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24- INGRANAGGI MENTALI: LA SOCIETÀ

24- INGRANAGGI MENTALI: LA SOCIETÀ

«Altro ostacolo alla coscienza di sé è la società» dissi. «Essa è l’insieme di soggetti, solitamente affini per abitudini, cultura, identità, che instaurano relazioni reciproche in maniera organizzata, condividendo scambi, linguaggi, funzioni sociali, regole comportamentali, attività economiche. Può svilupparsi in un dato territorio, oppure, se si tratta di popolazioni nomadi, può mutare di volta in volta. Appena costituita è un’entità viva e fibrillante. Presto però, perde l’effervescenza iniziale e il suo dinamismo si cristallizza in consuetudini e condotte che, nel tempo, attraverso la memoria, le leggende, i rituali, spesso in simbiosi con la religione, diventano un giogo: una costante soggezione che costringe l’individuo nel chiuso di convenzioni morali e di servitù economiche dice Armand.»

«Mi sembra inevitabile, se la società vuole conservarsi!»

«La marmellata si conserva. L’uomo deve evolversi!» rilevo. «Conservare significa salvaguardare, cioè difendere un ordine acquisito in opposizione al naturale divenire delle cose. Che nella società del dominio implica che il più forte padroneggi e spadroneggi all’infinito la massa passiva o beneficiando della sua assuefazione o reprimendola con la coercizione legale o plasmandola attraverso norme interiorizzate come necessarie: la morale sociale. Quest’ultime posso essere regole di buon senso mischiate alle tradizioni, solitamente con funzioni pratiche che sussistono a prescindere dall’egemonia imperante, ma prevalentemente si tratta di regole che richiamano principi, valori e ideologie il cui scopo è difendere l’assetto costituito». Scrollai la testa: «Faccio un esempio banale di come la morale sociale sia ineluttabilmente reazionaria: quando negli anni sessanta le donne cominciarono a indossare la minigonna, dovettero difendersi dall’accusa d’immoralità. Ovviamente in quell’indumento non c’era niente di pericoloso o perverso, ma gli uomini intuivano i rischi che avrebbe corso la società patriarcale se esse avessero rivendicato la libertà di poter scegliere».

«Figuratevi che l’altro giorno mia moglie ha chiesto se poteva prendere l’auto!» Manganello inframezzò.

«Sono gli inconvenienti del progresso!» lo canzonai. «La morale sociale quindi, come la religione e la legge, è uno strumento di controllo volto a conservare lo status quo che fa leva sulla remissività, sull’ignoranza e sull’oscurantismo. In sintesi sul conformismo omologante.»

«Ho capito». Pottutto mi interruppe. «Ma se uno nasce in una società e quella società ha determinate regole…?»

«Avrebbe senso rispettarle se le avesse scelte. Ma qui nessuno sceglie niente. L’individuo subisce le abitudini, le memorie, i cicli, la disciplina e il convenzionalismo del contesto in cui è nato, senza alternative e senza che gli sia consentita la possibilità di aderire, creare e godere di un ordine che gli si confaccia. La domanda allora è: chi ha interesse a mantenere queste regole morali?… Ve lo dico io. Anzi, l’ho già detto: la fonte è la solita della religione e dello Stato: ovverosia il Potere.»

«Lo sapevo. È sempre colpa sua!» obiettò Pottutto.

«È più forte di lui!» scherzai. «Pensate alla favoletta lockiana secondo cui le persone sentono il bisogno di associarsi per dare vita a un governo che difenda la proprietà1. A forza di ripetere che essa è un diritto assoluto, la sua preservazione è diventata un dovere morale. Eppure è sotto gli occhi di tutti che provoca sofferenza, odio, diseguaglianza, dividendo gli uomini fra ricchi e poveri e fra chi possiede di più e chi meno. Non vi pare?»

«Ha ragione!» gorgogliò Manganello. «Non è giusto che i miei figli vivano in cinquanta metri quadrati mentre qualcuno tiene una villa tutta per sé!» ammiccò verso Pottutto.

«E lei come fa a saperlo?» questi replicò stizzito.

«Non gliel’ho mai detto?». Il maresciallo esitò. «Un paio d’anni fa il dottor Persecuzio mi ha chiesto di pedinarla e…»

«Pedinarmi?»

«Pensava fosse omosessuale!»

«Omosessuale? Ma che…?»

«Non si preoccupi. Appena ho visto la sua signora, ho riferito subito che era una persona perbene!»

«Anche la morale sociale quindi è sempre ingiusta in quanto obbedire a una norma non condivisa annienta l’identità personale. E di fronte a un’identità violata, l’anarchico non può rimanere indifferente!» dissi.

«No? E che fa?»

«Si ribella ovviamente!»

«E che palle con questo ribellamento!» esclamò Pottutto.

Senza sottolineare l’errore lessicale: «Come che palle?»

«Mi perdoni, mi sono lasciato andare!». Il magistrato roteò il collo e sottovoce: «Comunque un po’ che palle lo è davvero!» confessò. «Sembra che per lei sia importante solo quello. Ma, dico io, non si stanca mai?» 

«Se mi stanco? Mi stanca l’ingiustizia. Mi stanca l’indifferenza. Mi stanca l’assuefazione. Mi stancano la devozione e la disciplina. Mi stancano l’apatia e la passività. Non mi stanca la reazione. Che sia critica o lotta. Dobbiamo dissolvere gli ingranaggi mentali affinché una volta snebbiato il cervello la ragione e il sentimento vivano la propria natura e gli individui siano in grado di evolvere e vibrare a loro agio, a ciascuno il compito di edificare la propria concezione della vita, di completarsi, di fabbricare la propria Città interiore. A ciascuno il compito di dirigere la propria vita, d’orientare la propria attività secondo le tendenze proprie, il proprio temperamento, il proprio carattere, le proprie aspirazioni2».

Il pubblico ministero fissò la pila di fogli come se temesse il momento della lettura.

«Lo trova scritto nel blog. Vuole sapere quale articolo?» lo provocai.

«Devo…?»

Ghignai malvagiamente per tenerlo sulle spine. Poi conclusi: «Ricapitolando, la società impone principi, valori, linee guida, modelli utili alla sua perpetuazione, cioè alla sua organizzazione funzionale al mantenimento dei privilegi. Ed esattamente come la religione, la legge, l’economia, la sua forza centripeta schiaccia l’individuo. L’alternativa è la coscienza di sé, cioè affrancarsi dall’oppressione per essere liberi di scegliere. E per scegliere liberamente occorre distruggere le catene che dalla tradizione autoritaria all’odierna omologazione annullano la personalità.»

«Ma l’uomo ha bisogno di chi gli dice cosa fare!»

«E che è un cane?» replico. «Capisco il bisogno di una stella polare. Ma che derivi dalla conoscenza empirica, cioè sia personale, non imposta!»

«Finito?» chiese Pottutto approfittando della mia pausa.

«Quasi» dissi. «Perché ciò avvenga risolutivamente occorre una cosa…»

«Che è?» chiese annoiato.

«Ma la lotta allo Stato, naturalmente!»

«Sentivo che non dovevo chiederglielo!».

 

NOTE

 

– 1 John Locke, Il secondo trattato del governo (The treatises of government), 1690.

– 2 Emile Durkheim, 1858-1917, considerato il padre della sociologia.

– 3 Emile Armand, L’iniziazione individualista anarchica, 1923.

– 4 Ferdinand Tönnies, Comunità e società, 1887.

In foto: Keith Haring, L’Universo, 2007

Editing a cura di Costanza Ghezzi

 

 

23- INGRANAGGI MENTALI: LA RELIGIONE

23- INGRANAGGI MENTALI: LA RELIGIONE

«Il primo ostacolo è la religione. Non mi riferisco soltanto alla venerazione di Dio, Allah o Odino, eccetera, ma a ogni dottrina che inebetisce la ragione e il sentimento proiettando il sé fuori dall’esperienza. La religione nasce da un bisogno di risposte alle domande su cosa accade dopo la morte e, di conseguenza, quale è il senso della vita. Alla prima ribatte con fantasie più o meno bizzarre in cui divinità mattacchione si prendono gioco di noi ma noi le amiamo lo stesso perché siamo masochisti. Alla seconda replica concependo regole di condotta la cui osservanza favorisce un miglior soggiorno eterno. Facile comprendere come la definizione delle medesime sia ambita dal Potere quale strumento di controllo sociale. Ovviamente non è il luogo per analizzare come le religioni ottenebrino la ragione e deformino l’emozione…»

«Bravo!». Pottutto e Manganello applaudirono.

«Ma non posso ignorare che anche la religione sia l’antitesi dell’autodeterminazione» decretai. «Il credente, infatti, non opera per se stesso o per gli altri, ma per ingraziarsi la benevolenza dell’entità venerata. Si comporta secondo la sua volontà e la invoca sia affinché interceda negli affari mondani, sia per assicurarsi un posticino temperato per l’eternità…»

«Dovrebbe far ridere?» chiese Pottutto irritato.

«In realtà dovrebbe far piangere!» lo provocai.

 «Il fedele è una persona fragile a cui non basta la vita per trovare risposte. Ha talmente bisogno di rassicurazioni che, potesse, tornerebbe nell’utero materno!»

«Questa invece mi fa impressione!» esclamò Pottutto.

 «All’opposto l’anarchico, diciamo il negatore in generale, trova nell’esperienza la propria ragione. C’è una bellissima frase di Severino de Giovanni a riguardo. Parla del ribelle e fa suppergiù così: vivere in monotonia – si riferisce all’esistenza ordinaria – non è vivere, è solo vegetare e trasportare in forma deambulante una massa di carne e ossa. Alla vita è necessario dare l’elevazione squisita, la ribellione del braccio e della mente1

«Che esagerazione!» gorgogliò Manganello.

«Non le piace?»

«Mi sembra una stupidaggine: il braccio e la mente che si ribellano… cos’è un malato di Parkinson?»

«Non intendeva in quel senso!». Pottutto lo corresse. «Prego, prosegua!» a me.

«Detto che è nella natura umana il bisogno di conforto, sapete perché esso deve essere realizzato da un’entità trascendente

«No!» disse il magistrato.

«Io non so neanche che vuol dire trascendente!» aggiunse il maresciallo.

«La risposta è semplice: pur non ammettendolo per orgoglio e perché è meglio tacere si sa mai portasse male, l’uomo disprezza talmente ciò che è e come vive che si deresponsabilizza delegando la propria sorte all’immaginazione. Chiude gli occhi e se qui è caos, di là è pace; se qui è odio, di là è amore; se qui è niente, di là è tutto. Ma perché il sogno si realizzi occorre che l’artefice sia onnipotente, onnisciente, indefettibile, intellegibile, intangibile… insomma, tutto ciò che l’uomo non è2! Non a caso, infatti, i paradigmi della religione sono sempre stati gli dei che guardano dall’alto, gli uomini che ne subiscono i capricci, il culto per mantenerli tranquilli e sereni. Le religioni monoteiste hanno prodotto un salto di qualità: anziché tante divinità, ce n’è una sola creatrice e imperante. Si è passati dal politeismo, che possiamo immaginare come una moderna famiglia allargata, paternalistica ma tollerante, al patriarcato in cui il padre burbero ordina e i figli obbediscono per evitare gli schiaffoni. Monoteista è il cristianesimo, ma anche l’ebraismo, l’islamismo e compagnia cantante.»

«E l’Induismo?»

«Più che una religione, direi che è un insieme di credenze.»

«Il Buddismo?»

«Forse più una filosofia!»

«E tifare il Napoli? Quella sì che è una religione!» si interpose Manganello.

 «Questo passaggio ha sancito anche il mutamento del rapporto col sacro: se una volta bastava un banalissimo sacrificio per amicarsi quella o quell’altra divinità, per alimentare la concordia ed evitare che gli dei riversassero i loro capricci sulla terra, con il dio unico e assoluto l’uomo ha subordinato la propria volontà alla sua rinunciando a ogni possibilità di determinarsi».

«Ma c’è il libero arbitrio!» obbiettò Pottutto.

«Che giustifica la responsabilità, quindi il senso di colpa e la conseguente sanzione divina!» chiarii. «Infatti Dio ci dice che si è liberi di fare una cosa anziché un’altra. Ma se facciamo l’altra ci punisce. Geniale! Così geniale che tutte le manifestazioni di potere che nei secoli si sono succedute hanno scimmiottato questo principio!» dissi. «La verità è che la religione è il più potente dei costrutti in quanto agisce sulla fragilità umana creando regole, dogmi, imposizioni a cui è impossibile sottrarsi. Si chiama morale. Ogni religione ha la sua. Inderogabile!»

«E cos’altro si aspetta da una religione?»

«Dalla religione niente. Dalle persone, invece, che si guardino intorno e cerchino la propria essenza. Poi sollevino gli occhi e godano dell’essere parte del tutto. Vivere armonicamente con ciò che ci circonda è l’unico scopo della vita. Si è liberi nella consapevolezza di ciò, si è eguali nella sua pratica. Pur essendo una banale verità, invece, l’uomo preferisce obbedire. Con l’effetto che c’è sempre qualcuno che si appropria dell’autorità e ne approfitta per il proprio tornaconto.»

«Dimentica però che credere è un atto di fede

«Non c’è dubbio. Poiché se la logica dimostra tutto e il suo contrario, non rimane che appellarsi all’emotività, la più democratica e distinguibile delle esperienze umane. Dio esiste per chi ha un cuore grande: chi lo ignora è una persona arida e malvagia! E così, zitta zitta, la religione ci rifila la più pervicace delle gerarchie: quella fra buoni e cattivi.»

«Non mi piace questo sarcasmo!» obiettò Pottutto.

«Perché, lei crede in Dio?» gli domandai.

«Certamente!»

«E lei?» chiesi a Manganello.

Il maresciallo aprì con disinvoltura il bottone della divisa e da sotto un quintale di pelo esibì una croce dorata avvolta da una schiera di ciondoli: «Questa è la Madonna di Lourdes, questo è San Bernardo da Aosta protettore degli alpinisti, questo è San Ignazio di Loyola protettore dei militari, poi c’è San Vincenzo Ferrer protettore dei muratori, San Pasquale protettore dei cuochi, San Erasmo che protegge dall’acidità di stomaco, San Dionigi per il mal di testa, oltre a…»

«E quello?»

«Questo? Questo è il cornetto che mi ha regalato la mia nonnina!»

«I suoi amici, invece?» mi sferzò Pottutto. «Sono con o contro Dio?»

«Con o contro… Mica siamo nell’arena a decidere le sorti di un gladiatore!» esclamai. «Posso dire che gli anarchici non la pensano tutti allo stesso modo. Il che può suonare strano, ma in realtà è conforme al nostro pluralismo. C’è chi crede e chi no. L’importante è che nessuno imponga all’altro la propria concezione del mondo. Godwin, ad esempio, il padre dell’anarchia moderna, ma anche Tolstoj e Berneri, criticavano l’ateismo anarchico. Il primo sosteneva che la ragione fonda la religione; lo scrittore russo, invece, che il regno di Dio fosse immanente; l’agnostico Berneri, infine, sottolineava come l’ateismo intransigente rischiasse di diventare un dispotismo totalitario. In senso contrario, la maggior parte degli anarchici è convinta che della religione se ne possa fare a meno in quanto alimenta le gerarchie divine e terrene, mantiene gli esseri umani nella soggezione e nella superstizione, quindi nell’ignoranza e nella subalternità, oltre a fomentare discordie, guerre, confini, muri di incomprensione e discriminazione3».

Poiché ormai mi guardavano con espressioni tipo Giuditta di Klimt4, conclusi: «L’Assoluto è sempre una violenza poiché è il più potente strumento di manipolazione che fa leva sulla debolezza umana mascherata da senso di colpa. Per questo gli anarchici collocano il loro paradiso e la loro felicità sulla terra e vogliono godere pienamente e sanamente della vita, cioè vivere l’esperienza quotidiana con tutta la passione, la forza, l’altruismo, il coraggio, la determinazione, l’amore possibile, come dice Emile Armand. E come dargli torto? Non vedo che senso abbia agognare l’immortalità quando è noto a tutti che le cose belle finiscono sempre!».

 

 

NOTE

– 1 Severino De Giovanni da articolo su Filosofia antiautoritaria del 2.8.22.

– 2 Così parlava Lidwig Feuerbach in L’Essenza del Cristianesimo del 1843.

– 3 Pippo Guerrieri, L’Anarchia spiegata a mia figlia, BSF Edizioni, 2018.

– 4 Gustav Klimt, Giuditta, olio su tela, 1901.

In foto Marc Chagall, Crocifissione Bianca, 1938

Editing a cura di Costanza Ghezzi

15 – Bene comune dello Stato vs bene comune dell’anarchia

N 15

«Ho detto che l’anarchia ha come fine il bene comune. Ma attenzione, anche lo Stato dichiara di voler realizzare il bene comune. E lo fa avvalendosi dei suoi mestieranti più agguerriti. Quando i vari politici, giornalisti, burocrati, scosciate, scrittori, artisti, prostituiti vari e tutti coloro che altrimenti dovrebbero lavorare evocano il bene pubblico come fine perseguito dallo Stato, mentono sapendo di mentire.»

«Ora non mi faccia la solita morale!»

«È un rischio che si corre sempre quando si disprezza!» replicai. «L’esempio è il legalismo imperante: fatua adorazione del sacro paganizzato! Peccato che lo Stato di divino abbia ben poco, visto che con la legge fa il proprio interesse, realizza il proprio profitto, legittima il proprio bene. E non mi riferisco solo allo Stato dei gentiluomini che lo governano, dei burocrati che ne consentono la conservazione o delle canaglie che se ne servono, ma a quello proprio dell’ordinamento stesso che si concretizza nell’assolutezza morale e materiale indispensabile alla perpetuazione di se stesso.»

«Molto qualunquista!»

«Il potere è reazionario per definizione. Lo dimostra il fatto che tanti di quei dei diritti civili che attribuiamo alla politica illuminata sono stati conquistati attraverso una massiccia contestazione extra-istituzionale sotto forma di sommosse, attacchi alla proprietà, dimostrazioni violente, espropri, incendi, sfide aperte, minaccia ai poteri costituiti1. Quando la politica legifera simulando un qualche interesse verso il popolo è solo per circoscrivere il malessere sociale che pregiudicherebbe la sua stabilità, oppure per riattizzare il capitalismo, che altrimenti stagnerebbe o regredirebbe. Sempre la stessa storia: captato il disagio, la politica lo argina aumentando o definendo nuove forme di controllo sociale!». Feci una pausa per ripartire con slancio: «Ditemi una cosa che lo Stato fa per i cittadini di sua iniziativa?».

Mentre il PM si lisciava la barba, «Le strade!» esclamò il maresciallo.

«Ma se l’altro giorno è venuto a prendermi perché un cratere mi aveva sfasciato la ruota dell’auto!» lo riprese Pottutto.

«Allora la sanità!»

«Lasci perdere!». Stavolta Pottutto si strappò un ciuffo dalla basetta: «Piscio saette da tre settimane e quei bastardi mi hanno fissato l’urologo fra nove mesi!»

«Ha provato con gli ortaggi? Sono pieni di vitamine… E se dico la scuola?». Di nuovo il maresciallo.

«Sulla scuola, potrei anche darle ragione» dissi. «Come luogo di addestramento all’obbedienza è assai efficiente!»

«Faccia poco lo spiritoso!» mi redarguì Pottutto.

«Esatto. Faccia poco lo spiritoso!» ripeté Manganello.

«Non mi avete ancora risposto!» sogghignai.

Ci pensarono.

«La giustizia!». Pottutto si accese.

«Se i magistrati fossero tutti come lei!» ironizzai.

Mi dette ragione.

«Ci sono: il Papa!». Di nuovo Manganello.

«Sta in un altro Stato!» lo corresse Pottutto.

«Come dottore, hanno spostato Roma?»

«Manganello, mi faccia una cortesia: si limiti a prendere appunti!».

E a me: «Adesso basta!» ruggì. «Se volevo rispondere alle domande a trabocchetto andavo al Quiz Show!»

«Ha ragione» dissi. «L’importante è che sia chiaro che il bene pubblico di cui tutti si riempiono la bocca fa solo l’interesse di chi sta lassù…». Puntai il dito verso l’alto.

«Persecuzio?» chiese il pubblico ministero allarmato.

«Che c’entra il procurato capo?»

«È nell’ufficio proprio sopra di noi!»

«Il bene comune di cui parla l’anarchia, invece, tiene conto delle personalità, degli interessi, delle aspirazioni reali di ogni individuo. Sorge dal basso e si sviluppa con la condivisione, l’unione delle singole aspirazioni per uno scopo condiviso: la comunità di egoisti, o più semplicemente comune, gruppo, clan, associazione, agglomerato, soviet addirittura. Qualunque struttura organizzata in maniera autonoma, antigerarchica e autogestita2, dove le persone si uniscono per condividere un obiettivo. Ed è con questa comunità partecipata che l’anarchia realizza la sua etica».

Potutto emise una smorfia poco convinta. «Qualcosa non quadra». Inforcò gli occhiali e lesse gli appunti: «Parla prima di individualità, poi di comunità. Ma se io sto bene per conto mio perché devo condividere con gli altri?»

«Ciascuno è libero di fare quello che vuole e nessuno può e deve ostacolarlo. Se a lei piace vivere un’esistenza ascetica è una sua scelta. Posso non condividerla perché credo che l’isolamento sia pur sempre una condizione transitoria, se non estintiva. Anche quando è una fuga necessaria, arriva il momento in cui l’individuo deve relazionarsi e allora la questione si porrà nuovamente e forse in maniera più esasperata perché avrà perso l’abitudine alla convivialità. Ciò detto, se lo spirito comunitario fosse imposto dall’alto sarebbe l’ennesimo dispotismo. Le faccio l’esempio del Kibbuz, quel modello di società cooperativa ebraica i cui membri si impegnavano a realizzare pratiche anarchiche come limitare l’autorità, abolire le gerarchie, favorire la partecipazione diretta. La regola era che i bambini venissero sottratti alle famiglie biologiche fin da piccoli affinché la comunità provvedesse alla loro educazione. In questo modo crescevano come essa voleva, acquisendone i principi e i valori. Principi e valori che, a prescindere dalla loro giustezza, erano pur sempre imposti dal gruppo sociale, pertanto non scelti. Pur partendo da premesse libertarie quindi, i suoi seguaci utilizzavano un metodo che non aveva niente a che vedere con la naturalità e la spontaneità. E senza naturalità e spontaneità, cioè senza una scelta libera, dove per libera intendo che porti a una personalità cosciente, non si realizza l’etica anarchica. Per questo l’anarchia non impone modelli. Al massimo spiega e consiglia affinché ciascuno scelga consapevolmente la propria via. Come diceva Ghandi: “la morale non sta nel seguire una strada già battuta, ma nel scegliere la propria e percorrerla senza paura”».

«Dopo Ghandi manca Einstein e poi li ha citati tutti!». Pottutto sghignazzò soddisfatto per la battuta. Poi cambiò intensità: «Le ricordo che ancora non mi ha dato un nome!»

«Non si agiti, abbiamo appena cominciato!».

 

NOTE:

 

1 – James Scott, Elogio dell’anarchismo, Elèuthera edizioni, 2014.

 

2 – Colin Ward, Anarchia un approccio essenziale, Elèuthera edizioni, 2014.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi– www.costanzaghezzi.com

Immagine: Giacomo Balla, Motocicletta, 1913.