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COS’E’ LA FELICITA’

COS’E’ LA FELICITA’

Il Potere si è fatto furbo: non ordina, seduce. Promette benessere in cambio del corpo, necessario per lavorare, e della mente, necessaria per consumare. Con una mano aliena in fabbrica, in ufficio, in strada o dovunque paghino tre soldi da dissipare in consumi imposti ed estorsioni legalizzate, nell’altra tiene la caramella dell’accettazione sociale con cui premia chi si illude di realizzare la propria felicità se genera quella del più forte. Intanto l’economia si frega le mani, la politica è sempre più lorda di pervertimento, la massa affonda nella melma compiacendosi del suo sapore.

La chiamano socializzazione, ma è l’espediente attraverso cui controllare l’individuo. E per chi disattende il dovere di dissolversi in essa, quei pochi recalcitranti isolati, disprezzati, emarginati dalle sue dinamiche comandate, i mastini sono sempre pronti. A qualcosa dovranno pur servire!

Aveva ragione La Fontaine quando diceva che “il nostro nemico è il nostro padrone”. Con il capitalismo tecno consumistico però, esso non ha più un volto umano ma corrisponde al ruolo che ciascuno assolve per assimilarsi al branco. L’annientamento del sé in cambio del riconoscimento sociale quale unica fonte di felicità.

Ma è proprio necessario essere infelici per avere la felicità?

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Tanto per cominciare, si dice “sono felice”, non “ho la felicità”. Sembra una sciocchezza, ma le parole sono importanti e queste affermano che essa è uno stato personale che attiene all’essere, non all’avere. Ẻ un sentimento, non un bene di consumo che si può smerciare. Avere non è essere felici, ma sembrare felici.

Trattasi poi di uno stato soggettivo, per cui è difficile trovare sia una definizione universale, che un’uniformità di cause scatenanti. Può essere determinata da condizioni personali come l’età: una cosa può generarla a venti anni e non a cinquanta; lo stato sociale: l’affamato gioisce davanti a un tozzo di pane che invece disgusta l’abbiente; la personalità: io sto bene quando scrivo, Mevio quando fa i calcoli matematici. Solo per fare qualche esempio. E, come se non bastasse, muta pure per il soggetto stesso che, senza motivo apparente, oggi può rallegrarsi di un evento, che forse domani lo rattristerà. Siamo tutti così volubili!

Il capitalismo ha provato a standardizzarla omologando personalità, bisogni e desideri: un lavoro profittevole, maggiori comodità, l’arrivismo sfrenato, possedere più beni, consumare fino all’esaurimento, eccetera. E poi ha colonizzato ogni luogo col suo modello di società uniformata, reazionaria e conservativa affinché l’individuo fosse manipolabile, prevedibile, volontariamente succube.

Ma trattasi di finzioni che provocano uno stato di sospensione momentanea. Uno “stare bene” determinato dal riflesso sociale, quindi eteronomo, non soggettivo. L’illusione distrae, non cancella il baratro. In questo modo, infatti, la volontà affoga in artifici consumati i quali deve crearne di nuovi in un circolo vizioso e senza fine. Non bisogna essere illuminati per capire che i beni, i traguardi, gli interessi, i desideri, gli egotismi, i profitti creano bagliori di appagamento temporanei e subordinati alla contingenza, pertanto effimeri.

Perché invece la felicità sia piena e vera occorre svincolare la volontà da qualunque determinazione indotta. Deve godere di ineludibile spontaneità. Spontaneità che per manifestarsi richiede un ambiente che non ne pregiudichi le potenzialità. Un luogo incontaminato dove l’individuo diventa padrone esclusivo della propria sovranità e finalmente si percepisca non come entità isolata che si barcamena per sopravvivere, bensì come elemento di uno spazio, di un tempo, di una materia mutevole, senza principio né fine. In esso non simula eternità, è eterno.

Spogliatosi della precarietà insita nell’essere e che la socialità amplifica, la sua volontà contempla senza condizionamenti, instaura connessioni sensoriali e intellettive, si immerge nella sostanza delle cose producendo identità empatiche. Ora è pianta, ora è animale, ora è roccia, ora è vento e così via in un’immedesimazione simbiotica fra molteplicità che diventa fusione nella comune partecipazione. Replicata l’esperienza all’infinito svanisce la relatività in luogo di una partecipazione esaltante, senza regole, né tempo, né confini, illimitata e indeterminata, in cui vivere, non sopravvivere, nella condivisione dell’unità in continuo, eterno divenire.

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Asserire che l’unica forma di felicità è quella data dalla relazione genuina con la natura che porta a fondersi nella sua immensità non significa scegliere una vita selvaggia o sollecitare lo sviluppo di chissà quali attitudini sciamaniche. Non si tratta di essere primitivi della foresta o Baba che rifuggono la materialità per cercare l’elevazione spirituale. Vuol dire invece ripristinare l’equilibrio naturale che le artificiosità hanno pervertito.

La volontà si realizza quando sfoga gli istinti, soddisfa i bisogni, afferma le proprie possibilità, impara a relazionarsi attraverso l’autodeterminazione. E perché ciò avvenga deve evolvere in totale spontaneità, senza doversi adattare ai condizionamenti né obbedire alle imposizioni. Solo se pura, completamente libera dalle necrofile subordinazioni mondane che ora la ammorbano, spesso ne alterano l’essenza, trova la propria identità. Per questo ha bisogno di svilupparsi laddove niente è contaminato, guarda caso il suo ambiente primigenio.

Quanto gli artefatti creati dal consorzio sociale sono effimeri e fuorvianti, tanto l’ordine naturale è spazio entro il quale la volontà prende forma in tutta la sua integrità. La purezza si conquista con la libertà, ma la libertà si esercita e si mantiene quando, eliminati gli artefatti, si relaziona spontaneamente con le diversità, creando connessioni armoniche che consentano la condivisione e la partecipazione all’evoluzione di cui è parte. La Natura non è una fuga, ma lo stato in cui scoprire e realizzare se stessi. Una perfezione che, se condivisa con affini, è piacere sublime.

Riconoscere il primato dell’autenticità rispetto all’obbedienza coartata o automatizzata implica innanzi tutto rifiutare ciò che deprava le coscienze trasfigurando il sé: dalla logica del profitto alle idee fisse, al progresso barbaro e schiavizzante causa di ogni perversione. Divenuti padroni di se stessi, occorre dedicarsi a un’esistenza diretta ed empatica con l’ecosistema affinché l’alterità sia identità. Nessuna sofisticazione. Nessuna superfluità. Nessuna gerarchia. Nessuna prepotenza e malversazione. Nessun costrutto artificiale o obbligo prescritto da forze preordinate. Nessuna trasgressione alla propria indole. Ma entità interagenti, cooperanti e adattative, spontaneità che si relazionano in maniera egualitaria per compiere l’obbiettivo condiviso di perfezionarsi attraverso la biosimbiosi.

Quando la volontà è pura e opera in un ambiente non condizionato da pulsioni predatorie e distruttive, quelle esaltate da qualsiasi logica del dominio, dominio che nella nostra epoca prende forma di progresso civilizzante e omologato, è padrona di se stessa e istintivamente cerca l’identità nelle molteplicità che animano il mondo. Impara a connettersi ad esse, crea quelle interrelazioni che la portano alla percezione prima, alla fusione poi nel divenire universale della vita. Ed è nell’estasi dell’indistinta unità delle cose, che il dare e ricevere amore infonde felicità.

 

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48 – COMUNITÀ, GLI ACCORDI – segue

«Sul federalismo non ho altro da aggiungere!» dissi.

«Sento i colleghi per sapere a che punto è l’agente Sevizia?» propose Manganello.

«Splendido!». Il PM si eccitò. E a me: «Sarà bello fare l’alba insieme!».

Il maresciallo recuperò il telefono di servizio: «Pronto collega? Buona sera a lei, agente Sventro. Può dirmi com’è messo Sevizia?… So anch’io che è alto, grosso e fa paura. Intendevo a che punto è col cinese?… Ottimo!». Si rivolse a noi col pollice sollevato. «Gli riferisca che lo attendiamo trepidanti!». Riattaccò. «Sta arrivando. Contento?», a me.

«Ho la ciccia di gallina!». Mostrai l’avambraccio. «Posso prima finire il discorso sulla comunità?»

«Ancora?»

«Se vuole parlo di scissione nucleare… Allora la scissione nucleare è quel processo di disintegrazione in cui nuclei di uranio o torio vengono bombardati con neuroni e…»

«Non faccia il simpatico e prosegua con l’anarchia!»

Lo assecondai: «Diceva Comte che una società può essere statica se mantiene l’ordine attraverso leggi di organizzazione, come nelle nostre democrazie dove col pretesto della sicurezza il Potere disciplina la massa, oppure dinamica, quando invece si fonda sul progresso1… Ma cos’è il progresso

«Lasci stare gli indovinelli!»

«È diventare animali seduti che contemplano lo schermo?2 Oppure lavorare da mattina a sera per comprare l’auto nuova? Magari la distruzione degli ecosistemi per una vita più confortevole? O, perché no, radere al suolo un continente dopo aver premuto un bottone…?»

«Ne ha ancora per molto?»

«Direi un paio… quella sofisticatissima invenzione medica praticabile solo a chi può permettersela? O forse la nuova scoperta eugenetica che migliorerà la razza?… Chissà!»

«A me piace quella del radere al suolo!» gorgheggiò Manganello.

«In senso generico con progresso si intende qualunque miglioramento della vita. Ma se per lei può essere tale un’invenzione tecnologica che garantisce confort più sofisticati o maggiori guadagni, io posso disapprovarla o declinarla perché mi turba, mi danneggia, la ritengo immorale o inutile».

«Non la seguo!»

«Le faccio un esempio. Supponiamo che domani le sue funzioni siano svolte dall’intelligenza artificiale. Io finirei in gattabuia senza un processo, lei dovrebbe trovarsi un altro lavoro». E con un risolino sarcastico: «Chi ci restituirebbe il piacere di questo momento?»

«E il divertimento deve ancora cominciare!» puntualizzò il maresciallo.

«È impossibile che accada!» tuonò il pubblico ministero.

«È impossibile finché qualcuno riterrà utile il fattore umano. Ma quando esso non sarà più una variabile accettabile, vuoi vedere che…?»

«Nessuno potrà mai sostituire le forze dell’ordine!» controbatté Manganello.

Dopo un attimo di esitazione: «Ha ragione» convenni. «Le barzellette sui robot non fanno ridere!». Proseguii: «Se invece al termine progresso diamo un significato relativo, esso comprende tutto ciò che favorisce lo sviluppo del benessere personale. Non fosse che, ogni volta in cui l’uomo agisce in termini egoistici, diventa uno sterminatore». Sospirai. «Entrambe le definizioni, quindi, sono errate perché sbagliato è l’antefatto, ovvero lo scopo che il progresso dovrebbe perseguire. Finché esso corrisponde all’utile, inevitabilmente si identifica nel profitto e prende la forma di beni, la cui conquista legittima condotte predatrici e causa sfruttamento e sofferenza». Li fissai risoluto: «Progresso è solo ciò che consente all’individuo di realizzare se stesso, cioè la propria essenza naturale. E poiché l’essenza naturale è quella di entità che si sviluppa in un’immensa armonia, una pulsazione3, la natura, corrisponde ai pensieri, alle intuizioni, alle azioni e così via attraverso i quali è possibile unirsi a essa partecipando alle continue trasformazioni dei suoi elementi. Ne consegue che progresso è dire no. Dire no alle imposizioni, alle sofisticazioni, alle futilità, alle depravazioni, alle regole prescritte e non, al dominio rapace in generale, per realizzarsi come persona che fa parte del tutto».

«Che in concreto vorrebbe dire?»

«Vuol dire che il profitto ha due significati: uno mercantile in cui la manipolazione delle menti allontana le persone da ciò che sono. L’altro è coscienza di sé e compimento della propria personalità, che si realizza spogliandosi dall’egotismo e vivendo la completa immersione nella processualità naturale, la cui infinita bellezza è fonte dell’unica, vera felicità».

«Non mi sembra una spiegazione molto concreta!»

«Prenda il lavoro. Tutti dobbiamo lavorare per vivere. Ma una cosa è produrre per soddisfare necessità fisiche e morali essenziali, indispensabili al conseguimento e al mantenimento di un’esistenza connessa, quindi armonica, con la natura, quindi con la propria essenza. Altra è sgobbare per adattarsi alle istanze collettive. O, peggio ancora, sottomettersi alle regole, ai ritmi, agli obiettivi pretesi da chi sfrutta per un proprio interesse. In questo caso, o soddisfa la trascendenza di chi non ha fede o è semplicemente schiavitù. Solo un’attività indipendente praticata in costante contatto con la natura e che garantisca il minimo necessario consente di conoscere se stessi e di realizzare la propria personalità…»

«Chi non lavora, però, non contribuisce alla sua cara comunità!». Pottutto mi interruppe.

«Dipende cosa intende per comunità!»

«Se non lo sa lei che sono cinque ore che ne parla!»

«Finora ho detto che la comunità, la piccola comunità, è l’unico modo per garantire autonomia, orizzontalità e solidarietà. Ma ciò è possibile quando il singolo contribuisce a definirla personalmente. Quando invece essa è quell’insieme di persone in cui l’individuo viene forzatamente assorbito costringendolo a obbedire a prescrizioni che non ha deliberato e che realizzano interessi che non gli appartengono, diventa una prigione da cui deve solo evadere».

«Se l’aggiusta sempre come gli pare!»

«La comunità è uno straordinario luogo di esaltazione della personalità se e solo se è volontariamente scelta, organizzata e partecipata. Cioè l’individuo contribuisce direttamente a ogni fase del suo sviluppo. E questo avviene attraverso accordi liberamente costituiti per la necessità di compiere le aspirazioni degli uomini civili senza l’ingerenza dell’autorità4, realizzando quella forma speciale dell’amicizia basata sulla comunione di idee… col vivere senza opprimere, senza calpestare le aspirazioni o i sentimenti di chicchessia, senza dominare o sfruttare, ma da esseri liberi che resistono con ogni loro forza alla tirannia dell’uno come all’assorbimento delle moltitudini5, in cui sostituire all’odio l’amore, alla concorrenza la solidarietà, alla ricerca esclusiva del proprio benessere la cooperazione fraterna per il benessere di tutti… allo scopo di fornire a tutti gli esseri umani i mezzi per raggiungere il massimo benessere possibile, li massimo possibile sviluppo morale e materiale6. In sintesi, la comunità volontaria, solidale, pluralista e orizzontale in cui le persone si accordano senza determinazioni esterne è l’unico luogo in cui si realizza l’eguale libertà».

Li fissai entusiasta per l’arringa.

Mi replicarono due sguardi atarassici.

«Anch’io credo molto nella volontà, sa?» il magistrato ruppe il silenzio.

«In che senso?»

«Credo sia arrivato il momento che trovi la volontà di fare qualche nome!»

«No!»

«Per favore!»

«No!»

«Porca puttana, Dopraho. Non voglio fare il pubblico ministero in questa cazzo di città per tutta la vita!»

«Ah no? E dove le piacerebbe andare?»

Ci pensò: «A Milano, magari!»

«C’è la nebbia!»

«Ma ci sono anche le televisioni!»

«Vuole un’ospitata da Fazio?»

«Da Fazio?». Rifletté. «Mi andrebbe bene anche da Del Debbio!»

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«Niente è più elettrizzante di uomini liberi che si uniscono per preservare la loro libertà» ripresi a parlare. «Disciplinano dal basso i rapporti e li mutano al variare delle esigenze. Possono cambiare i bisogni, può trasformarsi il contesto e chiunque può chiedere di aggiornarli. Sono sempre modificabili in quanto prodotto della sperimentazione quotidiana. L’uomo comune teme il caos e crea gabbie che legittimano poteri soverchianti. L’anarchico diviene continuamente perché non teme l’esperienza». Per recuperare la loro attenzione: «Sapete cosa diceva Jefferson?» chiesi.

«Chi, George Jefferson?» frinì Manganello. «Ẻ il protagonista della mia sit-com preferita!7» farfugliò allo sguardo minaccioso del pubblico ministero.

«Parlo di Thomas Jefferson, il terzo presidente degli Stati Uniti. Egli affermava che l’immutabilità delle Costituzioni ostacola lo sviluppo umano. Ecco perché, a suo dire, devono estinguersi naturalmente insieme a coloro che le hanno emanate8 per essere sostituite periodicamente da convenzioni più moderne. Allo stesso modo, per gli anarchici gli accordi ora ci sono ora non ci sono più. In qualunque momento possono essere revocati, sostituiti e rescissi. Uno può dire non ho più voglia! e abbandonare senza conseguenze e, soprattutto, senza motivazione… Vi sembra strano? Eppure, anche Bauman sottolineava che l’interesse personale può conciliarsi con quello della comunità se essa è altrettanto facile da smantellare di quanto sia stato costruirla; se essa è flessibile, sempre e soltanto a tempo e durare finché conviene; se il legame di fedeltà creatosi non deve mai ostacolare, né tantomeno precludere, ulteriori e diverse scelte9… Una stretta di mano e amici come prima. Così fanno le persone perbene!»

Ebbi la sensazione che Pottutto si trattenesse dal ridere: «Non mi pare di aver detto una cosa divertente!» dissi.

Gli si arrossarono le basette: «Pensavo alla faccia che farebbe Persecuzio se gli stringessi la mano e gli dicessi che me ne vado!»

«Non le converrebbe. Là fuori si fatica!» ironizzai. «Abbandonare la comunità non è una fuga ma una scelta. E in una società fondata sulla condivisione e che non conosce profitto, tutti si rallegrano quando qualcuno si offre a nuove relazioni, opportunità, necessità. Parafrasando Armand, la reciprocità che li ha uniti fino a quel momento, benché esaurita, non può lasciar spazio alla diffidenza e al rancore».

Pottutto fissò l’orologio che aveva appoggiato sul tavolo.

«Sevizia se l’è presa un po’ troppo comoda con questo cinese!» inframezzò Manganello.

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«Parla di armonia come se il mondo fosse un paradiso. Ma cosa accade se le persone non rispettano gli accordi? Siete uomini anche voi, no?» chiese il magistrato.

«Osservazione interessante!»

«Grazie!»

«Se avessi cominciato a parlare ora!» chiosai caustico. «Quando nella società del dominio le parti non rispettano un accordo, la causa è sempre un tornaconto personale. Ma se la comunità anarchica si fonda su una sintesi volontaristica in cui ciascuno compie l’interesse personale realizzando quello comune e viceversa, mi dice chi può danneggiare chi? Già che c’è, mi informa anche del perché? E visto che è sul pezzo, mi spiega pure come?»

«Ha capito cosa voglio dire!»

«Ne abbiamo già parlato!» controbattei esausto. «Quando do a lei ciò che mi ha chiesto e lei da a me ciò che le ho chiesto, non siamo entrambi contenti?»

«Per questo non c’è bisogno di essere anarchici!»

«Ma in una società in cui tutti ambiscono al profitto, l’accordo diventa strumento di competizione, non di armonia. Quando invece i membri hanno scelto di non accumulare e di vivere nell’interesse reciproco, nessuno prevale perché lo scambio soddisfa le parti paritariamente. E se, per ipotesi, qualcuno viola gli accordi, la comunità interviene per conciliare attraverso un confronto collettivo in cui il trasgressore riconosce il proprio errore, se ne assume la responsabilità, chiede perdono, risarcisce eventualmente il maltolto, i compagni accettano e si ripristina la pace sociale. Ecco perché la parola non è mai una sentenza, bensì una raccomandazione a cui l’interessato può scegliere se conformarsi o meno».

«Continuo a non vedere il senso!»

«Perché continua a guardare con occhi bendati!» rilevai. «È talmente intriso della mentalità del dominio che le risulta impossibile concepire le relazioni in termini di armonia e spontaneità. Dal suo punto di vista, come a ogni azione coincide un tornaconto, a ogni violazione corrisponde una sanzione che sollevi la collettività dalle proprie responsabilità. Per gli anarchici, invece, la tolleranza, al pari della solidarietà, del pluralismo e della volontarietà è un principio fondamentale per lo sviluppo del gruppo». Sospirai di nuovo. «La verità è che siete così terrorizzati dall’idea di decidere con la vostra testa, che non tollerate chi, invece, esalta la personalità» rilevai increspando il tono di voce. «Per voi lo Stato deve ingiungere e il suddito obbedire, Dio prescrivere e il fedele obbedire, il capo ordinare e il subordinato obbedire, il marito imporre e la moglie obbedire, il padre intimare e il figlio obbedire, il mercato forzare e il consumatore obbedire… anche rincoglionire, direi!»

«Ora basta!»

«Le dà fastidio, eh?»

«No, gli elenchi mi mettono ansia!». Pottutto batté la mano sul tavolo. Poi mi fissò algido: «Ormai sono ore che l’ascolto e sa cosa le dico?»

«Prego!»

S’impettì per darsi un tono: «Le dico che la realtà non cambia e non cambierà mai. Il suo mondo fatto di siamo tutti amici e fratelli, viva la pace, la libertà e l’eguaglianza, abbasso il potere cattivo e così via sono tutte stronzate!» sentenziò solenne.

«Dice?»

«L’ho appena detto!». E con un cenno affettato della mano mi sollecitò a proseguire.

Sollevai le spalle: «Io invece dico che ho finito!». Incrociai le braccia.

«Si è offeso perché ho detto la verità?» reagì algido Pottutto.

«Non per ripetermi, ma la superficialità non mi offende mai. Mi intristisce!».

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«Non può aver finito?». Pottutto si strappò gli ultimi ciuffetti rimasti sul mento. «Io decido quando ha finito!». Guardò Manganello in cerca di ausilio.

«Lui decide quando ha finito!» grugnì il fido compagno di ventura tamponandogli l’arterite col fazzoletto umidiccio.

«Spiace, ma ho proprio…»

«Via, non faccia il capriccioso!» disse il PM adesso più accondiscendente.

«Abbiamo ancora l’udienza preliminare, gli interrogatori in carcere, il processo… non mancherà l’occasione!» chiarii assertivo. «Per essere la prima volta che ci incontriamo, mi pare comunque d’aver parlato abbastanza!»

«Eh no!»

«Forse ha ragione!». Riflettei. «Dovrei approfondire come si sviluppa l’autogestione, come si articola l’organizzazione delle comuni, come si conciliano i diversi interessi, il lavoro e il rapporto con la natura…»

«E i nomi?»

«Per una volta sia piuma portata dal vento!» risposi fra il serio e il faceto. «Per il momento dovrà accontentarsi di sapere che esiste il luogo che non esiste10 in cui si può rendere possibile l’apparentemente impossibile11».

Avvampò come lava incandescente ma non replicò a causa dell’improvviso squillo del telefono.

E poiché nessuno sembrava voler rispondere: «Posso?» chiesi di farlo io.

Per un paio di trilli i miei interlocutori si fissarono indecisi. Poi il magistrato mi porse la cornetta. Ma il filo era troppo corto, così lo invitai a invertire i posti. Percorsi il lato del tavolo vicino alla signorina Servile, lui quello opposto come se temesse di infettarsi passandomi accanto. E quando sedetti sulla sua poltrona: «Pronto?» proferii imitandone il tono impostato.

«Pottutto?» gracidò la voce dall’altro lato del telefono.

«Buona sera dottor Persecuzio!» riconobbi il procuratore capo. «Ancora sveglio a quest’ora?… L’interrogatorio è andato alla grande! L’anarchico ha impiegato un po’ di tempo a sciogliersi ma dopo ha fatto così tanti nomi che pare l’elenco del telefono!». Tappai la cornetta perché non mi sentisse ridere. «Manca solo il giro con Sevizia, dopodiché lo spediamo al fresco… Certo, riferirò al maresciallo che questa volta non gli para il culo!… Come dice? Ne parlano i giornali? Pure la televisione? Splendido!». Con la mano di nuovo sulla cornetta: «Pure famosi vi ho fatto diventare!» rivolto ai miei aguzzini. «Mi vuole premiare?» chiesi sorpreso. «Troppo gentile! Ho fatto solo il mio dovere. Anche se quel posticino da sostituto procuratore a Milano di cui parlava… Ha attaccato!».

Riappesi la cornetta. Tolsi i piedi dalla scrivania e: «Milano l’aspetta!» informai Pottutto.

Dalla commozione quasi si mise a piangere.

«Di me ha detto nulla?» domandò Manganello.

«Che doveva dire?»

 «Mi piacerebbe diventare Ministro della Guerra!12» miagolò.

«Perché non capo dei vigiles romani?» ribatté Pottutto biasimevole.

Ma anziché replicare, il maresciallo schizzò in piedi e saltellò come una palla da basket verso il bagno.

«Mi sa che l’emozione gli ha giocato un brutto scherzo!». Il pubblico ministero lo giustificò. «È davvero un bambinone!»

Per un po’ giocammo a nascondino con gli sguardi. Poi ruppi l’imbarazzo: «È stato un piacere essere interrogato da lei!»

«Ne sono convinto, visti i risultati!» replicò amaro. «Se non vuole fare i nomi, mi dica dov’è che… Mi consenta almeno un sequestro!» insistette. «Le regalo il poster di Rocky da appendere in cella!»

«Ce l’ho!»

«Le metto la parabola!»

«Non guardo la televisione!»

«Le farò avere doppia razione di bistecca tutti i giorni!»

«Sono mica anemico!»

«Potrà entrare nel coro dei Sodomiti!»

«Non ho il coraggio di chiederle cosa sia!»

«E se prometto di farle incontrare i familiari una volta al mese?»

«Troppo buono!»

«Accordo fatto?».

Non gli strinsi la mano perché bussarono alla porta.

«Dev’essere Sevizia!» esclamò entusiasta. «Manganello, è arrivato Sevizia!» starnazzò verso il bagno.

Appena dopo lo strozzato: «Due minuti!» del maresciallo, la porta si aprì prepotentemente facendo volare la Sfinge che stava davanti. Non si frantumò in mille pezzi solo perché la signorina Servile fece da materasso.

Testa glabra, squadrata, due fessure al posto degli occhi, naso veemente sopra labbra turgide, zigomi come pietre di Stonehenge, mascella che sembrava una trebbiatrice, corpo taurino compresso in una tutina di nailon color giallo impreziosita da schizzi ancora freschi di sangue cinese. In una mano impugnava un trapano, nell’altra delle tenaglie. Avanzò facendo tremare il pavimento.

Pottutto accolse Sevizia con un sorriso spavaldo e uno: «Splendido!», d’ammirazione. Questi rispose guardandosi intorno con l’espressione di chi soffre di antropofobia e si trova in una stanza troppo affollata.

Le leggende sul suo conto non gli rendevano merito: era così spaventoso che una folata gelida di terrore mi fece tremare. Istintivamente mi coprii con la giacca che il pubblico ministero aveva lasciato sullo schienale della poltrona. Non so perché ma manipolai la pallina di pongo. Addirittura, calzai i suoi occhiali. In un impeto di esaltazione finsi perfino di prendere appunti. E quando Sevizia oscillò ancora lo sguardo dal PM a me, ebbi un’illuminazione: assentii un deciso. «Fammi vedere di cosa sei capace!», con un solerte movimento delle sopracciglia.

Tutto avvenne molto velocemente.

Il mostro fissò il magistrato, che strisciò la sedia all’indietro.

Emise alcuni fonemi d’oltretomba, a cui il PM balbettò un titubante: «Come è andato con il cinese?»

Gli si avvicinò prepotentemente inducendolo a uno strozzato: «Maresciallo, le spiace venire?».

E quando ruggì come il leopardo di Ligabue13, nel silenzio si udì prima la voce remota di Manganello che diceva: «Ho quasi finito!», poi lo sfrigolio dello sguardo elettrico di Sevizia che cercava conferma nel mio e immobilizzava quello di Pottutto, accortosi troppo tardi di essere nel posto sbagliato, la sedia di metallo in cui stanno gli interrogati, al momento sbagliato, quando il finto pubblico ministero, cioè il sottoscritto, aveva convinto l’aguzzino a non distrarsi dalla trans agonistica.

Distolsi l’attenzione da quella scena raccapricciante.

La violenza non era mai stata il mio forte. Ma la perspicacia sì. Appena il bruto lo rovesciò a terra infilandogli il trapano in bocca, in punta dei piedi mi avvicinai alla porta. Me ne andai senza salutare per non rovinare il momento.

 

 

NOTE

– 1 Auguste Comte, Sistema di politica positiva, 1851.

– 2 Cristopher Lash, Contro la cultura di massa, 2007. Nel testo la sua frase è al singolare.

– 3 Aldo Leopold, Pensare come una montagna, Piano B edizioni, 1949.

– 4 P. Kropotkin, Voce Anarchismo in Encyclopaedia Britannica, 1905.

– 5 Emile Armand, Vivere l’anarchia, ivi.

– 6 E. Malatesta, L’anarchia. Il nostro programma, 2013.

– 7 I Jefferson, sitcom televisiva proiettata negli anni ’80.

– 8 Thomas Jefferson enuncia il suo principio in una lettera del 1776 a James Madison.

– 9 Z. Bauman, Voglia di comunità, 2001.

– 10 Tomaso Moro, Utopia. De optimo reipubblicae statu, 1516

– 11 Amedeo Bertolo, Anarchici e orgogliosi di esserlo, ivi.

– 12 Il Ministero della Guerra venne istituito da Cavour nel 1861. Dal 1947 è stato sostituito dal Ministero della Difesa.

– 13 Antonio Ligabue, 1899-1965, Il leopardo assalito da un serpente, 1955.

 

Immagine: John Martin, Pandemonium, 1841

Editing a cura di Costanza Ghezzi

46 – COMUNITÀ: PARTECIPAZIONE DIRETTA

46 – COMUNITÀ: PARTECIPAZIONE DIRETTA – segue

 

«Presupposto fondamentale dell’autogestione è la partecipazione diretta: condivisione delle decisioni ed equa contribuzione alle attività comuni.»

«Il bene comune!» assentì Pottutto.

«Il bene che i membri del gruppo approvano e vogliono conseguire» assentii a mia volta. «E visto che non è lucrativo, le relazioni non sono gerarchiche, come invece avviene nella società del dominio. Nessuno prevale sull’altro e tutti collaborano per attuare i reciproci interessi, aspirazioni, potenzialità.»

«Ma che potenzialità possono avere se non c’è un guadagno?» mi interrogò il PM.

«Perché una persona si realizza solo se lavora per spendere denaro?»

«Quello fanno gli uomini!»

«Perché quello è stato insegnato. Perché quello hanno imparato a fare. Perché l’educazione, la morale, la legge, l’opinione pubblica sono paraocchi che oscurano la personalità.»

«Ma se il cavallo si spaventa io cado a terra!» brontolò Manganello.

«Ma noi non siamo il cavaliere, siamo il cavallo!» replicai. «Non credo che la morte dia molte altre possibilità . Per questo abbiamo il dovere di rendere la nostra esistenza un’opera d’arte. Ciò è plausibile soltanto se riusciamo ad emergere dall’abisso annichilente della materialità e ci immergiamo nella bellezza estatica dell’unità indifferenziata di cui facciamo parte. E, come diceva Benedetto Croce, l’arte non ha niente a che vedere con l’utile».

Pottutto osservava la pallina di pongo passare da una mano all’altra.

Manganello si scorticava un brufolo vicino alla narice.

Ripresi a parlare: «Affinché la logica del dominio non prevalga sulle buone intenzioni, occorre che le volontà si accordino. Lo stesso Proudhon asseriva che i reciproci interessi possono conciliarsi attraverso un sistema di contratti stipulati fra cittadini con i quali organizzare la società dal basso piuttosto che dall’alto21.  Accordi in cui sia garantito che non vi è Stato, da una parte o dall’altra, né ingannatore né ingannato né frodatore né frodato: in altre parole che ciascuno, durante il contratto, ha agito secondo il proprio determinismo e si è mostrato nella sua veste. Solo così possono svilupparsi rapporti di reciprocità fondati sulla solidarietà volontaria, socialità volontaria, reciprocità volontaria, garanzia volontaria22. L’eguale libertà è la base della convivenza anarchica e trova la sua massima espressione nella partecipazione diretta consensuale.»

«Quel tutti decidono tutto che diceva prima?»

«Quello!» ribadii. «La partecipazione diretta è un metodo che consente di arricchire l’individuo di quella razionalità, di quel senso di mutualità e giustizia, di quella vera libertà che assicura un cittadino capace e creativo. Consiste nella possibilità di ogni membro della comunità di decidere personalmente. Decide personalmente al momento della costituzione e dell’ingresso nel gruppo, decide personalmente gli obiettivi e i mezzi, decide personalmente le regole. Chiunque è attore di se stesso e protagonista della vita comune. Perché si è liberi quando si può scegliere il proprio destino, di cui si è responsabili per le scelte fatte. La determinazione condivisa, creando interdipendenza all’interno di una comunità solidale, è pertanto etica civica, come la chiamava Bookchin23, in cui la propria personalità si realizza attraverso la responsabilità verso la comunità».

Al mio perentorio: «Ma non basta!», Pottutto sobbalzò: «Potrebbe evitare questo tono, che mi mette ansia?»

Mi scusai.

«Ma ciò non è sufficiente» dissi più moderatamente. «Perché la partecipazione sia completa occorre che la deliberazione non sia maggioritaria. Ne ho già parlato: la maggioranza è sempre supremazia di qualcuno su qualcun altro, che deve adattarsi pena la sanzione o l’isolamento. La socialità, invece, si esalta quando non è competizione, ma armonia. Non è una gara in cui vince il più forte, ma condivisione di un progetto. Per questo la pronuncia deve essere unanime.»

«Si devono mettere tutti d’accordo?»

«Senza il consenso unitario non si decide» dissi. «Ciò può richiedere più tempo, discussioni più approfondite, anche confronti serrati, ma la sintesi deve essere condivisa e tutti devono sentirsi vincitori.»

«Non c’è bisogno le dica che è impossibile!»

«Anche l’anarchia sembra impossibile eppure, se la temete, significa che è già una possibilità. Sperimentare è nella nostra natura, sbagliare in quella umana. Una volta che si è consapevoli di questo, ogni fallimento è un successo.»

«Ma che sta dicendo?» miagolò il maresciallo al pubblico ministero.

«Fa il filosofo!», questi sussurrò.

«Non lo capisco!»

«Quello fanno i filosofi!»

«Se poi si avvera ciò che dicono, tutti a citarli però!», li sferzai. «E se non si raggiunge l’unanimità, la questione viene abbandonata o rivalutata in un secondo momento, senza fretta. Detto ciò, essa non è una regola assoluta. Ogni comunità è libera di gestirsi come vuole.»

«Ha già fatto marcia indietro!» sghignazzò Manganello.

«Se i filosofi fossero coraggiosi non parlerebbero!»

«Vi ho sentito!» dissi.

Mi alzai.

«Dove va?»

«Ad agire!». Mi avviai verso la porta: «Mi scusi agente, devo passare!» parlai alla Sfinge, che Sfinge era e Sfinge rimase.

«Si rimetta a sedere!»

«Ma è vivo questo?» domandai.

«Torni a sedere, le ho detto!» tuonò il PM.

Obbedii solo perché mi premeva concludere il concetto.

Un po’ anche perché Manganello stava chiamando Sevizia.

Ma non lo diedi a vedere.

«Può capitare che alcune comunità anarchiche decidano a maggioranza o con un sistema misto: magari ricorrendovi se non raggiungono l’unanimità dopo un certo numero di votazioni. Questo si chiama pluralismo. Presupposto indispensabile è però che sia espressamente accettato da tutti e che all’oppositore sia concesso di non rispettare la deliberazione purché non crei situazioni di privilegio o sfruttamento.»

«Tipo un anarchico dell’anarchia?»

«Ovvio che l’inosservanza deve limitarsi alla singola decisione, altrimenti sarebbe più sensato cambiasse comunità» specificai. «In ogni caso, far prevalere la volontà di qualcuno su qualcun altro in un consesso antiautoritario di sviluppo armonico del bene comune mi sembra una contraddizione. L’esperienza delle comuni, delle colonie, degli eco-villaggi, delle taz, di tutti i modelli di organizzazione non gerarchica ha infatti dimostrato che quando l’interesse personale coincide con quello del gruppo, la convergenza si realizza spontaneamente».

Dopo un ghigno riluttante: «Riflettevo su una cosa…» biascicò Pottutto grattandosi il mento.

«Già, riflettiamo!». Manganello si svegliò. E al PM: «Su cosa riflettiamo?»

«Mi parla di unanimità… Ma l’unanimità non è sinonimo di quell’omologazione che lei tanto disprezza?» concluse con un’espressione identica a quella ritratta nella Autosmorfia di Giacomo Balla24.

«Anche qui mi ripeto» dissi avvilito. «L’omologazione si ha quando la minoranza è obbligata a adattarsi alla volontà della maggioranza. Se invece gli individui discutono una questione e poi la approvano consensualmente, non si uniformano, scelgono» risposi. Subito aggiunsi: «La comunità non potrà mai essere reazionaria perché opera confrontandosi continuamente con le altre sia direttamente, sia attraverso la Confederazione, la cui funzione è proprio quella di fornire stimoli che tengano conto delle mutevoli esigenze sociali, condizioni economiche, pratiche quotidiane. Non è mai isolata, mai regressiva o conservatrice o oscurantista.»

«Sembra tutto così facile!» gorgogliò Manganello.

«Lo è!»

«Non credo!»

«Neanch’io. Per realizzare la propria personalità, bisogna possederne una!».

 

NOTE

 

– 21 P.J. Proudhon, Confessioni di un rivoluzionario, 1867.

– 22 E. Armand, L’iniziazione, ivi.

– 23 Murray Bookchin, Per una società ecologica, Eleuthera, 1976.

– 24 Giacomo Balla, Autosmorfia, olio su tela, 1900.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: H. Matisse, La conversazione, 1912

 

38 – RIBELLIONE: IL CAMBIAMENTO NON È RIVOLUZIONE (segue)

 

«Secondo voi» mi rivolsi ai miei interlocutori. «Meglio un’azione violenta o pacifica

«Violenta!» rispose Manganello. «Almeno ci divertiamo anche noi!»

«Invece è meglio pacifica.»

«Ma come?» esclamò deluso.

«Il cambiamento non si ottiene con qualche traliccio abbattuto o una vetrina imbrattata, né con le manifestazioni di piazza in cui lo scontro con la polizia alimenta la suggestione del faccia a faccia col Potere rafforzando lo stato-centrismo con i continui richiami alla Costituzione, ai diritti e alla cittadinanza. Perché la rivolta sia efficace deve creare un non-governo

«Ma deve essere anche violenta. Sennò che ci stiamo a fare?» insistette il maresciallo.

«Appunto. La violenza genera violenza e il Potere possiede risorse economiche, militari, tecnologiche, propagandistiche sia interne che esterne che nessuna rivoluzione può contrastare. E poi, ve l’ho detto, una volta conseguito con la violenza… Immaginate che noi tre domani occupiamo il Parlamento» improvvisai.

«Mi spiace, domani ho il dentista!» glissò Pottutto.

«Cosa accadrebbe? Pensate che la società si solleverebbe in massa per sostenerci? Credo proprio di no. Perché i media ci dipingerebbero come carnefici. L’uomo medio temerebbe di perdere quel poco che si illude di avere. I poveri si azzufferebbero con altri poveri per il primato della povertà. Alla fine la gente penserebbe che si stava meglio quando si stava peggio e… Se invece la rivoluzione riuscisse nel suo intento, il popolo sarebbe pronto a costituire una nuova società fondata sui principi libertari?»

«Lo chiede a noi?»

«No, a lui!» indicai la Sfinge davanti alla porta. «La risposta è no. L’estasi sovversiva lascerebbe il posto allo spaesamento, alla frustrazione, all’incapacità di realizzare obiettivi concreti. Come dice Goodman: l’energia ricca di passione delle persone oppresse ha tuttavia, come risultato, il fatto che, se rompono le loro catene, poi non sanno più cosa fare. Non essendo state autonome, non sanno cosa sia esserlo, e prima che lo imparino, hanno nuovi amministratori che non hanno alcuna fretta di mettersi da parte1. Come ho detto prima, è inutile realizzare il gran giorno se poi subentrano nuove forme di autorità.»

«Vigileremo perché non accada!» proferì entusiasta Manganello.

«Maresciallo, non si identifichi», Pottutto lo riprese. «Non sta parlando di un colpo di stato militare!»

«Le rivoluzioni violente sono inevitabilmente destinate al fallimento. Il Potere non può rinunciare alla pretesa di far valere come sacri i suoi ordinamenti e le sue leggi per i quali l’individuo è qualcosa di non sacro2. Per questo, prese le contromisure, compatta la fragile massa con il bisogno d’ordine e sfrutta l’emergenza come pretesto per nuove disposizioni liberticide. Inoltre il cambiamento ottenuto con la violenza possiede i semi dell’autoritarismo: Se la violenza può trovare giustificazione quando è l’unico mezzo per resistere o reagire alla ben maggiore violenza del potere e dello sfruttamento, essa però contiene i germi di un nuovo dominio ed è dunque essenziale ricorrervi solo se strettamente necessario3, diceva Tolstoj. Quante rivoluzioni si sono trasformate in macchine repressive e sanguinarie?»

«Vorrebbe convincerci che l’anarchia è pacifica?»

«L’anarchia è non violenta per definizione. La violenza è sempre prevalenza fisica o psicologica e noi anarchici neghiamo categoricamente che qualcuno prevalga sull’altro. Dice Malatesta: anarchia vuol dire non violenza, non dominio dell’uomo sull’uomo, non imposizione per forza della volontà di uno o di più su quella degli altri. È solo mediante l’armonizzazione degli interessi, mediante la cooperazione volontaria, con l’amore, il rispetto, la reciproca tolleranza, è solo colla persuasione, l’esempio, il contagio e il vantaggio mutuo della benevolenza che può e deve trionfare l’anarchia, cioè una società di fratelli liberamente solidali, che assicuri a tutti la massima libertà, il massimo sviluppo, il massimo benessere possibili

«Non mi cada nel melenso!»

«L’uso della violenza ha senso solo in due casi: il primo come reazione a un atto ingiusto: per conservare dignità di uomo e non essere ridotto alla più abbietta schiavitù, dice ancora il filosofo, malgrado tutto il suo amore per la pace e il buon accordo, sarà ben obbligato a resistere alla forza con mezzi adeguati4. Il secondo quando l’obiettivo è un bene, mai una persona, che rappresenta il dominio. Ad esempio hackerare dei sistemi di protezione, abbattere le infrastrutture, occupare o distruggere laboratori in cui si producono sieri non sperimentati. Tutte azioni di sicuro impatto, ma eliminano il mezzo, non la causa. Se non cambia il contesto, l’effetto finisce lì.»

«Mi perdoni, ma senza la rivoluzione che anarchici siete?»

«L’ordine costituito non si cancella utilizzando i suoi metodi e modificando i suoi propositi. In questo modo si passerebbe da un dominio all’altro. L’Anarchia sviluppa realtà che non hanno niente a che vedere col sistema da cui fugge. Ẻ antagonista e alternativa, non collaborativa. La storia è piena di movimenti che volevano sovvertire l’autorità sfruttando le sue strutture. A stringere troppe mani, però, prima o poi s’insozzano: il potere corrompe sempre! Vi invito a leggere le illuminanti parole di Bookchin nell’articolo del 1.1.24».

Attesi che il pubblico ministero lo trovasse.

«All’inizio della pagina… proprio lì!». Indicai il punto preciso. «Parla dell’ambientalismo politico della sinistra, ma il concetto è universale: ritengono che le cose possano essere cambiate solo attraverso l’esercizio del potere, vale a dire attraverso quel corpo professionale e corrotto di legislatori, burocrati e militari che chiamiamo Stato. Fare appello a questo potere inevitabilmente funge da legittimazione per lo Stato, e lo rafforza, mentre parallelamente espropria i popoli del loro potere. Salto qualche riga: Ogni aumento del potere statale avviene a spese del potere popolare perché legittimare il potere statale significa delegittimare il potere popolare, e viceversa. Vado ancora avanti: I movimenti ecologisti che si volgono al parlamentarismo non solo legittimano lo Stato a spese del popolo, ma sono anche obbligati a funzionare all’interno della logica statuale e finiscono per diventare sangue del suo stesso sangue. Devono cioè stare al gioco. Il che mette in moto anche un inarrestabile processo degenerativo che porta alla progressiva rinuncia degli ideali. Per cui: agire nell’ambito dello Stato significa scegliere fra mali minori o maggiori e non agire eticamente in funzione di ciò che è giusto o ingiusto5».

Appoggiai il foglio sul tavolo.

«Pensate alla controcultura e ai movimenti sessantottini, che inizialmente si forgiavano di illuminanti tematiche di ispirazione anarchica. Quando poi vennero raccolte dal sindacalismo e trasformate nei consigli di fabbrica e nello Statuto dei Lavoratori, la ribellione si trasformò in un palese tentativo di imbalsamare ciò che le lotte avevano conquistato6. L’anarchia non dialoga col sistema. Non deve!».

Mi fermai perché Manganello faceva delle strane smorfie con la bocca. Gli chiesi cosa avesse, mi invitò ad attendere con un eloquente gesto della mano.

Starnutì facendo volare i fogli sul tavolo.

«Ora li raccoglie!» ruggì Pottutto infastidito.

Il maresciallo ci provò, ma il pancione gli impediva di piegarsi. Lo feci io e non mi ringraziò neanche.

NOTE

 

– 1 Paul Goodman, Anarchia come autonomia, ivi.

– 2 Stirner, L’unico e la sua proprietà, ivi.

– 3 Tolstoj, Il rifiuto di obbedire, ivi.

– 4 Errico Malatesta citato in Giuseppe Aiello, Taoismo e anarchia, 2017.

– 5 Murray Bookchin, Per una società ecologica, ivi.

– 6 Umanità Nova, Statuto dei lavoratori, 24.1.76.

 

Immagine: Domenico Gnoli, Apple, 1968

Editing a cura di Costanza Ghezzi

32- LA PENA

 

«Ricapitolando: lo Stato esercita il suo potere con la legge, e la polizia mantiene l’ordine. Dopo l’arresto però si pone il problema di cosa fare…»

«C’è la pena!»

«Appunto. Questo è il problema!». Spiegai: «La pena, e con essa non intendo solo la sanzione ma anche la misura cautelare che spesso ingiustamente e arbitrariamente la anticipa, e più in generale tutto il sistema giudiziario, non è altro che uno strumento di controllo e riequilibrio sociale attraverso il quale il Potere toglie di mezzo chiunque possa minarne la conservazione». Aggiunsi: «La pena è schiavitù legalizzata, fondata sulla inaccettabile laicizzazione del rapporto peccatore-sanzione. Processi ed esecuzione rappresentano il momento in cui si realizza nella maniera più sfacciata e arrogante la supremazia sull’uomo, defraudandolo del corpo e della mente. L’anarchia afferma invece che nessuno debba essere investito del potere di vita o di morte, poiché chiunque abbia un’autorità nelle proprie mani tiranneggia gli altri1. E, peraltro, siccome quell’investitura viene imposta, processi, pene, e sentenze sono sempre ingiusti».

«Ma le sentenze vanno sempre rispettate!» irruppe il PM.

«Sempre!» lo sostenne Manganello.

«E le verdure d’una volta avevano tutto un altro sapore!» replicai con un’altra frase fatta. «Come nessuno ha delegato i politici a decidere per noi, nessuno ha autorizzato i magistrati a giudicare. Entrambi sono strumenti di quella finzione chiamata Stato. Immorale non è violare la legge e fuggire la pena, ma accettare passivamente che lo Stato denigri, mortifichi, annienti l’individuo. Collaborare col male è peggio del male stesso! Afferma F.A Lange: il nome Leviatano è anche troppo appropriato per questo mostro, lo Stato, che senza nessuna superiore considerazione ordina come un dio terrestre a suo piacere la legge e la giustizia, i diritti e la proprietà, definisce perfino a suo arbitrio i concetti di bene e di male, assicurando in cambio la protezione della vita e della proprietà di chi gli si prostra dinnanzi e sacrifica al suo potere2…»

«Ma sì, facciamoci giustizia da soli!» si burlò il pubblico ministero.

«Non ho detto questo!»

«Ma l’ha pensato!»

«Neanche un po’!» dissi con una smorfia di disapprovazione. «L’autonomia è responsabilità. Gli individui devono partecipare direttamente alla costituzione e allo sviluppo della comunità, ovvero definire in maniera condivisa su quali principi essa si forgia, su quali dinamiche economiche si sviluppa, come organizzare l’autogestione, compresa l’individuazione delle condotte antisociali e i conseguenti rimedi. E la decisione non può che avvenire attraverso liberi accordi definiti collegialmente mediante decisioni consensuali» dissi. «Sugli accordi tornerò dopo. Quanto invece alla pena, condivido le parole di Alexandr Berkman quando confrontava le società primitive, in cui è opinione comune che l’individuo si facesse giustizia da solo, con quelle così dette civili, in cui si delega lo Stato a farlo al suo posto. Tale delega crea di fatto solo un’altra forma di vendetta, in cui lo Stato è il solo vendicatore legittimo della collettività. Ma si tratta sempre e chiaramente dello stesso spirito barbaro sotto altre spoglie3. Di fatto lo Stato è un vendicatore che trova giustificazione nella weberiana legittimazione legale-razionale fornita dall’ordinamento giuridico. Che è un po’ quello che prima ha detto lei», mi rivolsi al PM, «quando ha affermato che si deve obbedire alla legge perché lo dice la legge. In altre parole, lo Stato ci prende per imbecilli!»

«Ineccepibile!» tuonò Manganello.

«Che prima l’abbia detto il pubblico ministero?» chiesi.

«No, che siate imbecilli!»

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«Il sistema punitivo fa acqua da tutte le parti. Lasciando perdere le ovvie considerazioni sulle infami condizioni di vita a cui sono sottoposti i detenuti, che solo chi è in malafede o particolarmente crudele può ignorare, la pena non realizza nessuna delle funzioni per le quali viene applicata. A partire dalla funzione retributiva, chirale al principio della vendetta. Affermando che il libero arbitrio consente di scegliere fra il bene e il male, chi sceglie il male deve essere punito. Niente di nuovo: le religioni parlano così da sempre…»

«Chi sbaglia paga!» disse tronfio Pottutto.

«Paga chi? Se le rubo il portafoglio, la questione è fra me e lei. Se uccido una persona, la questione è fra me e i suoi parenti. Ogni vicenda umana ha implicazioni circoscritte agli interessi coinvolti.»

«Non sia grottesco. Sa che lo Stato è garanzia di imparzialità!»

«Tutt’altro. L’interesse della collettività è sempre e soltanto l’armonia sociale, che si ottiene unicamente attraverso la riconciliazione. Lo Stato, invece, essendo una suggestione che ha bisogno di consenso per alimentarsi segue l’umore sociale plagiato dal sistema e le proprie necessità conservative. C’è molta più civiltà nelle assemblee pubbliche inter-clan adottate dalle società policefale che nei nostri tribunali!5».

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«Altra funzione della pena è la così detta prevenzione. Si dice che l’obiettivo sia evitare che il reo compia nuovi reati, prevenzione speciale, ma anche che agli altri non venga lo sghiribizzo di imitarlo, prevenzione generale. In altri termini, si minaccia una sanzione quale conseguenza di una determinata condotta affinché nessuno la compia. Interessante questa analogia fra l’animale e l’individuo, non vi pare? E comunque se il principio fosse corretto, dato che viviamo in un epoca di iperproduzione normativa che disciplina ogni aspetto della vita umana, non ci dovrebbero essere reati. Invece la criminalità delle società civili aumenta esponenzialmente in quanto la deterrenza inibisce il vigliacco, non l’affamato, né tantomeno il disturbato. La funzione preventiva è quindi fumo sparato negli occhi. I delitti, compresi quelli per bisogno e patologici, si prevengono eliminando il dominio, la proprietà, il profitto, l’accumulazione, garantendo il minimo necessario concordato e soprattutto consentendo a ognuno di decidere responsabilmente. In una società i cui membri hanno scelto di essere liberi ed eguali non c’è interesse a delinquere

«Nel mondo dei sogni potrei anche essere Brad Pitt!» disse Manganello.

Pottutto e io lo guardammo e contemporaneamente ci scappò una risata.

++++

«La terza funzione è quella rieducativa, cioè la pena e le misure alternative devono educare il delinquente a reinserirsi nella società una volta scontata la sanzione.»

«Almeno su questo spero non abbia niente da ridire!»

«Assolutamente!» convenni. «Il principio è sacrosanto… Pure molto realistico!» ironizzai. «Le carceri sono posti noti per la loro accoglienza, la sensibilità dei loro operatori, le possibilità che offrono». Cambiai tono: «Le prigioni sono niente più e niente meno che lager in cui le persone vengono mandate a morire. E poiché ai carcerati non è concesso il rispetto dovuto a un essere umano, dice Kropotkin, in quei luoghi subiscono umiliazioni, violenze, torture, abusi, degradazione, giorno dopo giorno un processo di disumanizzazione al cui confronto la vendetta dei selvaggi è un gioco aggiunge Emma Goldman. Le prigioni sono monumenti alla ipocrisia e alla viltà degli uomini, decreta ancora il filosofo russo, auspicando che il primo compito della rivoluzione sia la loro abolizione. Perché, spiega: cosa possiamo fare per perfezionare il sistema penale? Niente. È impossibile perfezionare una prigione. Con l’eccezione di pochi trascurabili cambiamenti, non vi è altro da fare che distruggerla. E prosegue: Chi metterà sul piatto della bilancia da una parte i benefici attribuiti alla legge e alla punizione e dall’altra l’effetto degradante che quest’ultima ha sull’umanità; chi valuterà il torrente di depravazione riversato nella società umana dal delatore, favorito addirittura dal giudice e pagato in moneta sonante dai governi, con il pretesto che aiuta a smascherare il crimine; chi varcherà i muri di una prigione e lì vedrà come diventano gli esseri umani quando sono privati della libertà, quando sono sottoposti alla custodia di guardiani brutali, a un linguaggio volgare e crudele, a migliaia di umiliazioni concenti e strazianti, sarà d’accordo con noi sul fatto che l’intero apparato carcerario e punitivo è un’egemonia che dovrebbe essere abolita». Dopo una veloce pausa: «Benché queste considerazioni siano di oltre un secolo fa, la situazione oggi non è cambiata. Le carceri erano e saranno sempre una università del crimine!5»

«Facile criticare come fa lei» Pottutto eccepì risentito. «Sono proprio curioso di sapere come vi comportate voi anarchici!»

«Davvero le interessa?»

«Certo che no!».

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«La pena è un male necessario!» Pottutto ruggì convinto.

«”La grazia dell’orrore” direbbe il simbolista Baudelaire» rilevai sarcastico.

«Ẻ quello che ha inventato l’orribile A cerchiata?»

«Simbolista non nel senso che…» Lasciai perdere. «Lo Stato ci chiama cittadini ma ci tratta da sudditi. E lo fa avvalendosi delle Costituzioni e dei codici con cui si autolegittima in quanto è il “fine universale in sé per sé”, così Hegel lo definiva. Non fosse che quando una cosa è giusta a priori, è più facile smascherarne l’ingiustizia!»

«Cos’è uno scioglilingua?»

«Lo Stato è una finzione. Un manipolo di ricchi tira una linea su una cartina geografica, si dà un governo e impone a tutti le sue decisioni. Ecco perché la “nostra patria è il mondo intero, nostra legge è la libertà, ed un pensiero ribelle in cor ci sta”, cantava Pietro Gori4».

«La sola cosa che canta è questa!» Pottutto sventolò il capo di imputazione.

«Dice?»

«Dico. Dico!»

«Ma “se le leggi son”, dando quindi per assunto che siano inevitabili, il problema non sono loro bensì “chi pon mano ad esse”, afferma il poeta7. La legge è giusta se emanata da un’autorità legittima. Nel caso in cui non lo sia, cioè se proviene da un’autorità usurpatrice, è giusto invece opporsi. In una tirannia il capo, il re, il dux, chiunque sia, si auto-conferisce tale potere. L’illegittimità è così palese che molti dittatori la nascondono dietro l’intercessione divina, la giustizia assoluta, il bene universale o altre follie. La democrazia invece è fondata sull’assunto che il popolo conferisce al governo il potere di agire per suo conto…» Mi prendo qualche secondo. «Sa che non ricordo di aver mai delegato lo Stato a decidere per me? Ho provato a guardare nei miei appunti, a cercare nei miei diari, ma… Lei ricorda quando ha prestato il suo? E non citi il voto perché le ho già spiegato che è una finzione! La democrazia stessa è un raggiro a cui ci hanno educati a non avere alternative. Come ogni regime che sottrae agli individui il potere di autoderminarsi, nessuno l’ha scelta o confermata. Si è appropriata dell’autorità di governare, di giudicare, di obbligare come avrebbe fatto un qualsiasi usurpatore. La sua autorità è pertanto illegittima. E se è illegittima, anche le sue disposizioni lo sono e quindi…»

«A quanto pare però alla gente va bene così!»

«Alla gente va bene qualsiasi cosa pur di non pensare!» replicai risoluto. «Ma la gente non è tutti. Può essere maggioranza, ma rimane sempre la minoranza che non si fa irretire dall’inganno, né si sgomenta per le conseguenze della trasgressione».

«La metta come vuole. Chi non rispetta la legge è un delinquente!»

Non cado nella provocazione: «Nel momento in cui si rinuncia al profitto, le relazioni sono spontaneamente armoniche e di quello non c’è bisogno!» Indicai il codice. «Immagini una società senza dominio, senza proprietà, senza “teorie della disperazione”8, dove l’interesse personale si realizza attraverso la solidarietà e la reciprocità. Senza tornaconto, la punizione, la prevenzione, ma anche la rieducazione non hanno senso. Tutt’al più l’eventuale sanzione avrebbe lo scopo di riequilibrare e garantire la pace sociale. Le torna?» Con un’occhiata lo sollecitai ad aprirlo. «Lasciamo perdere il primo libro dei reati in generale. Concetti come la consumazione, le circostanze, l’imputabilità e altri sono principi di valenza universale che adesso non abbiamo tempo di esaminare».

Il PM scorse le pagine.

«Per cominciare eliminiamo le sanzioni civili e le misure di sicurezza. La definizione di pericolosità sociale è affare da manipolatori mentali e noi non conformiamo l’individuo all’interesse dominante… E così vanno via già una sessantina di articoli!»

Attesi che il PM passasse al “Libro II” del codice penale.

«In una società anarchica sarebbe altresì un controsenso parlare di delitti contro la personalità dello Stato, contro la pubblica amministrazione, contro l’amministrazione della giustizia… Figuriamoci il contro il sentimento religioso e l’ordine pubblico. Le pare?… Via altri duecentrenta articoli!»

«Sui delitti contro la fede pubblica non vorrà…?»

«Se ne potrebbe lasciare un paio sul falso materiale e sul falso ideologico. Si tratta di eventi alquanto improbabili in un contesto che rifiuta il profitto, ma non voglio sembrare radicale!»

«Mi sembra giusto!»

«Quindi via altri quarantacinque articoli!» precisai. «Sui delitti contro l’economia pubblica l’industria e il commercio… mi faccia un po’ vedere?»

Il PM girò il codice in maniera che potessi leggere.

«Distruzione di materie prime, diffusione di una malattia delle piante, rialzo e ribasso dei prezzi, manovre speculative su merci, serrata e sciopero per fini contrattuali e non», continuai a sfogliare: «E ancora serrata, boicottaggio… Via tutti perché non abbiamo economia! E sono altri trenta articoli circa».

«Sui delitti contro la moralità pubblica e il buon costume…?» mi interruppe il maresciallo.

«In un mondo di puttane, figurati se non posso andare a puttane!» esclamai divertito. «Quanto ai delitti contro la sanità di stirpe… beh, almeno hanno avuto il buon gusto di abolirli da soli!»

«Dei delitti contro la famiglia?»

«Via!»

«Delitti contro la persona?»

«Lasciamoli, dai. Non posso abrogare il codice intero!» Ci ripensai: «Quanti articoli sono?»

«Una quarantina!»

«Magari li sintetizziamo per garantire il diritto alla vita, all’incolumità e alla dignità personale!»

«Rimangono i delitti contro il patrimonio e le contravvenzioni».

«Proteggere la proprietà in una società senza proprietà non mi pare una cosa sensata. Quanto ai secondi, credo che anche il buon Rocco non ci credesse granché visto che li ha relegati in fondo al codice come banali contravvenzioni. Via!»

«Ma così non ci rimane nulla!»

«E non abbiamo sotto mano il codice di procedura penale!»

«Perché anche quello…?»

Mi lasciai andare a un’espressione meditabonda.

«Che c’è?»

«Stavo pensando…»

«Dica!»

«Pensavo… Visto che ormai il codice penale non esiste più, non è che… Sì, insomma, mi chiedevo se non sarebbe più giusto che io… Posso andare?»

Era giusto almeno provarci.

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«Gli anarchici più volte si sono interrogati su come sarebbe la pena nell’ipotetica società senza Stato e hanno offerto una molteplicità di soluzioni che, a mio giudizio, lasciano il tempo che trovano. D’altronde se a uno scienziato chiedete come sarà il mondo fra cinquanta o cento anni gira i tacchi e se ne va dandovi dei babbei perché troppe sono le incognite che impediscono di fornire proposte certe sulla società futura. L’avvenire è la sola trascendenza degli uomini senza Dio, diceva acutamente Camus e infatti…»

«Kamut come la farina?» chiese Manganello.

Lasciai perdere: «Per Emile Armand si può fare a meno di quel marchio della violenza, sotto una forma più o meno dissimulata, sotto un appellativo più o meno ipocrita, ma implicante comunque l’impiego della coercizione che è la sanzione, grazie alla esistenza di una mentalità comune, d’uno stato d’animo generale e particolare che induca il trasgressore a riconoscere volontariamente, da se stesso, la sua trasgressione e si infligga di sua spontanea volontà la punizione6».

Qualche secondo di silenzio perché assimilassero quella che sembrava più una provocazione.

«Ammetto che estrapolata dal contesto appaia una soluzione surreale. Però è più concreta di quanto si creda. Trova, infatti, riscontro in numerose comunità orizzontali il cui obiettivo non è sanzionare il reo ma reinserirlo nella comunità. Riconciliarlo con essa e con le parti danneggiate attraverso il riconoscimento della propria colpa e la richiesta di perdono. Un perdono condiviso che ne favorisce la riabilitazione.»

«Una roba tipo i pentiti?» domandò Pottutto.

«Ma qui il pentimento è sincero!» specificai. «A parte questo originale punto di vista, nel mondo anarchico prevale il concetto di sanzione diffusa. Proposta da Godwin, essa consiste nella mera disapprovazione esercitata dall’opinione pubblica. Dice il filosofo inglese che, in un contesto localizzato, ogni individuo si troverebbe in continuazione sottoposto al giudizio di tutti; e la disapprovazione dei suoi vicini, questa specie di forza coercitiva non derivata dai capricci degli uomini, ma dalla stessa forma dell’universo, lo spingerebbe inevitabilmente a correggersi, oppure a fare le valigie… Maresciallo, non c’è bisogno che scriva. Lo trova citato nei miei appunti!»

«Sto disegnando!». Mostrò uno spaventapasseri stilizzato.

«Anche Malatesta invocava il sentimento comune come espediente per risolvere il problema della criminalità: non ci sembra ci siano altre soluzioni oltre quella di affidare tali decisioni alle parti interessate, al popolo, cioè alla massa di cittadini, che si comporteranno differentemente a seconda delle circostanze e a seconda del loro grado di evoluzione sociale. Egli però si differenzia da Godwin in quanto il suo scopo è evitare un nuovo sistema di oppressione e privilegio che potrebbe formarsi nella società anarchica al sorgere del problema della criminalità.»

«Ci sta dicendo che siete favorevoli ai processi e alle esecuzioni di piazza?»

«Certo che no!». E risentito: «Sono io che non mi spiego o è lei che non capisce le mie parole?»

«Sono un pubblico ministero, non un esegeta. Se volevo fare l’esegeta mi laureavo in… dove ci si laurea per fare l’esegeta?» chiese a Manganello.

Il maresciallo arricciò la ciccia del collo, poi sicuro: «Credo in medicina… Mio fratello è andato al pronto soccorso per l’esofagite!».

Proseguii: «Personalmente rifiuto ogni forma di ingerenza nella sfera individuale. Ha ragione Orwell quando afferma che l’opinione pubblica è meno tollerante di qualsiasi sistema di leggi e l’individuo è sotto una continua pressione intesa a ottenere che si comporti e pensi esattamente come tutti gli altri. Al tempo stesso però sono convinto che la soluzione al problema della pena si trovi nella società. E qui mi riaggancio a Malatesta che esalta le pratiche che partono dal basso e si sviluppano pluralisticamente, in maniera non gerarchica e non conformista. Se le persone si uniscono in associazioni con comunanza di aspirazioni che ciascuno ha contribuito a costituire e formare, è improbabile che qualcuno possa violare le regole condivise. E anche si verificasse tale ipotesi la soluzione dovrebbe essere scritta in quelle stesse regole che ha partecipato a formare, nelle quali sono definiti i principi e le procedure.»

«Continuo a non capire!». Pottutto tolse e rimise gli occhiali nervosamente. «È stato finora a lamentarsi delle regole, perché adesso…?»

«Gli anarchici sono contrari alle regole imposte, non a quelle che ciascuno concorre a creare». Sospirai. «Che poi, se ci pensate bene, è la stessa cosa che dice Armand quando afferma che la soluzione della pena sta nel riconoscimento volontario della trasgressione e nell’inflizione volontaria della punizione!»

«Quell’Armando che ha citato prima?».

++++

«Nella logica del dominio chi detiene il potere considera il valore del suo interlocutore in maniera decrescente rispetto al grado di potere posseduto. Di conseguenza lo Stato, che si assurge a dominatore supremo, tratta l’individuo come un fastidio. Nella malaugurata ipotesi in cui poi quest’ultimo violi la sua volontà lo sopprime lentamente perché, oltre tutto, è pure sadico!»

«Non mi piace questo tono!» disse Pottutto.

«Vuole che abbassi la voce?» lo sferzai. «Di fronte a una condotta antisociale, lo Stato non ha dubbi: l’autore deve essere cancellato sia fisicamente confinandolo in prigione, sia mentalmente attraverso la violenza, la sopraffazione, il ricatto, l’umiliazione, la spoliazione della dignità. Lacerazioni che inevitabilmente, una volta fuori, riverserà sulla società legittimando gli abusi subiti in un circolo vizioso da cui guadagnano tutti tranne il reo. La verità è che gli individui sono una sua proprietà e come tale li tratta. È proprietario della vita, di cui ne dispone a piacimento; è proprietario della mente, indottrinandoli all’obbedienza attraverso la scuola, la morale, la manipolazione propagandistica delle molteplici istituzioni; è proprietario degli spazi e dei movimenti, definendo i confini dei primi e favorendo il controllo dei secondi grazie a sistemi sempre più sofisticati; è proprietario dei nostri beni per l’uso dei quali chiede il tributo… Insomma, si impone come padrone assoluto. Per questo assurge al ruolo di punitore consacrato che ordina supplizi come un dio vendicatore.»

«Dimenticavo che voi punite la vittima e premiate il delinquente!» intervenne Pottutto sarcastico.

«Carina!». Gli detti soddisfazione. «Assenza di proprietà, autogestione, reciprocità, redistribuzione, solidarietà, circolarità, pluralità, questo è ciò che siamo. L’anarchia non punisce, pacifica; non disciplina, armonizza. Così il diritto civile è lasciato ai liberi accordi fra le parti e quello penale corrisponde alla protezione dei diritti naturali che tutti identificano, conoscono e osservano spontaneamente. Ogni individuo è giurista e non potrebbe essere altrimenti dal momento in cui partecipa alla definizione delle regole. Le discute, le approva, le applica. Una volta definite, la pratica quotidiana ne garantisce l’osservanza. Spontaneamente!». Colto il loro scetticismo: «Se qualcuno eccepisse che le persone non sono capaci di stabilire cosa è giusto e cosa non lo è, sarebbe facile replicare che non lo sarebbero neppure nella scelta dei propri rappresentanti. Non vi pare?»

«Ho capito!» squittì Manganello. «Ha detto che sono tutti amici e si controllano a vicenda. Però non ho capito perché controllarsi a vicenda se poi ognuno fa come gli pare…». Sollevò lo sguardo sul soffitto per riflettere: «Ci sono!» esclamò. «Solo con noi fate come vi pare!»

«E perché, secondo lei?» chiesi.

«Perché avete passato un’infanzia difficile?».

++++ 

«Concludo facendo un esempio ipotetico e banale…»

«Perché banale?» mi interruppe Pottutto.

«Perché lo possiate capire!» dissi. «Esempio di come l’anarchia si rapporta nei confronti di chi, diciamo così, compie una condotta antisociale» dissi. «Prendiamo un ladro di polli qualsiasi. Nella società del dominio viene catturato e punito con sanzioni che variano in base al tempo e al luogo. Anche nella società anarchica non mancano i ladri di polli. Intanto però bisogna capire se i polli sono privati o della collettività. Nel primo caso si tratta, appunto, di un fatto privato e viene risolto come qualunque altro conflitto fra individui: le parti si accordano fra loro, oppure ricorrono a un arbitrato composto da membri da loro designati. Fossero invece della collettività procede direttamente l’assemblea. Per prima cosa si approfondisce il fatto affinché siano chiare le motivazioni, le dinamiche, eccetera. Poi l’interessato parla. Parla anche chi vuole intervenire e alla fine si decide.»

«Ho una domanda!»

«Lo lasci concludere!». Il magistrato stoppò il maresciallo. «Voglio vedere come va a finire la storiella!»

«Accertata la responsabilità, si presentano diverse opzioni: la più semplice è che siano restituiti i polli. In questo caso può essere sufficiente un semplice richiamo e la comunità definirà come aiutare il responsabile affinché non ripeta la condotta. Se, invece, li avesse già arrostiti…»

«Ospita tutti a cena?». Manganello fece la battuta.

«Concorda il risarcimento del danno per dimostrare il pentimento. Con l’accettazione della parte offesa e della collettività si ha la riconciliazione e il ripristino dell’armonia. Posto che la rifusione non è mai pecuniaria o inflittiva, si va dalla richiesta di scuse, apprezzate molto più di quello che si può immaginare quando sono sincere, alle prestazioni manuali o intellettuali, come tagliare la legna o aiutare i figli a studiare e così via.»

«Che razza di pena è?»

«Ha mai fatto studiare un bambino?» chiesi provocatoriamente.

Manganello esitò.

«E se uno è recidivo?» domandò Pottutto.

«Ovviamente dipende dalla violazione, dalla motivazione e da altri fattori. Sicuramente, però, non è un’aggravante.»

«Se è pluri-recidivo?» si ostinò il maresciallo.

«Perché non un serial killer?» mi stizzii. «Non si fonda una società sulle anomalie. E peraltro, non mi pare che lo Stato riesca a impedirle! L’efferatezza e la malvagità umana non si prevengono. Di sicuro però una società in cui l’individuo sia padrone di se stesso, viva in maniera simbiotica con la natura e si relazioni ai propri simili in modo non artificiale, non conflittuale, non competitivo e senza tornaconto, una società in cui il dominio sia sostituito dalla tolleranza, dall’altruismo, dall’equità, dalla cooperazione, dalla solidarietà, dalla condivisione, sarà sempre meno condizionante della società del dominio…»

«Sì, in un mondo sottosopra!». Pottutto non mi lasciò finire.

«Si chiama underground anche per questo!».

 

NOTE

NOTE

1 – Gerrard Winstanley, La nuova legge di giustizia, 1649.

2 –  F. A Lange citato da Maria Luisa Berneri in Viaggio attraverso Utopia, Tabor Edizioni, 1955.

3 – Aleksandr Berkman, Le prigioni e il crimine, in Anarchia e prigioni, 2014.

4 – Per un approfondimento Hermann Amborn, Il diritto anarchico dei popoli, ivi.

5 – Kropotkin, Le prigioni e la loro influenza morale sui prigionieri, ivi.

6 — Stornelli d’esilio di Pietro Gori, 1895.

7 — “Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?”- Dante, Purgatorio, XVI, 97.

8 — Thoureau, Walden, ivi.

9 – Emile Armand, Iniziazione individualista anarchica, ivi.

10 – William Godwin, Political Justice, ivi.

11 – Vernon Richards, Life and ideas: the anarchist writing of Errico Malatesta, 2015

12 – Pierre Clastres, Antropologia politica, Ombre Corte Edizioni, 2023.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi

In foto: disegno di Edgar Degas, Il Balletto, 1873

 

25- STATO – CONTRATTO SOCIALE

 

«Facciamo un break?» disse Pottutto dopo essersi stirato come uno scimpanzé.

«Non vedevo l’ora!». Manganello si alzò trionfante.

«Parlavo di me. Lei controlli gli appunti!»

«Non si preoccupi dottore, Non scappano!». Il maresciallo batté vigorosamente la mano sul blocco.

Il PM lo fulminò. Poi con disincanto tirò fuori dalla tasca della giacca una tazzina di caffè fumante. Lo sorseggiò lentamente chiudendo gli occhi. Si rimise a sedere. Pulì le lenti degli occhiali. «Splendido!» proruppe. «Dov’eravamo rimasti?»

«Allo Stato» dissi.

«Quale stato?»

«Lo Stato!»

«Sì, ho capito, ma quale stato: solido, liquido, aeriforme… Scherzo!». Evidentemente la pausa gli aveva risollevato l’umore. «Come sempre mi raccomando…»

«Dieci minuti?»

«Cinque!»

«Nove!»

«Sei!»

«Sette e accordo fatto!». Sputai nella mano e gliela porsi.

Sputò nella sua e me la strinse.

«Il più grande impedimento all’essere se stessi è lo Stato. Ma cos’è lo Stato?» domandai enfaticamente. «Per Benjamin Tucker Stato è “una parola sulla bocca di tutti, ma quanti di coloro che la usano hanno un’idea di quel che intendono?” Ve lo dico io. Nessuno. E sapete perché? Perché lo Stato non esiste

«Come non esiste?» gorgogliò Manganello. «E chi ci paga lo stipendio?»

«Forse ha ragione». Pottutto tergiversò. «Ha mai visto il signor Stato?»

«Esso infatti è un’entità astratta, impersonale e invisibile che agisce attraverso le istituzioni, gli apparati, l’amministrazione e ogni forma di potere con cui ci interfacciamo e contro cui sovente ci scontriamo. Non c’è una definizione giuridica precisa. Si può però dire che un consesso sociale può autogestirsi, prevendendo l’etica partecipazione di tutti alle sue decisioni, oppure crea strutture che lo disciplinino dall’alto perché chi è in basso è stato educato a pensare di non esserne capace. Lo Stato si può pertanto definire come la forma politico-organizzativa che un gruppo sociale stabilisce per la gestione della cosa comune.»

«E fin qui non mi pare abbia fornito un contributo rilevante alla scienza giuridica!» obiettò Pottutto.

Ignorai il sarcasmo: «Individuata la forma politica, compito di giuristi e filosofi cortigiani è darne una parvenza di ragionevolezza. E se al tempo del monarca assoluto si evocava l’intercessione divina, con lo Stato-nazione il razionalismo illuminista ha giustificato la sua assolutezza attraverso forse il più bell’esempio di fantasia applicata al potere: la teoria del contratto sociale. Una credenza ormai talmente radicata nella coscienza collettiva che ancora oggi viene menzionata dalla dottrina come principio supremo dei sistemi giuridici moderni.»

«La conosco!». Pottutto si esaltò.

«Ottimo. Allora non c’è bisogno che la spieghi!»

«Però non la ricordo!». E a Manganello: «Immagino non sappia neanche di cosa stiamo parlando, vero?»

«E invece sì!». Il maresciallo replicò infastidito. «È quella teoria in cui si stabilisce che le persone si mettono d’accordo per creare un qualcosa…». Qui esitò, «un qualcosa in cui tutti siano d’accordo. Perché è meglio andare d’accordo che litigare. No?».

Il magistrato lo fissò in attesa che si smaterializzasse.

«La teoria del contratto sociale sembra una barzelletta perché tutti, anche i più sempliciotti, soprattutto i più sempliciotti, devono interiorizzarla: l’uomo se abbandonato a se stesso è una bestia stupida e cattiva, quindi ha bisogno di qualcuno che gli dica cosa fare. Questo il principio che si articola in due principali orientamenti: da una parte abbiamo Hobbes, per il quale gli uomini sono brutti, sporchi e cattivi e, se liberi di agire, sanno solo divorarsi gli uni con gli altri. Per cui è necessario che rinuncino alla libertà individuale per conferire al Leviatano il potere di mantenere l’ordine.»

«Esatto. Proprio come ricordavo!». Pottutto proferì convinto. «Poi c’è… Cok o qualcosa di simile, vero?»

«Esatto» dissi. «Il famoso uovo alla coque!» lo dileggiai. «Si chiama Locke. Ricorda?»

«Assolutamente!»

«Vuole parlarcene?»

«È lei il divulgatore, io sono il PM. Rispettiamo i ruoli, per cortesia!»

«Locke sostiene che gli uomini senza legge non sono così male. Sono liberi, uguali, vivono in armonia con la natura e, addirittura, riconoscono, rispettano e tutelano i diritti inviolabili in maniera spontanea. Peccato non siano affidabili. E così anche Locke, che tanto bene era partito, regredisce a sua volta sulla necessità che gli individui si uniscano in una società e che essa deleghi al Principe il potere di imporre e mantenere l’ordine.»

«Un altro Leviatano?»

«Non proprio. Se per Hobbes esso implica un dominio verticistico, dall’alto verso il basso, come può essere il potere di un re, Locke afferma che la società permane anche quando il Principe diventa tiranno o si dissolve. Quindi il Potere è orizzontale.»

«Orizzontale, verticale… in diagonale non c’è niente?» crocchiò Manganello sfrontato.

«Di fatto la teoria del contratto sociale che cementa i nostri sistemi giuridici è puro catechismo, di cui ha il tono e il linguaggio dogmatico, come asseriva Camus2. Si fonda, infatti, su una delega che non esiste. Nessuno ha mai trasferito la propria autodeterminazione al popolo o al governo, nessuno ha mai accettato di rinunciare alla propria identità. Per questo, come diceva Spooner, lo Stato è illegittimo e opera come un bandito di strada che intima alle persone o la borsa o la vita

«Bella questa!»

«Rende l’idea, vero?» dissi. «La teoria del contratto sociale è una superstizione di cui la Costituzione è il simbolo sacro a cui tutti devono prostrarsi. Un dio dei filosofi e degli avvocati surrogato del dio dei sacerdoti, rispetto al quale, però, è molto più autoritario. Infatti, se all’Assoluto si può rifiutare devozione e poi si starà a vedere cosa succede, allo Stato si obbedisce necessariamente per dovere di nascita. È quindi un tiranno con il quale dobbiamo difenderci quotidianamente per salvaguardare la nostra identità. A tal proposito non concordo con Spencer1 quando diceva…»

«Bud Spencer?». Manganello si illuminò.

«No!» dissi. «Benché entrambi detestino gli arroganti!»

«Quello del darwinismo sociale, maresciallo!» notò Pottutto con aria sapiente.

«Proprio lui!» confermai. «Anche se, dopo anni trascorsi a smascherare le vergogne del potere, credo odierebbe chi lo ricorda per una teoria sviluppata in età senile!» sorrisi. «Anche Spencer3 criticava l’imperio statalista, ma non lo escludeva. Proponeva, infatti, di limitare le sue funzioni alla sola sicurezza interna ed esterna e all’amministrazione della giustizia» dissi. «A mio giudizio, neanche la minarchia gli compete. Perché nessuno gli ha conferito l’autorità. Se l’è presa. Ce l’ha estorta e la impone con strafottenza. La verità è che lo Stato è una menzogna spregevole che fa leva sulla buona fede dei sempliciotti: si professa etico in sé pur fondando il suo dominio su un presupposto ingannevole, la delega appunto, peraltro antitetico alla nostra essenza primigenia, che è quella di decidere personalmente. E poiché la legge umana non ha alcuna validità se contraria alla legge di natura, come diceva Blackstone4, è corretto affermare che sia un diritto universale non rispettarla

«Però è grazie alle leggi se lei può parlare anziché essere su un patibolo!»

«Il patibolo ci vorrebbe per questi… il patibolo!» echeggiò Manganello.

NOTE

– 1 Spencer era un giornalista politico dell’Economist quando nel 1853 riceve l’eredità per la morte dello zio che gli consentì di dedicarsi a tempo pieno allo studio che lo porterà a scrivere i volumi di A System of synthetic philosophy.

– 2 Albert Camus, L’uomo in rivolta, Adelphi, 1951.

– 3 Herbert Spencer, The man versus the states, 1884.

– 4 William Blackstone, Commentaries on the laws of England, 1765.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi

 

24- INGRANAGGI MENTALI: LA SOCIETÀ

24- INGRANAGGI MENTALI: LA SOCIETÀ

«Altro ostacolo alla coscienza di sé è la società» dissi. «Essa è l’insieme di soggetti, solitamente affini per abitudini, cultura, identità, che instaurano relazioni reciproche in maniera organizzata, condividendo scambi, linguaggi, funzioni sociali, regole comportamentali, attività economiche. Può svilupparsi in un dato territorio, oppure, se si tratta di popolazioni nomadi, può mutare di volta in volta. Appena costituita è un’entità viva e fibrillante. Presto però, perde l’effervescenza iniziale e il suo dinamismo si cristallizza in consuetudini e condotte che, nel tempo, attraverso la memoria, le leggende, i rituali, spesso in simbiosi con la religione, diventano un giogo: una costante soggezione che costringe l’individuo nel chiuso di convenzioni morali e di servitù economiche dice Armand.»

«Mi sembra inevitabile, se la società vuole conservarsi!»

«La marmellata si conserva. L’uomo deve evolversi!» rilevo. «Conservare significa salvaguardare, cioè difendere un ordine acquisito in opposizione al naturale divenire delle cose. Che nella società del dominio implica che il più forte padroneggi e spadroneggi all’infinito la massa passiva o beneficiando della sua assuefazione o reprimendola con la coercizione legale o plasmandola attraverso norme interiorizzate come necessarie: la morale sociale. Quest’ultime posso essere regole di buon senso mischiate alle tradizioni, solitamente con funzioni pratiche che sussistono a prescindere dall’egemonia imperante, ma prevalentemente si tratta di regole che richiamano principi, valori e ideologie il cui scopo è difendere l’assetto costituito». Scrollai la testa: «Faccio un esempio banale di come la morale sociale sia ineluttabilmente reazionaria: quando negli anni sessanta le donne cominciarono a indossare la minigonna, dovettero difendersi dall’accusa d’immoralità. Ovviamente in quell’indumento non c’era niente di pericoloso o perverso, ma gli uomini intuivano i rischi che avrebbe corso la società patriarcale se esse avessero rivendicato la libertà di poter scegliere».

«Figuratevi che l’altro giorno mia moglie ha chiesto se poteva prendere l’auto!» Manganello inframezzò.

«Sono gli inconvenienti del progresso!» lo canzonai. «La morale sociale quindi, come la religione e la legge, è uno strumento di controllo volto a conservare lo status quo che fa leva sulla remissività, sull’ignoranza e sull’oscurantismo. In sintesi sul conformismo omologante.»

«Ho capito». Pottutto mi interruppe. «Ma se uno nasce in una società e quella società ha determinate regole…?»

«Avrebbe senso rispettarle se le avesse scelte. Ma qui nessuno sceglie niente. L’individuo subisce le abitudini, le memorie, i cicli, la disciplina e il convenzionalismo del contesto in cui è nato, senza alternative e senza che gli sia consentita la possibilità di aderire, creare e godere di un ordine che gli si confaccia. La domanda allora è: chi ha interesse a mantenere queste regole morali?… Ve lo dico io. Anzi, l’ho già detto: la fonte è la solita della religione e dello Stato: ovverosia il Potere.»

«Lo sapevo. È sempre colpa sua!» obiettò Pottutto.

«È più forte di lui!» scherzai. «Pensate alla favoletta lockiana secondo cui le persone sentono il bisogno di associarsi per dare vita a un governo che difenda la proprietà1. A forza di ripetere che essa è un diritto assoluto, la sua preservazione è diventata un dovere morale. Eppure è sotto gli occhi di tutti che provoca sofferenza, odio, diseguaglianza, dividendo gli uomini fra ricchi e poveri e fra chi possiede di più e chi meno. Non vi pare?»

«Ha ragione!» gorgogliò Manganello. «Non è giusto che i miei figli vivano in cinquanta metri quadrati mentre qualcuno tiene una villa tutta per sé!» ammiccò verso Pottutto.

«E lei come fa a saperlo?» questi replicò stizzito.

«Non gliel’ho mai detto?». Il maresciallo esitò. «Un paio d’anni fa il dottor Persecuzio mi ha chiesto di pedinarla e…»

«Pedinarmi?»

«Pensava fosse omosessuale!»

«Omosessuale? Ma che…?»

«Non si preoccupi. Appena ho visto la sua signora, ho riferito subito che era una persona perbene!»

«Anche la morale sociale quindi è sempre ingiusta in quanto obbedire a una norma non condivisa annienta l’identità personale. E di fronte a un’identità violata, l’anarchico non può rimanere indifferente!» dissi.

«No? E che fa?»

«Si ribella ovviamente!»

«E che palle con questo ribellamento!» esclamò Pottutto.

Senza sottolineare l’errore lessicale: «Come che palle?»

«Mi perdoni, mi sono lasciato andare!». Il magistrato roteò il collo e sottovoce: «Comunque un po’ che palle lo è davvero!» confessò. «Sembra che per lei sia importante solo quello. Ma, dico io, non si stanca mai?» 

«Se mi stanco? Mi stanca l’ingiustizia. Mi stanca l’indifferenza. Mi stanca l’assuefazione. Mi stancano la devozione e la disciplina. Mi stancano l’apatia e la passività. Non mi stanca la reazione. Che sia critica o lotta. Dobbiamo dissolvere gli ingranaggi mentali affinché una volta snebbiato il cervello la ragione e il sentimento vivano la propria natura e gli individui siano in grado di evolvere e vibrare a loro agio, a ciascuno il compito di edificare la propria concezione della vita, di completarsi, di fabbricare la propria Città interiore. A ciascuno il compito di dirigere la propria vita, d’orientare la propria attività secondo le tendenze proprie, il proprio temperamento, il proprio carattere, le proprie aspirazioni2».

Il pubblico ministero fissò la pila di fogli come se temesse il momento della lettura.

«Lo trova scritto nel blog. Vuole sapere quale articolo?» lo provocai.

«Devo…?»

Ghignai malvagiamente per tenerlo sulle spine. Poi conclusi: «Ricapitolando, la società impone principi, valori, linee guida, modelli utili alla sua perpetuazione, cioè alla sua organizzazione funzionale al mantenimento dei privilegi. Ed esattamente come la religione, la legge, l’economia, la sua forza centripeta schiaccia l’individuo. L’alternativa è la coscienza di sé, cioè affrancarsi dall’oppressione per essere liberi di scegliere. E per scegliere liberamente occorre distruggere le catene che dalla tradizione autoritaria all’odierna omologazione annullano la personalità.»

«Ma l’uomo ha bisogno di chi gli dice cosa fare!»

«E che è un cane?» replico. «Capisco il bisogno di una stella polare. Ma che derivi dalla conoscenza empirica, cioè sia personale, non imposta!»

«Finito?» chiese Pottutto approfittando della mia pausa.

«Quasi» dissi. «Perché ciò avvenga risolutivamente occorre una cosa…»

«Che è?» chiese annoiato.

«Ma la lotta allo Stato, naturalmente!»

«Sentivo che non dovevo chiederglielo!».

 

NOTE

 

– 1 John Locke, Il secondo trattato del governo (The treatises of government), 1690.

– 2 Emile Durkheim, 1858-1917, considerato il padre della sociologia.

– 3 Emile Armand, L’iniziazione individualista anarchica, 1923.

– 4 Ferdinand Tönnies, Comunità e società, 1887.

In foto: Keith Haring, L’Universo, 2007

Editing a cura di Costanza Ghezzi

 

 

N. 21 – LA LIBERTÀ

«Qualificare la libertà è complesso perché non esiste una definizione unica. Lo dimostra il fatto che ogni dottrina filosofica ha voluto spiegarla a modo suo. Si va da Aristotele per il quale un’azione è volontaria e libera quando non è condizionata da fattori esterni, alla teologia per cui la razionalità non conta niente perché Dio è tanto buono che ci dona la sua grazia; da Spinoza per il quale l’uomo è uno dei modi di essere Dio ma Dio è migliore, all’ottimismo di Rousseau per cui: l’uomo nasce libero, ma ovunque è in catene; dalla libertà kantiana che si realizza attraverso la ragione e fuori dall’esperienza, alla concretezza di Hegel che la identifica in un processo dialettico dello Spirito Universale insito nella storia; da Marx per cui è strumento di liberazione economica, sociale, politica, a…»

«Oh!» esplose Pottutto. «Ora basta!»

«Solo l’ultima, dottore!» lo pregai. «A Sartre per cui l’uomo sarà sempre un’infelice perché consapevole di non essere trascendente; da… scherzavo!».

Il pubblico ministero ne approfittò per tirare fuori dalla tasca della giacca una baguette farcita con prosciutto crudo, cipolle rosse tagliate a rondelle, scaglie di grana, pancetta, uovo sodo, tonno, bresaola, mango, cetriolini, crema di piselli, due gocce di olio al tartufo, frittata, pomodori secchi, e un mix di mascarpone, maionese, senape e mostarda.

Lo so perché ne chiesi un pezzettino.

«Gustosissimo!» dissi.

«L’ha preparata la mia mammina!».

Con un’occhiata gli feci capire che Manganello stava sbavando.

Lo ignorò.

«Quanto le piacerà citare i filosofi!». Tornò a me con tono confidenziale.

«Tutto ciò che diciamo è già stato detto. Allora perché non riconoscerlo? E poi la filosofia aiuta a pensare e pensare è importante, ci distingue da… un cetriolo!». Ne raccattai un pezzetto caduto sui pantaloni. «Filosofia a parte, vorrei dare una versione personale della libertà.»

«È una cosa lunga?»

«La definizione è brevissima: la libertà è assenza di costrizioni o detto alla Nettlau: non fare socialmente quello di cui uno non sente bisogno

«Tutto qui?»

«Suppergiù!» sollevai le spalle. «Sono libero quando nessuno mi impone o mi impedisce di svolgere la mia attività intellettuale, oppure ostacola o determina la mia condotta. Sono libero se penso, scelgo e agisco come voglio per soddisfare il mio interesse, per realizzare il mio bene, per conseguire la mia felicità che, lo dico benché sia scontato, non può essere materiale giacché condizionata dalla necessità. Ma quali sono gli ostacoli alla mia libertà

«A parte una decina di ergastoli?».

Ignoro: «Sono quelli che le impediscono lo sviluppo personale: tutto ciò che avversa la vita, la salute, l’identità personale, la libera manifestazione del pensiero, eccetera. In sintesi: un’autorità che dica di fare ciò che non voglio fare.»

«Ha citato i diritti soggettivi sanciti dalla Costituzione che però con il non voler fare…?»

«La quale, però, non ha fatto altro che codificare diritti innati preesistenti a essa, che l’uomo ha sempre considerato inalienabili, irrinunciabili e imprescrittibili. In questo modo se ne è appropriata affinché i governi potessero interpretarli secondo la convenienza.»

«Non la seguo!»

«Prendiamo un diritto a caso: il diritto alla salute. Non c’è bisogno che dimostri che l’uomo lo riconosce e garantisce da sempre. La Costituzione lo definisce come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività. Ciò significa che lo Stato si impegna a fornire gli strumenti per assicurare alla società i mezzi per tutelarla. Lo stesso articolo, però, prevede che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. Ecco l’ipocrita, benché immancabile, contraddizione che consente di derogare il diritto naturale: stabilendo infatti che il trattamento sanitario può essere disposto nei confronti dell’individuo anche contro la sua volontà o il suo interesse con una semplice legge, di fatto lo spoglia della titolarità conferendola allo Stato. Facile immaginare come gli effetti di questa stortura possano essere devastanti. Se domani, ad esempio, un governo ritenesse utile che fossimo biondi, basterebbe una legge e tutti dovremmo tingere i capelli, pena la sanzione, la segregazione, la disapprovazione sociale… Ma non divaghiamo!»

«Ecco bravo, non divaghiamo!»

«Stavo dicendo che la libertà è determinarsi nel mondo senza ostacoli. Cercate voi stessi, diventate egoisti, ognuno di voi divenga Dio onnipotente! diceva Stirner, che aggiungeva: riconoscete ciò che siete veramente e lasciate correre le vostre aspirazioni ipocrite, la vostra stolta mania di essere qualcos’altro da ciò che siete1. Per gli anarchici, infatti, libertà significa essere sovrani di se stessi, quindi scegliere di dare forma alla propria volontà. Essere liberi di pensare, di vestire, di andare, di condividere, di lavorare, di amare, e potrei continuare. Una libertà, pertanto, non assoluta né astratta, ma concreta. Siamo en dehors, dice Emile Armand, che vogliono vivere per vivere, per compiere la propria funzione di bipede a statura eretta, dotato di pensiero e di sentimento, capace di analizzare delle emozioni e di catalogare le sensazioni. Vivere per vivere, senz’altro. Vivere per trasferirsi da un luogo all’altro, per apprezzare le esperienze intellettuali, morali, fisiche, delle quali è cosparsa la strada di ciascuno: per goderne; per suscitarne quando l’esistenza appare troppo monotona; per porvi fine o rinnovarle, secondo i casi. Vivere per vivere, per soddisfare i bisogni del cervello e il richiamo dei sensi. Vivere per acquistare il sapere, per lottare e formarsi un’individualità spiccata, per amare, per abbracciare; per cogliere i fiori dei campi e mangiare i frutti degli alberi. Vivere per produrre e consumare, per seminare e raccogliere, per cantare all’unisono con gli uccelli, distendersi al sole sulla spiaggia dei mari e sul greto dei fiumi». E ancora: «Vivere per vivere, per goderne aspramente, profondamente, di tutto ciò che offre la vita» E qui si fa quasi poetico: «Per sorseggiare fino all’ultima goccia la coppa di delizie e di sorprese che la vita tende a chiunque acquista coscienza del proprio essere».

Attesi qualche secondo perché Pottutto e Manganello si riprendessero dallo shock della lunga citazione.

«Ma perché ciò sia possibile, gli anarchici vogliono vivere in libertà, senza che una morale esteriore o imposta dalla tradizione o dalla maggioranza stabilisca comunque delle frontiere fra lecito e illecito». Altra veloce pausa e: «Vivere per vivere, senza opprimere altrui, senza calpestare le aspirazioni o i sentimenti di chicchessia, senza dominare o sfruttare, ma da essere liberi che resistono con ogni forza alla tirannia di Uno Solo come all’assorbimento delle Moltitudini2».

Il volto di Manganello era ormai nascosto fra le pieghe della pappagorgia.

Pottutto mi fissava con due biglie da pista sulla spiaggia al posto degli occhi.

Avrei giurato di scorgere in una la foto di Moser, nell’altra quella di Saronni.

 

«Le parole di Armand ribadiscono quanto per giungere alla libertà sia necessario affrontare quel periglioso quanto entusiasmante processo di iniziazione, che attraverso la conoscenza del sé, giunge alla possibilità di compiere un’azione intelligente, spontanea, contingente e non lesiva degli altri…coniugandosi con autonomia, solidarietà, volontà, in una dinamica infinita3

«Iniziazione tipo caverna platonica!»

«Bello quest’esempio filosofico!»

«Massoneria!». Pottutto mi corresse. «È la stanza buia in cui mi hanno chiuso per ore!4»

«La libertà è una conquista. Non può essere concessaparziale, cioè elargita dallo Stato, dal Re, dal Potestà, da Dio, dalla società, da un individuo chicchessia, in quanto nasconderebbe nel suo seno una qualche forma di autorità. È indivisibile, non si può toglierne una parte senza ucciderla tutta diceva Bakunin. E aggiungeva: sono veramente libero solo quando tutti gli esseri che mi circondano, uomini o donne, sono egualmente liberi. La libertà degli altri, lungi dall’essere un limite o la negazione della mia libertà, ne è al contrario la condizione necessaria e la conferma. Non divengo veramente libero se non attraverso la libertà degli altri, così che più numerosi sono gli uomini liberi che mi circondano, e più profonda e ampia diviene la mia libertà. È invece proprio la schiavitù degli uomini a porre una barriera alla mia libertà, o, che è lo stesso, è la loro bestialità a negare la mia umanità; perché, di nuovo, posso dirmi veramente libero solo quando la mia libertà, o, che è lo stesso, quando la mia dignità di uomo, il mio diritto umano, che consiste nel non obbedire a nessun altro uomo e nel determinare i miei atti in conformità con le mie convinzioni, mediate attraverso la coscienza ugualmente libera di tutti solo quando la mia libertà e la mia dignità mi ritornano confermate dall’assenso di tutti. La mia libertà personale, così convalidata dalla libertà di tutti, si estende all’infinito5»

Ripresi fiato.

«Bakunin giunge quindi alla straordinaria conclusione che la libertà deve essere condivisa perché uno è tutto e tutto è uno. Se vivessi su un’isola deserta, sicuramente sarei libero: un Robinson Crusoe solitario che parla con la noce di cocco. Divertente all’inizio, ma poi dovrei scegliere fra abbattere la palma a testate o concedermi agli squali. Allo stesso modo, fossi circondato da servi, mi vergognerei della mia libertà, mi disprezzerei per la mia indifferenza. Perché la libertà, la vera libertà, non può prescindere dalla co-partecipazione all’armonia universale. Sono libero solo se anche gli altri lo sono e gli altri lo sono se tutti siamo eguali. Per questo libertà ed eguaglianza sono complementari. La libertà senza eguaglianza è privilegio, l’uguaglianza senza libertà è una tirannia6. Ed è in questa identità fra individui che l’eguaglianza si realizza spontaneamente sotto forma solidarietà. Che non è la solidarietà evangelica, cioè la virtù teologale per la quale si ama il prossimo per amore di Dio, non è la solidarietà sociale che impone l’uniformità per essere manipolabili, bensì una comunità di affinità che si oppongono alla tirannia e condividono uno scopo. Fratelli, infatti, gli anarchici si chiamano fra loro. Per taluni camerati, compagni per altri. In sostanza, individui riuniti sotto la stessa bandiera, guidati da obiettivi comuni, stimolati da un’unione materiale e spirituale autentica, razionale e sentimentale».

Al mio silenzio Pottutto replicò con un’espressione fra il pianto e la nausea.

«Che ha, si sente male?» chiesi preoccupato.

«Tutto bene» singhiozzò. «Rimpiango solo d’aver accettato l’incarico

 

 

«So a cosa sta pensando. Lei sta pensando che sono un illuso perché gli uomini sono divoratori di altri uomini, vero?»

«Homo homini lupus

«Bravo, ha studiato Hobbes!» rilevai sarcastico. «La concezione che gli uomini siano guidati da istinti animali e che, se non controllati, si mangerebbero vicendevolmente è la solita giustificazione autolegittimante del dominio che fa leva sul servilismo dei molti. La maggior parte degli uomini non mangia nessuno. Al massimo abbaia senza mordere. Di sicuro, però, vivere in una società che nel migliore dei casi non ha fatto altro che imporre un unico modello di vita a tutti, senza rispettare le differenze e i bisogni individuali e sociali, come diceva Emma Goldman, accresce frustrazione e alienazione, quindi induce a rifiutare la vita, le relazioni, la natura stessa, impedendo all’individuo di raggiungere la piena consapevolezza di sé. Che fare allora?»

«Già, che facciamo?»

«Nessuno ci libererà se non noi stessi. Dobbiamo dichiarare guerra agli agenti dannosi che fino a ora hanno impedito la fusione armoniosa degli istinti individuali e sociali, afferma ancora la Goldman. Perché la vera armonia scaturisce naturalmente dalla comunanza di interessi, cioè dalla fusione dell’individuo con la collettività. Una fusione che si realizza spontaneamente superando i fantasmi7 della religione che plagia le menti, del governo che soggioga le condotte, della proprietà che vincola ai bisogni e nega le aspirazioni. Ma la libertà non sarà mai concessa. La logica del dominio non può tollerarla. La libertà si conquista

«Scommetto mezzo sigaro», Pottutto tirò fuori un cubano dalla tasca della giacca, «che avete in progetto di far esplodere qualche bella bombetta!» disse tutto eccitato.

«Parli, stragista!» grugnì Manganello.

«Mi spiace deludervi» risposi. «Ma non faccio scoppiare neppure i petardi a Capodanno!»

«Rapimento di qualche autorità?»

«Tipo?»

«Non so… un parlamentare?»

«Ci costerebbe troppo» dissi. «Quelli mangiano assai!»

«Allora un assessore!»

«E, secondo lei, mi abbasserei a rapire un assessore?»

«Un generale dell’esercito?»

«Meglio uno sbirro. Quantomeno gli restituiremmo pan per focaccia!» dico scherzando.

«Spero non sia un pubblico ministero!»

«Non si preoccupi, non rapiamo nessuno!». Chiusi la questione. «Per Malatesta la libertà è la massima aspirazione di ogni anarchico, che non si conquista e non si conserva se non attraverso lotte faticose e sacrifici crudeli. La lotta è infatti il più sacro dei doveri, dice Bakunin, ma non potrà svilupparsi in un confronto suicida col Potere

«Perché ne tocchereste, eh?» si svegliò Manganello.

«Non mi dica che sta pensando di imbrattare qualche muro, mi deluderebbe!» disse Pottutto.

«Sarà spontanea. Sarà un’ombra. Sarà silenziosa. Sarà impercettibile. Sarà costante e diffusa. Sarà…»

«Sarà, sarà quel che sarà, del nostro amore che sarà…». Pottutto iniziò a cantare.

«Prendiamo oggi quel che dà, e quel che avanza per domani basterà…» seguì Manganello.

«E quando avremo qualche anno di più, se a dirmi t’amo sarai ancora tu…» di nuovo il magistrato.

«La mia dolce gelosia ti terrà un po’ compagnia ogni volta che andrai via!8» In coro. Stringendosi poi in un caloroso abbraccio.

 

NOTE

1 – Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, ivi.

2 – Emile Armand, Iniziazione individualista anarchica, ivi. (NdA. En dehors è come Armand chiamava i refrattari, i ribelli).

3 – Francesco Codello, Né obbedire né comandare lessico libertario, 2009, Eleuthera.

4 – Nell’iniziazione massonica è il luogo buio in cui sosta l’iniziato durante il rito di passaggio prima di vedere la luce. Simbolizza la morte prima della nascita.

5 – M. Bakunin, Dio e Stato, 1882, Feltrinelli.

6 – NdA. La frase originale è: la libertà senza socialismo è un privilegio dell’ingiustizia; il socialismo senza libertà è schiavitù e brutalità.

7 – NdA. Per Stiner, Stato, religione, morale, società, altro non sono che fantasmi.

8 – Tiziana Rivale, Sarà quel che sarà, 1997.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi

In foto: Rob Gonsalves, Badtime aviation, 2001

6- L’anarchia non è comunismo

«Un’altra caratteristica essenziale dell’anarchia è che essa non è una filosofia sistematica ma pratica. Forse l’unica che può definirsi tale. Non fluttua nell’astrazione, ma scava nel fango e nella poltiglia, nella melma in cui l’essere si trova quotidianamente intrappolato. Paul Goodman diceva che “la relatività del principio anarchico rispetto alla situazione esistente ne rappresenta una parte essenziale”. Mi fermai per indicare il punto esatto della pagina. «Posso leggere?»

«Perché?»

«Goodman sostiene che “non può esserci una storia dell’anarchismo che definisca anarchico uno stato di cose divenuto permanente. È un continuo misurarsi con una nuova situazione, una vigilanza continua per garantire che le libertà passate non vadano perdute, che non si trasformino nel loro opposto, proprio come la libera impresa si è tradotta nella schiavitù del salario e del capitalismo monopolistico; l’autonomia del potere giudiziario nel monopolio dei tribunali, dei poliziotti e degli avvocati; e l’autonomia didattica negli apparati scolastici”1».

 Sollevai lo sguardo: il pubblico ministero conversava col soffitto, Manganello si puliva le unghie con la cannuccia dell’Estathé.

«L’anarchia è quindi pensiero e azione. Pensiero che aspira alla libertà e all’eguaglianza, azione finalizzata a realizzarla. Per questo fa così paura!»

«Più che paura, direi, rompe i coglioni!» rilevò Pottutto.

«Sicuramente» sorrisi. «Ma solo a chi sta al potere!»

«Parla come i comunisti!». Manganello si illuminò.

Mi aspettavo quell’obiezione: «Il comunismo non c’incastra niente!». Sollevai teatralmente le mani in un gesto di rifiuto. «A eccezione di alcuni pensatori libertari come ad esempio Landauer, che sostiene che “l’anarchia è il fine il socialismo è il mezzo”, vale per tutti l’affermazione di Bakunin: “il così detto stato popolare è nient’altro che il governo dispotico della massa da parte di un’aristocrazia nuova e molto ristretta”». Con tono elastico aggiunsi: «Bakunin è un altro dei padri dell’anarchia. Un vero rivoluzionario. Conoscete?»

«Non mi sovviene! A lei Manganello?»

«Non mi dice nulla. Signorina Servile» si rivolse alla segretaria, «mi può dare un’occhiata alla banca dati per vedere in quale carcere è detenuto?»

«È morto in Svizzera» precisai.

«Vedi i colleghi elvetici!» esclamò il maresciallo con un pizzico d’invidia.

«Nel 1876. Per morte naturale!» lo delusi. «L’anarchia, come il liberismo e il comunismo, nasce fra il XVIII e il XIX secolo in reazione al machiavellico separatismo fra etica e politica. Presente la frase “il fine giustifica i mezzi”? A un certo punto ci si rese conto che autorizzare il potere a fare quello che vuole non è il massimo, così i liberali provarono a tirare le fila con la teoria contrattualistica. Poi vennero i comunisti col loro materialismo storico. Distante dagli uni e dagli altri, c’è l’anarchia. Posso?» chiesi il permesso di prendere la pila di fogli su cui erano stampate le pagine del mio blog.

«Assolutamente no!». Pottutto batté sopra la mano.

La sua rudezza non mi impressionò: «Allora vada all’articolo in cui parlo di Godwin». Attesi che raggiungesse la pagina. «Come vede, cito più volte la sua Giustizia politica del 1793. Legge lei o leggo io?». Lessi io: «”Chi possiede l’autorità di fare le leggi?”». Guardai la platea per essere sicuro mi seguisse. «”Quali sono le caratteristiche di quell’uomo o di quel gruppo cui spetta la tremenda facoltà di prescrivere agli altri membri della comunità ciò che essi devono fare o devono evitare? La risposta a questa domanda è estremamente semplice. La legislazione, come generalmente la si intende, non è un affare di competenza umana. Il vero legislatore è l’immutabile ragione, ai cui decreti ci dobbiamo ricondurre. Le funzioni della società si estendono non già alla creazione, ma all’interpretazione della legge; essa non può decretare, può solo dichiarare ciò che la natura delle cose ha già stabilito, la cui priorità scaturisce irresistibilmente dalle circostanze”2»

Gli restituii il foglio.

«Qui nasce l’anarchia moderna!» decretai. «Da queste premesse, Godwin sviluppa e amplifica il concetto illuminista di ragione. Essa diventa il mezzo mediante il quale l’individuo persegue il bene comune in ogni settore della vita: l’educazione, la politica, l’economia, la società. Come per Kant, l’uomo è il solo padrone di se stesso e deve esercitare la propria sovranità fuori dai condizionamenti empirici della morale e delle leggi. E lo fa attraverso un processo razionale che porta alla verità, alla giustizia, al bene comune. Quindi etico. Meraviglioso, non vi pare?»

«Splendido!» esclamò Pottutto con l’occhietto pio.

«Può ripetere, per favore? Mi sono perso quando si è domandato chi può fare le leggi!» Manganello senza ritegno.

Rilessi tre volte, e una il pubblico ministero. Alla quinta, il PM propose di spiegarglielo con un disegno.

Con pazienza sintetizzai: «L’illuminista Godwin è considerato l’iniziatore dell’anarchia moderna perché per primo nega qualunque forma di dominio. È grazie a lui che, anni dopo, Proudhon affermerà: “il governo dell’uomo da parte dell’uomo è la schiavitù”. Per gli anarchici, infatti, niente e nessuno può comandare l’individuo poiché non esiste un’autorità che gli è superiore. Detto questo, non c’è bisogno che specifichi qual è la nostra posizione sui totalitarismi, seppur popolari!»

«Si riferisce ai comunisti…?» chiese Pottutto.

«E i socialisti?» domandò Manganello.

«Che c’entrano i socialisti, Manganello!». Il PM lo rimbrottò. «Lo sanno tutti che sono stati fatti fuori dai comunisti perché erano invidiosi dei democristiani!»

«Ma dai?»

«Tangentopoli!».

Manganello avvampò: «I comunisti sono democristiani? O i democristiani sono socialisti? Non ci sto capendo più niente».

Proseguii: «Esistono un’infinità di motivi che portano gli anarchici a diffidare di qualunque sistema che trasferisce il dominio da un tipo di Stato all’altro mantenendo il principio di autorità e il conseguente sfruttamento degli uomini.»

«Me ne dica tre perché dobbiamo passare ad altro.»

«Ma sono molti di più!»

«Allora non li voglio sapere!». Pottutto ghignò beffardo. «Prego!»

«Grazie!»

«Non c’è di che!»

«Come ho detto prima citando Bakunin, il comunismo sfocia inevitabilmente nel dispotismo. Elisee Reclus parlando ai “troppo spesso fratelli nemici” usava una massima che amo tantissimo, e cioè che “l’uomo che va in carrozza non sarà mai amico dell’uomo che va a piedi”, per invitarli a diffidare dai loro capi in quanto “la loro morale in stretta connessione col loro interesse si altera e, pur credendosi sempre fedeli alla causa dei loro rappresentati le divengono per forza di cose infedeli”. A quel punto, “divenuti detentori del potere, dovranno servirsi degli strumenti del potere: esercito, preti, magistrati, carabinieri, poliziotti e spie”3. Anche Reclus, come Bakunin, aveva intuito la deriva autoritaria del comunismo». Mi fermai un attimo. «Il secondo motivo che mi viene in mente è che socialismo, comunismo, liberismo e altre soluzioni stato-centriche sono distanti anni luce dalla cultura anarchica. Noi vogliamo realizzare la massima sovranità individuale, per cui è inconcepibile una sovranità superiore, sia essa pagana o religiosa, che la neghi». Con la mano indicai il numero tre. «La terza motivazione è forse più intuitiva, ma non meno importante: socialismo e comunismo negano la libertà; al contrario, il liberismo sacrifica l’eguaglianza in suo nome. Per noi anarchici, invece, non c’è libertà senza eguaglianza e non c’è eguaglianza senza libertà. La dimensione etica anarchica fa leva proprio sul presupposto che la vera libertà individuale si realizza garantendo l’eguaglianza del prossimo e che l’eguaglianza del prossimo ha bisogno della completa realizzazione di ogni singola libertà. Per l’anarchia si è liberi quando si è uguali e si è uguali quando si è liberi: “né opprimere, né essere oppressi”, direbbe Emile Armand: né servi né padroni!».

Il pubblico ministero portò la penna fra i denti e mi fissò dubbioso.

Il maresciallo lo imitò. Ma anziché tra i denti la punta del lapis finì in una narice. «Ahia!» starnazzò.

«Ha finito?» chiese il pubblico ministero. Poi si massaggiò la pancia. «Mi consente una chiamata?» 

«Prego!» dissi.

«Sono Pottutto, con chi parlo? Assistente Randello può cortesemente procurarmi una lavagna? Non una lavanda, ho detto una lavagna!… Non ho detto bevanda, ho detto lavagna, come quella che sta in classe! … Come non è mai andato a scuola?». Guardò Manganello: «Da quando assumete gli analfabeti?».

Gli occhietti del commissario articolarono un prolungato nistagmo: «il sovraintendente Coltello ci teneva tanto che suo genero lavorasse con noi!»

«Dei cartoncini bristol? Non avete neanche quelli?». Tappò la cornetta e si rivolse a Manganello: «Capisco l’ignoranza e chiudo un occhio per la raccomandazione, ma che sappiano almeno mettere due neuroni insieme, cribbio!». Gli fumavano le orecchie. «Già che ci sono, Randello, volevo anche chiederle… Mi ha riattaccato!». Per qualche secondo si guardò intorno con aria da naufrago che si è appena svegliato sulla spiaggia di un’isola deserta. Ricompose il numero: «Randello, è sempre lei? Ispettore Puntello buongiorno, sono il pubblico ministero Pottutto. Sto chiamando dalla stanza degli interrogatori. Posso chiedere a lei?». Pausa. «La schiacciata coi ciccioli a questo punto sarà carbonizzata!». Si morse il labbro. «So che non è un cameriere!». Pausa. «So che sta lavorando!». Pausa. «So che… ehi, abbassi la voce. Sa chi sono io?». La faccia divenne color mammola e riemerse la famigerata arterite alla tempia. «Mi ha riattaccato!» bisbigliò nel vuoto.

Per distrarlo ripresi il discorso: «A proposito di distinzione fra libertà ed eguaglianza, sa che Simmel diceva che non esisteva prima del XIX secolo? Prenda Kant, ad esempio. Per Kant l’individuo è concepito non nella sua peculiarità, ma come parte di un’universalità che chiama “umanità”. Lo stesso imperativo categorico “agisci come se la massima della tua azione sia massima di legislazione universale”, considera ogni pensiero e azione individuale come elementi di un tutto, l’umanità appunto. È nel XIX secolo che l’individualità prende forma. Nascono il socialismo e il liberalismo. Pensi solo a come il romanticismo esaltava le emozioni individuali!4». Diversamente dalle mie aspettative, però, continuava a guardarsi intorno irritato.

Intuito che il problema fosse dovuto alla lunga attesa per la schiacciata coi ciccioli: «vuole che solleciti io?». Indicai il telefono.

Disse che preferiva lasciar perdere. Infilò una mano nella tasca della giacca ed estrasse un contenitore di plastica con dentro un triangolo di castagnaccio. «L’ha fatto la mia mammina!» gemette.

E così, tra un morso e un altro, gli raccontai del voltagabbana comunista nella guerra civile spagnola: «Sa che probabilmente sono stati i sicari stalinisti a uccidere il leader anarchico Buenaventura Durruti?… La stessa fine che i marxisti hanno fatto fare a Nestor Machno e agli anarchici durante la guerra civile russa. Finché gli facciamo comodo…!»

«Non ci pensi!». Pottutto mi consolò.

«Però spiace. Perché se i comunisti fossero stati meno stronzi, adesso, invece di essere qui, avrei potuto battere la punizione che avrebbe salvato la mia squadra dalla retrocessione!».

Note

1 Riflessioni sul principio anarchico in Individuo e comunità, 1995

2 William Godwin, Giustizia politica, 1793.

3 Elisee Reclus, L’Anarchia, 1894.

4 George Simmel, Forme dell’individualismo, 2001.

 

Dipinto: Boris Kustodiev, Il Bolscevico, 1920.

editing a cura di Costanza Ghezzi, www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com