Perché gli anarchici non votano, Ortica Editore, 2017.

– 5 D. Graeber, Dialoghi sull’anarchia, 2022.

– 6 M. Bakunin, Federalismo socialismo antiteologismo,1868.

– 7 Herman Amborn, Il diritto anarchico dei popoli senza stato, Eleuthera, 2021.

– 8 Philippe Godard, Contro il lavoro, 2011.

– 9 J. J. Rouseau, Il contratto sociale, 1762.

– 10 Herbert Spencer, Il diritto di ignorare lo Stato, ivi.

– 11 Gian Piero de Bellis, Panarchia, D-Editore, 2017.

– 12 Estratto della definizione di Anarchismo di P. Kropotkin nell’edizione del 1910 dell’Encyclopedia Britannica.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi

 

 

22- INGRANAGGI MENTALI

Bussarono alla porta.

Il volto paffutello di una ragazzina in divisa si affacciò timidamente per avvisare Pottutto che c’era una telefonata per lui.

«Per me?»

«Per lei!»

«Dica che sono impegnato!»

«È urgente!»

«Chi sarà mai?» rifletté imbarazzato. «Deve essere mia moglie. Stamani è stata a parlare con i professori di nostro figlio… Tutte le volte è una tragedia!» aggiunse con ghigno crepuscolare.

«Non è sua moglie!».

Il pubblico ministero lisciò il baffo con la penna. «Sarà mica la pizzeria… magari hanno visto le luci accese?»

«Non è la pizzeria, dottore!»

«Manganello, ha pagato la tintoria?»

«È il dottor Persecuzio» tuonò la novellina.

La segretaria smise di battere a macchina.

Manganello scivolò sulla sedia fino a nascondersi sotto il tavolo.

Avrei giurato che la sfinge sulla porta avesse chiuso gli occhi.

O forse fu solo una mia impressione.

Il magistrato oscillò tremolante. Sbiancò, avvampò, sbiancò ancora per assestarsi su un livido cadaverico.

«Persecuzio?» chiese terrorizzato. Per non cadere afferrò il riporto del maresciallo. Ma i capelli erano unti e gli sgusciarono di mano.

«Il procuratore capo!» la giovane ribadì.

«Manganello, risponde lei per favore?»

«E che gli dico?»

«Non so. Come s’inventa le prove, s’inventi una scusa!»

«Non mi faccia questo!» supplicò il maresciallo.

«Vuole che ci parli io?» proposi.

«Lo farebbe per me?»

«Per gli amici questo e altro!».

Alla fine, Pottutto si arrese al destino: «Va bene, me lo passi!» proferì.

Attendemmo in apnea che trillasse il vecchio telefono Sip color grigio topo poggiato sulla cassettiera alle spalle dei miei inquisitori.

«Pronto, chi parla?» farfugliò Pottutto. «Buongiorno, dottor Persecuzio… Certo che sapevo che era lei, dottor Persecuzio… Perché allora ho chiesto chi parla? Non saprei dottor Persecuzio. Per abitudine, forse?… No dottor Persecuzio, non faccio il cretino! A proposito dottor Persecuzio, volevo complimentarmi perché la foto sul giornale le risalta il profilo egizio!… No, dottor Persecuzio, non faccio neanche il leccaculo!… Immaginavo volesse parlarmi dottor Persecuzio… L’interrogatorio? Abbiamo cominciato giustappunto a conoscerci, dottor Persecuzio. L’indagato è affabile e collaborativo e sta spiegando con dovizia cos’è l’anarchia… Come dottor Persecuzio? Non gliene frega di sapere cos’è l’anarchia e vuole solo i nomi per la stampa?». Pottutto coprì la cornetta e a me: «Dice che vuole solo i nomi per la stampa!»

«Quali nomi?» replicai di labiale.

«Sicuramente, dottor Persecuzio. Le prometto che l’indagato non ne tralascerà uno!». E a me: «Mi informa che vi impiccherebbe tutti voi anarchici!». Quasi a giustificarsi: «Non si preoccupi, gli piace esagerare!». Tornò ad ascoltare il procuratore capo e poi coprì di nuovo la cornetta: «Sostiene che a quest’ora col dottor Comma avrebbe già confessato!».

Lo rassicurai negando con un gesto della testa.

«Le prometto dottor Persecuzio che parlerà così tanto che alla fine dovrà fare i fumenti perché gli torni la voce!… Allora ci sentiamo più tardi, dottor Persecuzio… Buona serata. Saluti la signora. È ancora in ufficio? Allora saluti la segretaria. Grazie della telefonata. A presto e buon lavoro. Buon inizio e buon principio. Ad meliora et at maiora semper… Ha buttato giù!» Il magistrato fissò il vuoto. «Gli sarà piaciuta la citazione latina?». I suoi occhi spauriti scivolarono dal faccione del maresciallo, alla scrivania, a me. Si morse il labbro.

«È stato bravo»!» lo rassicurai.

«Dice?»

«Molto determinato e conciso. Adesso però possiamo proseguire l’interrogatorio?».

+++++

Per recuperare la sua attenzione riassunsi su un foglio alcune parole chiave della socialità anarchica:

             Liberarsi dagli ingranaggi mentali

                                                                   ↓

        Coscienza di sé → Padrone di se stesso

                                    ↓

                                                       Autonomia = libertà-eguaglianza

 

Sintetizzai: «Affinché gli uomini manifestinola propria personalità in maniera libera ed eguale, occorre che siano coscienti di sé, ovverosia neghino i condizionamenti esterni e vivano seguendo la propria natura. Emancipati così dagli ingranaggi mentali, diventano padroni di se stessi, quindi capaci di determinarsi senza assoggettamenti. Che non significa fare quello che pare, poiché il mero perseguimento dei desideri e piaceri è un ciclo senza fine che porta a sofferenza, bensì fondersi nell’unità del mondo».

Pottutto e Manganello si fissarono come se il peggio dovesse ancora venire.

«In un articolo spiego tale evoluzione con le parole di Stirner. Sarà pure delirante, egoista ed esaltato come sostengono i suoi detrattori, ma usa immagini così ficcanti, paradossi, bizzarrie ed è così al confine fra genio e follia che ogni volta che lo leggo mi illumino d’immenso!» scomodai Ungaretti1. «Il suo pensiero, infatti, coglie in pieno la necessità che la volontà si emancipi dalla contingenza per sprigionare tutta la sua potenza. Nietzsche non ammetterà mai di essersi ispirato a lui, ma senza l’Unico, il Superuomo sarebbe stato più uomo che super!»

«Sta dicendo che lo ha plagiato?»

«Lascio a voi giudicare!»

«Signorina Servile, terminato l’interrogatorio prepari subito un bell’avviso di garanzia nei confronti di questo falsificatore da strapazzo!» paupulò Pottutto.

«Ben fatto!» seguì Manganello.

«Il filosofo…» ripresi.

«Chi, quel Shiller?» domandò il PM.

«Si chiama Stirner» precisai. «Anche se I Masnadieri sono una bella botta di ribellione!2». Proseguii: «Il filosofo parte dal presupposto che l’individuo non sia l’io è tutto idealizzato da Fichte, né l’io del popolo che è una potenza impersonale, spirituale, è la legge quindi uno spettro, non un io, né quello regolamentato dallo Stato in quanto esso non è pensabile senza il dominio e la schiavitù, tantomeno quello contemplato dalla religione per cui la persona viene soggiogata dalla promessa del bene sommo e non presta più attenzione ai propri desideri, o l’homo oeconomicus, poiché nell’avere, ossia negli averi, gli uomini sono diseguali…»

«Non è che ci rimanga granché!» rilevò Manganello.

«Per Stirner, infatti, idealismo, società, Stato, religione, capitale sono forme di autorità che includono sempre la prospettiva di un nuovo dominio e realizzano schiavitù, servitù, rinnegamento di sé. Occorre pertanto che l’Unico si ribelli e non sia più schiavo di Dio o della legge ma diventi padrone di sé, cioè individuo capace di determinarsi secondo la propria volontà senza subire le pressioni, le suggestioni, i fantasmi che da sempre la soggiogano. Solo quando il mondo sarà nostro, il suo potere non sarà più contro di noi ma con noi, afferma3».

«Lo diceva anche mia nonna che bisogna essere se stessi!» squittì il maresciallo.

«Le nonne sono sempre molto sagge!» convenni.

«L’urgenza di diventare padroni di se stessi è un concetto trasversale all’anarchia. Kropotkin, ad esempio, pur avendo una concezione del mondo, della società, dell’anarchia stessa completamente opposta dall’individualista, sostiene a sua volta che il capitalismo, la religione, la giustizia, il governo sono grandi cause di depravazione. Lo afferma per dimostrare la potenza del mutuo appoggio, ma la sostanza non varia: noi non chiediamo che una cosa, ovverosia eliminare tutto ciò che nella società umana impedisce il libero sviluppo, cioè tutto ciò che falsa il nostro giudizio: lo Stato, la Chiesa, lo sfruttamento; il giudice, il prete, il governo, lo sfruttatore, poiché in una società basata sullo sfruttamento e la servitù, la natura umana si degrada4».

Feci un’altra pausa perché la loro espressione da perioftalmo mi inquietava.

«Ho citato questi due filosofi così diversi ma così eguali perché entrambi parlano degli ingranaggi mentali da cui dobbiamo affrancarci per essere padroni di noi stessi: religione, società, Stato, capitale». Guardai il pubblico ministero: «Adesso li vediamo uno alla volta.»

«Non basta citarli?» chiese.

«Dottore, mi dia un po’ di soddisfazione!».

 

NOTE

– 1 Mi illumino d’immenso è una poesia di Giuseppe Ungaretti, 1888, 1970.

– 2 I Masnadieri sono un’opera che critica le convenzioni sociali e l’autorità del poeta tedesco Friedrich Shiller 1759-1805.

– 3 Max Stirner, L’Unico e la sua proprietà, 1844.

– 4 Peter Kropotkin, La morale anarchica, 1890.

IN foto: Andre Martin De Barros, EArotic Illusion, 2009

Editing a cura di Costanza Ghezzi

 

 

18- Perché fa paura l’anarchia

N. 18

 

Il pubblico ministero invitò la signorina Servile ad aprire la finestra. «Metta questo a contrasto!». Dalla tasca della giacca tirò fuori un codice di procedura penale.

La segretaria lo appoggiò fra le persiane.

Stavo per riprendere a parlare che dalla strada si levò un urlo straziato. Mi voltai e il codice non c’era più.

«Signorina? Aggiunga al capo d’imputazione le lesioni aggravate!» le ordinò Pottutto.

Non volevo dargli soddisfazione replicando che ce l’aveva messo lui, così: «Perché vi fa tanto paura l’anarchia?» lo sferzai. «L’anarchia non è caos e non è disordine. Non è anomia, né acrazia. E allora perché?»

«Perché?» ripeté Pottutto. Guardò Manganello, poi giochicchiò con la penna prima di squadrarmi: «Scarpe da ginnastica consumate, jeans strappati, maglietta stropicciata… Solo un anarchico può presentarsi in questo modo a un interrogatorio!»

«Ma se mi hanno arrestato mentre giocavo a calcio!»

«Perché, lei non può giocare a calcio come tutte le persone civili con un bel completino di flanella, la camicia chiara e la cravatta in tinta unita?».

Il maresciallo lo tolse dall’imbarazzo: «Lo so io!» disse. «Perché quando ci sono le manifestazioni, siete gli unici che reagite alle nostre legnate!»

«E vi facciamo pure male!» sfoggiai un sorriso amichevole. «Ma non può essere per qualche bernoccolo che ci odiate tanto, no?».

Pottutto sfogliò i fogli del mio blog cercando la risposta.

Manganello si arricciò la ciccia dell’avambraccio.

«Siete dei sovversivi!» disse il primo.

«Ma questo è un complimento!» replicai ironicamente. «Se ci lasciaste vivere come vogliamo, nessuno sovvertirebbe niente. Invece volete che ubbidiamo, che ci adeguiamo al regime, che reprimiamo la nostra volontà per soddisfare la vostra!»

«Perché la nostra è quella giusta?» replicò Manganello.

«Se amate essere servi, servite pure. Ma non pretendete che tutti lo siano!»

«Non è possibile!» intervenne Pottutto. «Lo Stato non può accettare che qualcuno lo sia e altri no. Si creerebbero delle intollerabili discriminazioni. È una questione di eguaglianza. Lei che fa tanto il saputello saprà che l’articolo tre della Costituzione dice che siamo tutti uguali!»

«Ci sono!» esclamò Manganello appoggiando il ventre sul tavolo. «Voi anarchici siete violenti!»

«Violenti noi? Ma se siamo anti-violenti per definizione? Ovviamente se veniamo provocati, rispondiamo. Ma non c’è niente di violento in quello che diciamo e facciamo.»

«È sempre una violenza fare ciò che non si deve fare!» gongolò Pottutto.

«Direi che violenza è costringere a fare ciò che non si vuole fare!» rilevai. «Quindi se obbedissimo senza lamentarci saremmo dei bravi cittadini? Sa che non avevo mai considerato questa prospettiva? Quasi quasi quando esco ne parlo coi ragazzi. Poi torno e vi riferisco. Okay?… Ma non scherziamo! Che il Potere ci dia la possibilità di organizzarci, che non ci imponga le sue leggi, che non ci obblighi al suo sistema economico, che non ci opprima con la sua religione e la sua morale. E allora andremo tutti d’amore e d’accordo!»

«Non faccia l’ingenuo, sa che questo non è possibile!»

«Certo che lo so. Perché lo Stato pretende di essere il dominatore assoluto». Cambiando tono: «Mi dispiace deluderla, ma noi obbediamo solo alla nostra ragione, al nostro istinto, alla nostra volontà

«E allora prendetevi le manganellate!». Manganello si stizzì.

«Lo lasci perdere, maresciallo!». Pottutto lo redarguì. «Quanto a lei» tornò a me, «è la storia a dire che siete violenti!»

«La storia scritta da chi?» gli replicai. «C’è stato solo un periodo, quello della così detta propaganda del fatto fra la fine dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale in cui gli anarchici hanno pensato di reagire all’oppressione con azioni dirette contro i simboli del potere. Si trattava però di pochi, isolati idealisti che speravano di risvegliare le masse. Sono tutti morti sul campo o finiti in prigione.»

«Allora gliene dico un’altra: non si capisce cosa volete!» si esaltò il pubblico ministero.

«Ma l’ho già ripetuto un’infinità di volte: vogliamo solo vivere la nostra vita senza che nessuno ci dica cose fare

«Non mi sono spiegato. Lo Stato ha bisogno di certezza, anche quando si parla di nemici. Voi invece siete un casino totale: uno dice una cosa, uno ne dice un’altra… insomma, che palle!»

«L’anarchia è pluralista per definizione. Per questo dovete rassegnarvi a non poterla controllare. Non abbiamo una segreteria di partito che ordina come dobbiamo pensare e cosa dobbiamo fare, non abbiamo un leader, non abbiamo un movimento omogeneo…»

«Però capisce che così…!». Pottutto fece una faccia spazientita. «Almeno un ufficio di pubbliche relazioni, una sede, un capo da arrestare ogni tanto… Ogni volta sembra di ricominciare dall’inizio!»

«Per noi la figura del capo è inammissibile

«Ma per noi sì!»

«Lo vede?»

«Lo vede cosa?»

«Che ho ragione. Per voi è inconcepibile che possiamo agire senza un leader perché siete il prodotto della società del dominio: una società in cui ci sono dominanti e dominati, chi dà gli ordini e chi obbedisce. Siete come quegli europei che raggiunsero le coste del Sud America e quando trovarono gli indigeni che vivevano in una società senza fede, senza legge, senza Re, quindi senza gerarchia, li considerarono incivili. Non vi capacitate di come le persone possano unirsi, organizzarsi, autogestirsi, senza che qualcuno si imponga sugli altri. Siete talmente succubi del principio di autorità che, se non foste servi dello Stato, con la stessa fierezza lo sareste di qualcos’altro. Per questo ridiamo di voi esattamente come facevano gli indigeni quando osservavano gli europei che davano gli ordini e obbedivano1

«Le faccio notare che quella società del dominio, che le piace tanto svilire, ha portato la civilizzazione

«A dire il vero, ha portato parecchio sterminio di massa. La civilizzazione è solo la creazione di nuovi spazi di mercato da sfruttare per aumentare il profitto di chi non si accontenta di quel troppo che già possiede!» replicai a denti stretti. «Penso che la narrazione liberal-capitalista da una parte e comunista dall’altra abbiano paura. Paura della nostra libertà, della nostra determinazione, della nostra capacità di autogestione che minaccia il loro dominio. Per questo ci ostacolano, ci reprimono, ci denigrano. Zinn diceva: finché le lepri non avranno i loro storici, la storia sarà raccontata dai cacciatori2. Ma attenzione, che la storia è in continuo divenire e ciò che oggi sembra certo, domani chissà!».

Per qualche secondo mi fissarono inespressivi.

Poi Manganello ruppe il silenzio: «Adesso che c’entrano le lepri?».

 

 

NOTE

 

1 – Aneddoto raccontato da Pierre Clastres in Anarchia Selvaggia, Eleuthera Edizioni, 2017.

2 – Howard Zinn, 1922-2010, storico, saggista. Citato da Isabelle Attard in Perché sono diventata anarchica, Eleuthera Edizioni, 2021.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi, costanzaghezzi@gmail.com

Immagine: Renè Magritte, L’arte di vivere, 1967

 

17- Non ci sono poteri buoni

N 17  

 

Improvvisamente bussarono alla porta.

Con passo felpato e un vassoio fra le mani, entrò la stessa tracagnotta in uniforme che ci aveva lasciati prima che cominciasse l’interrogatorio.

«Ecco le sue schiacciatine!» disse con entusiasmo da bersagliera. «Dove le appoggio?»

«Le metta qui!». Pottutto liberò lo spazio davanti a sé. Poi la sua espressione da labrador si trasformò in Mefistofele cacciato dal Regno dei Cieli: «Le avevo chieste coi ciccioli!»

«Li avevano finiti!» tremò la poverina.

«Dottore sono buonissime!». Il maresciallo ne stava mangiucchiando una strisciolina. «Glielo dica anche lei!» mi coinvolse.

«Gustosissime!» confermai.

«Una prelibatezza!» grugnì ancora il maresciallo, la cui mano venne colpita dal righello sciabolato da Pottutto mentre ne afferrava un altro pezzo.

Il magistrato addentò e fu come Ego quando assaggia la Ratatouille1.

Con un gesto solerte Manganello sollecitò la tracagnotta a sloggiare.

Il pubblico ministero riaprì gli occhi appagato: «Certo che questo benedetto potere è proprio un’ossessione per voi anarchici!». Pulì fra i denti con l’unghia del mignolo.

«Ossessione? Direi proprio di no!» lo corressi. «Posso?» indicai la bottiglietta d’acqua.

Dalla tasca della giacca ne tirò fuori una vuota: «La prenda là!». Indicò il bagno.

Mi tenni la sete e: «Il potere è maledetto! diceva Bakunin. Esso genera gerarchia, subordinazione, obbedienza, oppressione e tutto ciò che rende il mondo un posto malvagio. In una parola: diseguaglianza. E una società fondata sulla diseguaglianza non sarà mai il luogo in cui gli individui potranno essere felici!»

«Ah, no?»

«Eh, no!» sorrisi. «Senza eguaglianza non c’è libertà. E viceversa. Infatti, sempre il russo diceva: la libertà degli altri, lungi dall’essere un limite o la negazione della mia libertà, né è al contrario la condizione necessaria e la conferma. Non divengo veramente libero se non attraverso la libertà degli altri, così che più numerosi sono gli uomini liberi che mi circondano, più profonda e ampia è la loro libertà, più estesa, più profonda e più ampia diviene la mia libertà

«A me non dispiace se qualcuno mi dice cosa fare!»

«Tipo essere libero di scegliere fra obbedire o obbedire? Servitù volontaria, la chiamava quel giovanotto impertinente di Étienne De La Boétie nel XVI secolo. All’età di diciotto anni scrisse un libretto talmente rivoluzionario che venne pubblicato post-mortem in cui affermava che l’uomo viene educato alla servitù, si adatta alla servitù, accetta la servitù, a tal punto che le persone non conoscono altro che lo stato di servitù e si accontentano e sopportano, aspirando a compiacere il sistema per poter godere e partecipare dei piaceri offerti, godendo e gratificandosi della miseria di coloro che invece non riescono a farlo. Cionondimeno invitava gli uomini a liberarsi dal giogo: decidete di non servire più, e sarete liberi2. Auspicava, infatti, la rivolta individuale per diventare ciò che Stirner, quattro secoli dopo, avrebbe definito essere padroni di se stessi

«Sinceramente io tutti questi servi non li vedo!» obiettò Pottutto. «Lei ne vede, Manganello?»

«Magari!» crocchiò il maresciallo. «Qui non si finisce mai di lavorare!».

Riprese il PM: «Lei confonde la sana coercizione che garantisce la disciplina con la schiavitù». Si volse verso il maresciallo: «Che ne pensa, Manganello?»

«Ineccepibile!»

«Che ho detto?»

«Che se gli anarchici vanno affanculo si sta tutti meglio?».

Pottutto gli strappò dalle mani il foglio sul quale disegnava quello che con molta fantasia poteva essere un cavallo.

«È un cane!» precisò il maresciallo.

«Lei parla di disciplina» dissi. «Quindi di legge. Ma chi fa la legge?»

«Il Parlamento, naturalmente!»

«Fuochino!»

«La forza!» seguì un sorprendente Manganello.

«Bravo maresciallo!». Si meritava i complimenti. «In una società fondata sul dominio, solo e soltanto il più forte detiene il potere. A volte in maniera violenta come nei totalitarismi, altre in maniera subdola e manipolatrice come nelle democrazie. Potere che definisce i comportamenti che la massa deve necessariamente osservare. Si chiama ordine sociale e il suo scopo è consentire al Potere stesso di sopravvivere, crescere, perpetuarsi.»

«E fin qui è una filastrocca già sentita. Se adesso ci facesse magari qualche nome!».

Lo ignorai: «Cosa indica il termine Potere?». Perché non si sforzassero troppo: «Ve lo dico io. Nella società del dominio il più forte è sempre e soltanto il più ricco, colui che domina dalla piramide di lingotti, azioni, monete su cui è seduto, dando ordine ai governi e al vassallaggio di menare gli schiavi perché non smettano di lavorare alla sua edificazione.»

«Quindi?»

«Quindi propongo la lettura di una bella poesia sul Potere» dissi.

«No, la poesia no!» gorgogliò Pottutto.

«Pure sul potere!» seguì Manganello.

«Non è proprio una poesia, ma l’estratto di una canzone…»

«Manganello, vada a prendere il mangianastri!»

«Non serve!» dissi. «Basta il testo… legga pure a voce alta!»

«A voce alta?»

«A voce alta!».

Pottutto prese un respiro profondo e:

 

Certo bisogna farne di strada

da una ginnastica d’obbedienza

fino ad un gesto molto più umano

che ti dia il senso della violenza

Però bisogna farne altrettanta

Per diventare così coglioni

Da non riuscire più a capire

Che non ci sono poteri buoni3

 

Il magistrato tolse fiaccamente gli occhiali e mi fissò implorandomi di parlare per primo.

«Per il momento limitiamoci a constatare che non ci sono poteri buoni!» dissi senza aggiungere altro.

«Tutto qui?»

«Mi conceda un po’ di suspense!»

 

NOTE

1 – Ratatouille, film di animazione della Pixar Animation Studios, 2007.

2 – Etienne de La Boétie, Discorso della servitù volontaria, 1548.

3 – Fabrizio De André, Nella mia ora di libertà, nell’album Storia di un impiegato, 1973.

 

uditing a cura di Costanza Ghezzi, costanzaghezzi@gmail.com

Immagine: Andrè Martin De Barros, Golgota, 2007

9- Morale e etica

«Ma c’è di più!» li presi in contropiede.

«Ci vuole dire dove tenete le armi?». Pottutto si eccitò.

«Le nostre armi sono le parole!» scherzai.

Dalla tasca interna della giacca, la stessa da cui prima aveva tirato fuori il castagnaccio, prese una clessidra. «Le do due minuti!». La sabbia cominciò a cadere. «Uno e cinquanta, uno e quarantanove, uno e quarantotto…».

Presi fiato. «L’anarchia è una scelta etica» sentenziai. «Conoscete la differenza fra etica e morale?» chiesi.

«La morale è andare a messa!». Il pubblico ministero improvvisò.

«Commettere un reato è immorale!» aggiunse il maresciallo per non essere da meno.

«La differenza è molto semplice: la morale è quel complesso di valori, ideali, tradizioni culturali e religiose che una società si dà per soddisfare il bisogno di sopravvivenza. E la società cos’è? È quella somma di persone riunite da un potere sovrano a cui viene detto che solo realizzando il suo interesse potranno conseguire il proprio. Quindi la morale è data dai valori, ideali, eccetera eccetera, che tale Potere crea e impone per legittimarsi e perpetuarsi. In altri termini, la morale è uno strumento di controllo: devi fare quello, non devi fare quello!».

 Conclusi: «E se per i primitivi queste prescrizioni si saldavano nelle consuetudini, in epoca medioevale negli imperativi religiosi, oggi che Dio è morto…»

«Come è morto?». Manganello sobbalzò sorpreso.

«È un po’ che è morto!» replicò saccente il pubblico ministero.

«Lo sanno tutti che la civilizzazione gli ha dato il colpo di grazia!» dissi.

«Ma dai!»

«La tecnologia ha ucciso l’immaginazione e senza immaginazione…». Non c’era bisogno che terminassi la frase. «Morto Dio, il suo posto è stato preso dallo Stato prima, dal capitalismo scientifico poi. Non cambia granché: una volta l’autorità stava lassù, oggi sta qua giù, in mezzo a noi. E non c’è autorità che non esprima la sua morale». Mi presi una pausa. «Ma, oltre a consentirle la conservazione, perché l’autorità ha bisogno della morale?»

«Per essere più giusta?»

«Wow, il nostro Manganello!» giubilai. «Soprattutto perché senza morale non ci sarebbero gli ingiusti, e senza ingiusti, il Potere non potrebbe proclamarsi giusto!». Schiarii la voce. «Non è detto, però, che un comportamento moralmente corretto sia anche oggettivamente corretto. Faccio un esempio: mio padre, oltre a essere un bevitore numero uno, aveva il vezzo di dimostrarci il suo amore con delle sane labbrate. Un giorno vidi mio fratello che frugava nel suo armadio. Colto in flagrante, confessò che stava cercando qualche spicciolino per uscire con gli amici. L’avessi riferito al babbo, cioè avessi raccontato la verità, avrei tenuto un comportamento moralmente corretto, ma mio fratello avrebbe preso una tale vagonata di botte che non lo avrei più riconosciuto. Non avessi detto la verità, sarei stato complice, cioè avrei tenuto una condotta moralmente improba, e il vecchio avrebbe cambiato i connotati anche a me.»

«Scommetto che non ha detto niente!». Pottutto sogghignò.

«I soldi li ho presi io senza dire nulla. Così mio padre non è impazzito e mio fratello non ha rischiato la vita… e sono andato al cinema con la mia ragazza!».

Il pubblico ministero mi fissò interdetto. Poi: «Mi spiace, ma la clessidra…». La indicò per mostrare che la sabbia era scesa completamente.

«C’è l’extra-time» dissi. «Mi avete interrotto più volte!».

Alzarono le mani.

++++

«L’etica, dal greco ethos, cioè carattere, comportamento, ha un significato più ampio. Di fronte a una determinata situazione, a una condotta da tenere, una scelta da fare, l’individuo si interroga su cosa è giusto e cosa è sbagliato. Attiva quindi un ragionamento che tenga conto degli aspetti personali, sociali, ambientali, altro, che lo portano a una soluzione che contempli la sua personale idea di giustizia». Li vidi dubbiosi. «Faccio un esempio. Se mi trovo in un bosco, posso buttare la sigaretta accesa fra le sterpaglie rischiando un incendio, oppure posso spengerla con le dita e metterla in tasca. Decido per questa seconda alternativa in quanto valuto che, se provocassi un incendio, non solo violerei la legge, cosa di cui mi fregherebbe il giusto, ma ucciderei gli alberi, gli animali, la natura circostante, cosa di cui non mi darei pace. Attraverso un giudizio razionale-emotivo, quindi, scelgo un comportamento che realizza il mio senso di giustizia, ovvero proteggere madre natura. Questa è l’etica.»

«No, questa è la morale!» replicò Pottutto piccato.

«No, è etica!» ribattei.

«È morale!» insistette.

«Etica!». E siccome le vene cominciavano a gonfiarsi: «Prego!» Gli passai la pallina di pongo. «Se non si arrabbia, glielo spiego in un altro modo!» dissi conciliante.

«Già, lo spieghi anche a me, perché non ho mica capito tanto bene!» sibilò il maresciallo.

«Lo spiego a entrambi, contenti?». Mi voltai verso le segretaria gobboni sul computer. «Lo spiego anche a lei, signorina?».

Fece no col ditino.

«Ho detto che il Potere impone alla società la sua morale per non estinguersi. Ma chi o cos’è questo Potere?» chiesi a bruciapelo. «Ve lo dico io!» li soccorsi. «È il potere economico: chi ha i soldi. In una società autoritaria, sempre loro comandano!» dissi con la faccia dell’ovvietà. «Quindi la morale è quell’insieme di linea guida a cui le persone devono conformarsi per soddisfare il potere economico che si ramifica nelle molteplici strutture di dominio. Fin qui ci siamo?».

Proseguii: «Con l’etica la situazione si ribalta: è l’individuo che giudica, dubita, valuta, sceglie. Non è più un soggetto passivo, ma diventa attore, interprete e giudice della contingenza. Stabilisce cosa è giusto e cosa è sbagliato. E lo fa attraverso un processo razionale ed emotivo, sottolineo emotivo perché non esiste ragione senza sentimento, che tenga conto del carattere, delle esperienze, delle conoscenze, degli affetti, di tutto ciò che forma la sua personalità in divenire.»

«Mi sa di già sentito!» eccepì il pubblico ministero convinto.

«Probabile in quarta liceo!» chiarii. «Il concetto ha radici, infatti, nell’illuminismo.»

«Ecco, nell’illuminismo… Ce l’avevo sulla punta della lingua!». Il PM gongolò. «Grozio?».

Non mi sembrò il caso di spiegare che Grozio era un giusnaturalista. Mi limitai a un Kant detto sottovoce per non mortificarlo. «L’anarchia, infatti, coglie, e in alcuni casi estremizza, i principi illuministici. A proposito…»

«Mi perdoni». Il magistrato indicò ancora la clessidra: «Ormai abbiamo superato l’extra-time, i supplementari e i calci di rigore!»

«Chiudo velocemente!» lo rassicurai. «Nel 1781…»

«Allora mi prende in giro? Dice di fare veloce e va indietro di tre secoli?»

«Mi faccia finire, vedrà che… Nel 1781 Kant scriveva quel Vangelo contemporaneo che è la Critica della ragion pura. Per farla breve, egli distingueva fra il fenomeno e il noumeno. Il fenomeno è la conoscenza empirica data dall’esperienza. Il noumeno è la conoscenza della cosa in sé, che può avvenire soltanto attraverso la ragione pura, cioè un giudizio emancipato da ogni determinazione morale, normativa, eccetera. Un processo razionale che sfocia nell’idea. Etico, quindi. In maniera simile ragiona l’anarchico, che può considerarsi l’ultimo degli illuministi, quando critica l’ordine esistente per tendere alla propria idea assoluta di giustizia suprema. Egli rifiuta la legge e la morale per creare un proprio codice che tenga conto della sua personalità, dei suoi interessi, delle sue aspirazioni. Si affranca così dai condizionamenti esterni per porre in essere scelte autonome. Come diceva Ghandi, infatti, l’etica sta nel scegliere la propria strada e percorrerla senza paura. Ed è proprio in virtù di quell’ideale supremo, di quel giudizio di valore che guida ogni decisione personale che Malatesta attribuisce al sentimento di amore che nasce dal soffrire quando gli altri soffrono, il fondamento dell’essere anarchico. Perché cosa è più etico di voler eliminare ogni sorta di ingiustizia?»

«Non ho capito una cosa». Pottutto borbottò guardando Manganello, che gli rispose con un’espressione da: «Solo una?». Giochicchiò con il tappino della penna. «Lei parla di giustizia, di bene e male, ma non ho capito a cosa si riferisce. E soprattutto, è un’ora che siamo qui e ancora non mi ha fatto un nome! Per me, ad esempio, a questo punto potrebbe essere giusto applicarle due elettrodi… Dove va, Manganello?»

«A prendere il generatore coi cavi elettrici!» bofonchiò il maresciallo. «Non ha appena detto che…?»

«Si metta a sedere!».

Ringraziai il pubblico ministero per la clemenza e gli feci presente che non sarebbero bastati due giorni per riassumere tremila anni di storia di filosofia etica.

«Allora mi dica quale è la vostra idea di giustizia e tagliamo la testa al toro!».

 

Dipinto: Minjun Yue, Free and leisure, 2003

Editing a cura di Costanza Ghezzi, www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com

 

7- Trilussa

A proposito di socialismo, mi venne in mente una poesia di Trilussa.

«Vogliamo farci una risata?» proposi al pubblico ministero.

«Ci dice tutti i nomi degli anarchici che hanno collaborato con lei?»

«Molto meglio!»

«Ha deciso di iscriversi al concorso per allievi ufficiali?»

Il pubblico ministero sfogliò le pagine del blog fino ad arrivare a quella che avevo indicato.

Mi bastarono due versi per capire che manco la filastrocca del pulcino aveva mai letto.

«Dia a me!» lo esortai.

«Provo io?». Manganello si propose.

«No!» rispose un coro che comprendeva oltre al sottoscritto e il pubblico ministero, anche la segretaria e, seppur con un sibilo informe, la Sfinge davanti alla porta.

«Mi raccomando, silenzio finché non ho finito!» li istruii. Cominciai:

«Un Gatto, che faceva er socialista

solo a lo scopo d’arivà in un posto,

se stava lavoranno u pollo arrosto

nella cucina d’un capitalista.

 

Quanno da un finestrino su per aria

S’affacciò un antro Gatto: Amico mio,

persa – je disse – che ce so pur’io

ch’appartengo a la classe proletari!

 

Io che conosco bene l’idee tue

So certo che quer pollo che te magni,

se vengo giù, sarà diviso in due:

mezzo a te, mezzo a me… Semo compagni!

 

-No, no: – rispose er Gatto senza core

Io nun divido gnente cò nessuno:

fo er socialista quanno sto a diggiuno,

ma quanno magno so conservatore!1».

 

Terminata la lettura seguì qualche secondo in cui il pubblico ministero e il maresciallo non batterono ciglio. Fu la segretaria la prima a strozzare un abbozzo di risata. Bastò perché Pottutto gorgogliasse un: «Ah!» vibrato, a cui seguì l’eh, eh! di Manganello che lo fissava per capire se e quanto osare.

«Carina!» disse il primo sospettoso. «Socialista quando ha fame… conservatore quando mangia…»

«È geniale!» replicai deluso da quella reazione asfittica. «Carina è una felpa con un bel disegno. Carina è la giraffa di peluche che si vince al Luna Park. Carina può essere Elisabetta Canalis!»

«No, quella è bona!». Il maresciallo sciolse gli istinti.

«Manganello!». Pottutto lo riprese. E parlandogli con la mano davanti alla bocca: «Chi è Elisabetta Canalis?»

«Non la conosce?»

«Dovrei?».

Il maresciallo smanettò il cellulare e gli mostrò una foto in cui la soubrette era avvolta da pizzi e trasparenze.

«Simpatica!» il PM frinì. «Simpatica e intelligente!»

«Suvvia, dottore!» Manganello gli fece gomitino. «Si lasci andare. Altro che simpatica, questa è proprio bona!».

 

NOTE

1, Trilussa, Er compagno scompagno.

 

Dipinto: Enrico Robusti, Rane fritte, 2002.

Editing a cura di Costanza Ghezzi – www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com

 

DUE PAROLE VELOCI SU “UNDERGROUND ANARCHICO”

Underground Anarchico è un blog a puntate in cui parlo di anarchia. Lo faccio immaginando di trovarmi nella stanza degli interrogatori davanti ai simpatici pubblico ministero dottor Pottutto e al fido scudiero il maresciallo Manganello. Ovviamente si tratta di fantasia: nella realtà lo sarebbero molto meno.

I capitoli sono brevi e ciascuno di essi tratta un argomento. Verranno pubblicati ogni primo del mese.

Ho scelto il dialogo sia per dare risalto alla spontaneità della narrazione piuttosto che alla sistematicità del ragionamento, sia perché l’anarchia è un “sentimento” che non ha bisogno di sistemi per essere compreso. Che poi compreso da chi? Gli anarchici sanno cosa sono. Sono gli altri, i farisei e i sempliciotti, che ne parlano senza cognizione. Posso dire, quindi, che il blog sia rivolto prevalentemente a loro. Per questo ho cercato di essere il più semplice, a tratti banale, possibile.

Il linguaggio è immediato e diretto. Ho voluto spogliare il testo da ogni orpello e artificio narrativo per dare risalto allo scambio di battute, fondamentale per fare emergere la personalità dei personaggi ed esaltare, seppur in maniera sintetica, i concetti e la passione anarchica.

Numerose sono le citazioni. Anche se non le amo particolarmente, su questo la penso come Shopenhauer, lo scopo degli articoli è divulgativo, quindi non potevo non dare voce ai padri dell’anarchia che l’hanno spiegata in maniera molto più efficace di quanto sarei in grado di fare personalmente.

Invito chiunque a contribuire. Accetto pareri, consigli, anche collaborazioni. Chi volesse può scrivere alla mail: raimondomariadopraho@gmail.com

Dedico Underground Anarchico alle vittime di Stato, per le quali non ci sarà mai giustizia.

Adesso vi saluto perché non ho da dire altro.

Anzi no, quasi dimenticavo: come non ringraziare la mia editor Costanza Ghezzi? Perché vogliamo parlare dell’ideatore e consulente editoriale del blog Raimondo Preti?