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SIAMO TUTTI ANIMALI

SIAMO TUTTI ANIMALI

Hai sentito della bambina che è andata nel bosco col cane e un cacciatore gliel’ha ammazzato? Dopo il misfatto ha confessato d’averlo confuso per un cinghiale. Non lo biasimo, probabile che mentre sparava pensasse già al ragù delle pappardelle!

La notizia ha avuto poca risonanza mediatica e sicuramente l’opinione pubblica avrebbe reagito diversamente se avesse colpito la piccola. Perché, come dice Orwell ne La Fattoria degli Animali: “tutti gli animali sono eguali, ma alcuni sono più eguali degli altri”. E gli uomini lo sono ancora di più.

 

Partiamo da un antefatto certo: è ormai dimostrato che uomini e animali hanno antenati comuni. Provengono entrambi dalla stessa molecola del DNA, che poi nel tempo ha subito una serie di modificazioni, differenziazioni, evoluzioni fino a creare le specie che conosciamo oggi. Tanto per essere chiari: l’uomo è uno scimpanzé più figo. Ha poco da fare tanto tanto il bulletto!

Quale primate più sviluppato siede sul punto più alto della piramide. E da lì non osserva imparziale, non controlla e domina senza far niente come Simba1. Partecipa al ciclo evolutivo ora favorendo l’estinzione di una specie, ora con la distruzione di una foresta, ora sterminando i propri simili. Tanto che, a volte, viene da chiedersi chi è il cretino che l’ha messo lassù.

Ovviamente si è messo da solo. Ma per non affermarlo spudoratamente, l’ipocrisia è una delle più praticate fra le sue peggiori qualità, ha sempre cercato qualcosa che lo confermasse. E fu così che, quando ancora guardava le stelle chiedendosi chi avesse realizzato quella meraviglia, intuì il trascendente. Da attribuirgli i meriti del creato a riconoscersi suo prediletto il passo è stato breve.

Le Sacre Scritture, infatti, affermano che Dio è onnipotente e che l’uomo è il figlio creato a sua immagine e somiglianza (Genesi 1,27), per cui può “dominare” gli animali e “soggiogare” la terra (Genesi 1,26.28). Per l’Islam la natura è un mezzo per raggiungere Allah poiché “i sette cieli e la terra e tutto ciò che in essi si trova lo glorificano” (Corano 17, 44). Insomma, le religioni monoteiste si definiscono tali non a caso: il dio è uno solo e si chiama uomo.

Non meno antropocentriche sono quelle politeiste: per gli egiziani gli dei erano elementi della natura che avevano forma umana; per i greci essa era la physis cioè la totalità delle cose, come la definivano i presocratici Eraclito e Anassagora, da cui tutto origina e senza cui nulla potrebbe essere com’è, che si personificava con creature antropomorfe interagenti fra loro; per i nativi americani la natura è la madre che dona il suo corpo per il nutrimento dei figli. Potrei proseguire con infiniti esempi dello stesso tenore.

Per secoli quindi le religioni sono state il più potente strumento di legittimazione del dominio sulla natura. Ma quando nel medioevo si cominciò a non poterne più dei numi opprimenti, l’ontologia abbandonò la metafisica per guardarsi intorno. Sperimentazione, creazione di ipotesi a cui seguono ragionamenti per arrivare a leggi che descrivono fenomeni. Ecco creata la nuova causa di riverenza al passo coi tempi: la scienza. E se all’inizio i suoi estimatori venivano cotti alla brace, scoperto il Nuovo Mondo ha cominciato a rinfrescare il vecchio, con la rivoluzione industriale ha assunto i crismi dell’infallibilità, dell’onnipotenza, dell’assolutezza, fino a diventare la dittatura che oggi adoriamo tanto.

Col pragmatismo che le è proprio essa ha dimostrato, quindi non c’è più bisogno neanche della fatica di credere, che l’uomo è l’essere più progredito in quanto unico a potersi adattare, sopravvivere, riprodursi tanto nel deserto quanto in vetta a una montagna. Detto in un altro modo, se trasferisci il nostro antenato scimpanzé, il più evoluto fra i meno evoluti, dalle foreste pluviali a New York, di sicuro impazzisce e poi viene abbattuto quand’è in vetta all’Empire State Building2. Se invece costringi l’uomo a fare il percorso inverso, sicuramente trasforma la foresta un bellissimo centro commerciale.

Di fatto la scienza non ha inventato niente. Ha semplicemente cristallizzato ciò che per il senso comune era indiscutibile.

Mi riferisco a coloro che affermano il primato in base alle maggiori capacità razionali di cui l’essere umano è dotato rispetto alle altre specie. Lascia stare che non ne faccia o ne faccia un pessimo uso. E lascia stare che siano coscienti e razionali i vertebrati, gli animali o le piante che interagiscono fra loro per la sopravvivenza e lo sviluppo e forse domani si scoprirà che lo sono anche gli insetti, gli artropodi e gli invertebrati. Ẻ indubbio che rifletta, razionalizzi, risolva problemi come nessun altro. Hai mai incontrato un’aquila mentre raschia un gratta e vinci? Sai di balene che sfrecciano su un catamarano? Conosci babbuini che sappiano assembrare un mobile Ikea? Hai mai visto giraffe che si specchiano nello schermo di un computer per un giorno intero o un orso che si rifà gli zigomi per assomigliare a un castoro? L’uomo, non l’animale né la pianta, riesce a fare tutte queste cose!

Oltre gli oltranzisti della ragione, ci sono i partigiani dell’anima. A loro dire l’uomo è l’unico essere che la possiede. E se la possiede, possiede una coscienza, cioè la consapevolezza del sé, degli altri, dell’ambiente che lo circonda, da cui deriva la capacità di giudicare cosa è bene e cosa è male. Peccato si smentiscano imponendo la morale, la legge, la religione e quant’altro lo uniformi e lo educhi affinché il giudizio non sia personale… Oppure no, magari la morale, la legge, la religione e quant’altro sono create apposta per stimolare le persone a ignorarle consapevolmente. Chissà!

Nel mucchio si distinguono i legalisti, coloro per cui la vita di un individuo è più importante di quella di un animale o di una pianta perché lo dice la legge. Per loro tutto è lecito ciò che consente, tutto è proibito se lo vieta. Le riconoscono un primato assoluto e incontestabile che ha quasi del mistico. Ti dirò: conosco la legge e conosco i mistici e, credimi, sono una pessima combinazione. Quasi peggiore dell’ideologia e del profitto. E siccome i legalisti hanno la capacità di mistificare la legge per idealizzare il profitto, mi spaventano assai!

 

La verità è che il primato dell’uomo è una finzione. Qualunque concezione antropologico-telologica è una fantasia che assolve due scopi: dimenticare la morte e alleviare il senso di colpa per la malvagità di cui è capace. La natura, infatti, lo considera solo un animale fra animali: siamo tutti volontà che partecipa al ciclo della vita e poi torna da dove è venuta. Essa ha nei suoi confronti la stessa considerazione che può avere verso un batterio. Se addirittura non lo ritiene più fastidioso, visto come si comporta!

 

Tornando al caso della bambina e del cane ucciso dal cacciatore, ciò che rende ai nostri occhi la vita umana più importante rispetto a quella di qualunque altro essere non è il suo valore assoluto, che non esiste, ma il nostro punto di vista condizionato da secoli di tradizioni, morale, cultura antropocentrica che considera il tutto come un subalterno, come un mezzo per un fine. Fine che è sanare l’umano bisogno d’eternità.

Come il domino sulla natura, al pari di violenza e accumulazione, è causato dall’urgenza inconscia di negare la propria finitezza, egualmente si idealizza la vita umana, con quella di un lombrico l’effetto non sarebbe lo stesso, perché identificarsi nella sua idea rafforza l’autostima a discapito della inevitabile caducità. E così se il cacciatore avesse freddato la bambina, ella sarebbe diventata figlia, sorella, madre e il dolore provocato dalla sua morte sarebbe stato personale perché provante l’incompiutezza che ci caratterizza. Siccome, invece, ha ucciso il cane, cioè un essere non umano nei confronti del quale solo pochi eletti riescono a identificarsi, è solo un coglioncello!

Peccato che questi artifici mentali di autoconservazione siano un’illusione. E come tutte le illusioni, all’inizio sembrano consolatorie, se perpetrate ripetutamente diventano follia. Che è lo stato permanente in cui ormai vive il genere umano.

NOTE

*1 “Il Re Leone, film di animazione, 1994.

*2 Riferimento a King Kong.

LA RIDEFINIZIONE DEL RAPPORTO CON LA NATURA COME PUNTO DI PARTENZA DELL’AZIONE ANARCHICA

LA RIDEFINIZIONE DEL RAPPORTO CON LA NATURA COME PUNTO DI PARTENZA DELL’AZIONE ANARCHICA

Siamo carne, emozioni, ragione. Siamo volontà. Ogni essere vivente dal più al meno evoluto vuole vivere. La gazzella eviterebbe di scappare dal leone, ma corre veloce. Il leone preferirebbe sonnecchiare all’ombra di un albero, ma la insegue. Stessa cosa vale per l’uomo. Nonostante una capacità autodistruttiva superiore a qualunque altro essere, è disposto a tutto, accetta di tutto pur di soddisfare quest’istinto primigenio. Così perché la volontà di vivere non è un desiderio, né un sentimento o un bisogno, ma sostanza primordiale che accumuna ogni essere del mondo. Dalla natura proviene e alla natura torna per rigenerarsi in nuova forma.

Da principio la terra produsse la famiglia delle erbe e il verde splendore intorno ai colli… in seguito creò le stirpi mortali, che nacquero in gran numero. Perciò a terra a ragione ha ricevuto e conserva il nome di madre, poiché da se stessa creò il genere umano1. Da queste parole di Lucrezio l’innegabile verità che il creato è fonte, è casa, è necessità e piacere, è equilibrio, è l’assoluto nelle sue infinite, spettacolari manifestazioni. Se una vita più vicina alla natura ci porta più vicini alle verità2, come diceva Tolstoj, è solo perché siamo la stessa cosa.

Nonostante questo, l’uomo la domina, la altera, la usa, la distrugge, in un processo crudele, vigliacco e irreversibile di cui è fin troppo facile immaginare la fine. Siamo testimoni di una catastrofe e nessuno fa niente. Le persone sono sempre più inebetite. La politica insegue l’economia. L’economia si arricchisce approfittando dell’emergenza.

La sola speranza è data dalle poche, isolate menti ribelli che hanno capito, non accettano e combattono. Individui liberi che non si realizzano nella materialità e vivono in armonia, senza finzioni e attraverso continue relazioni di sympatheya con le cose. Un uomo nuovo che rifiuta il profitto, consapevole che esso genera autorità, da cui deriva il potere, che è arbitrio perché esercitato sempre egoisticamente. Persone che attuano un rapporto paritario e non dominante con l’ambiente, di conseguenza paritario e non dominante con i propri simili.

Il potere è sempre pericoloso, attira le cose peggiori e corrompe le migliori. Non ho mai desiderato il potere. Il potere è dato solo a quelli che sono disposti ad abbassarsi e raccoglierlo dice Ragnar a suo figlio Bjorn3. Anche il re vichingo aveva infatti compreso che per essere, bisogna non avere. Che si è liberi solo quando si è puri. E la purezza è immergersi nella realtà e divenire con essa senza condizionamenti.

La finitezza non può essere sanata con la sopraffazione. La volontà non diventa immortale se domina quella altrui. Può invece essere eterna quando si alza verso il cielo attraverso le ramificazioni degli alberi, affonda nella terra insieme ai vermi, si immerge nelle acque indorate dal sole, corre nelle praterie, riposa sulle rocce e si risveglia uomo.

Se non è determinata dal bieco tornaconto, essa può esprimere la propria creatività. E perché avvenga questo balzo evolutivo occorre che l’individuo cessi di essere homo faber, che si considera anima del mondo4, copula mundi dice Ficino4, e pensi e agisca come homo humilis, che concepisce la terra come geometria, come misura della vita5. Solo così i beni non sono più strumento di privilegio e arbitrio, ma mezzo attraverso cui conseguire l’equilibrio naturale nel quale interagire mettendo la propria soggettività a servizio degli altri esseri viventi.

E quando l’uno diventa tutto, tutto cambia. Spariscono i dannosi rapporti di forza che asfissiano la quotidianità: le relazioni diventano orizzontali, il lavoro si trasforma in prestazione con qualcuno non per qualcuno, l’autogestione favorisce la partecipazione alle decisioni, la cooperazione stimola lo svolgimento delle attività in maniera conviviale, a rotazione e tenendo conto delle capacità e competenze personali, la solidarietà garantisce il minimo necessario, l’equa distribuzione delle eccedenze e il fondamentale sostegno morale. E così via.

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Ma non basta. La consapevolezza identitaria e la pratica etica che ne consegue non sono sufficienti. Non è vero l’assunto di Max Nettlau per cui l’uomo vive libero e felice quando consegue l’indipendenza economica grazie alle condizioni di utilizzo delle risorse della terra e dei doni spontanei della natura nell’ambito di un’organizzazione volontaria6. Occorre che essa non sia condizionata dai retaggi della società civile. Perché come l’arbusto svigorisce e poi muore nel deserto, l’individuo si svuota in un contesto dominato dalla competizione e dal profitto.

Il dominio è un blob che asfissia e, in men che non si dica, ingurgita. Da una parte ci sono lo Stato, l’economia, la religione, il senso comune, che impongono le loro leggi, dall’altra l’antagonista decide personalmente. Lo scontro è inevitabile. Gli anarchici, tuttavia, hanno imparato sulla propria pelle che la suggestione del faccia a faccia col potere fa troppi lividi, così agiscono nell’underground. Non partecipazione alle sue pratiche, non collaborazione con le sue istituzioni, trasgressione alle sue regole. Dopo tutto non c’è bisogno dello Stato perché la società funzioni: la parte essenziale della vita sociale si compie al di fuori dell’intervento governativo, perché le cose in cui esso non ha ingerenza sono quelle che camminano meglio7. La società esiste di per sé quale umano esercizio di sopravvivenza ed è partecipe, efficiente, produttiva, solidale, stimolante quando non viene intorpidita dalle logiche del dominio.

Una volta che le comunità sono attive, strutturate e sviluppate autonomamente, seppur nel rispetto delle specifiche differenze, devono coordinarsi per disobbedire agli ordini del tiranno, sottrargli potere attraverso l’organizzazione di strutture indipendenti che assolvano funzioni sociali, creare meccanismi di protezione che sfruttino quelli prevalenti, e svilupparsi, per quanto possibile, senza vicoli territoriali in maniera da attaccare e fuggire come pirati. E innanzi all’inevitabile repressione, resistere e unire le forze per colpire il Mostro nei punti vitali sottraendogli profitto e autorità.

Depredato, fiaccato, indebolito dall’azione di infinite sovranità che si riproducono continuamente, pur di mantenere i propri privilegi, a quel punto l’oppressore potrebbe concedere il diritto di astensione. Riconoscere che l’individuo non sia più sottoposto alla sua autorità per nascita, ma possa scegliere liberamente se e come governarsi. A parte lo Stato e nonostante esso, possano cioè emergere raggruppamenti legittimati che operano sovranamente per conseguire scopi condivisi. Un sistema di multigoverno non necessariamente territoriale, sviluppato attraverso comunità collegate su base federalista che garantisca l’antiautoritarismo e le preservi dai rischi di isolamento e regressione, svincolato da potere centrale seppur non in conflitto con esso.

Non è il massimo, ma da qualche parte bisogna pur cominciare.

NOTE

1 – Lucrezio, 94 ac-50 ac, De Rerum Natura.

2 – Una vita più vicina alla natura ci porta più vicini alle verità di una dominata dalle complicate norme della legge e della moda, frase completa.

3 – Così parla Ragnar al figlio Bjorn nella serie televisiva Viking.

4 – Termine usato da Appio Claudio Cieco (350-271 ac) nell’opera Sententiae col significato di uomo che guida il proprio destino e ripreso dall’umanesimo in antitesi all’Homo sapiens, con l’intento di rendere il sapere non più esclusivamente speculativo, quindi fine a se stesso, ma pratico, cioè utile all’edificazione di una realtà funzionale all’uomo.

5 – Concetto espresso dal pioniere dell’ambientalismo Aldo Leopold, 1887-1948, Pensare come una montagna, Piano B edizioni.

6 – Max Nettlau, Alcune idee false sull’anarchia (1905) in Gian Piero de Bellis, Panarchia, D Editore, 2017.

7 – Errico Malatesta, Anarchia, Ed Anarchismo, 2013. Da cui ho tratto le sue citazioni presenti in questo articolo. Testo: la parte essenziale della vita sociale si compie anche oggi al di fuori dell’intervento governativo… le cose in cui lo Stato non ha ingerenza sono quelle che camminano meglio, che fan luogo a minori contestazioni e si accomodano per la volontà di tutti in modo che tutti ci trovino utile e piacere perché la vita quotidiana si svolge al di fuori della portata del codice ed è regolata, quasi inconsciamente, per tacito o volontario assenso di tutti, da una quantità di usi e costumi ben più importanti alla vita sociale che gli articoli del codice penale, o meglio rispettati, quantunque completamente privi di sanzione.

 

35 – LA PROPRIETÀ. IL RAPPORTO CON LE COSE CAMBIA SE CAMBIA QUELLO CON LA NATURA – terza parte

«Ho detto che la comproprietà è l’unica soluzione possibile. Nessuno è proprietario di niente. Tutti posseggono tutto. La comunità ne gestisce l’acquisto, la conservazione, l’uso e la distribuzione in base a modalità stabilite dai suoi membri al momento della costituzione, dell’ingresso, o in sede di eventuale modifica degli accordi. In questo modo non possono sorgere abusi, violazioni, usurpazioni, né gelosie e avidità perché ciascuno decide secondo coscienza e interesse.»

«Per me non funzionerà mai!»

«E invece funziona alla grande se ci si affranca dalla logica del dominio per cui la libertà è libertà di possedere!» affermai. «La rinuncia alla proprietà richiede la consapevolezza che gran parte dei lussi e molte delle cosiddette comodità della vita, sono non soltanto tutt’altro che indispensabili, ma autentici ostacoli per l’elevazione del genere umano come intuì Thoureau già a metà dell’Ottocento e qualche secolo prima gli stoici. Occorre pertanto abbandonare il sistema che ci fa vivere meschinamente come formiche, cioè smettere di affamarsi non per mancanza del necessario, ma per mancanza del lusso, con l’obiettivo che mantenersi su questa terra non sia una fatica, ma un passatempo, se viviamo con semplicità e saggezza. Ma la ridefinizione della relazione con le cose è possibile se e solo se muta il rapporto con la natura, che deve essere non più di supremazia, bensì volto a sviluppare le potenzialità creative indispensabili per cogliere l’essenza di ciò che ci circonda».

Li invitai a leggere le parole del filosofo nell’articolo del 1.12.23.

«Mi resi conto che in qualunque oggetto naturale si può trovare la compagnia più dolce e tenera, più innocente e incoraggiante, anche per il povero misantropo e per il più malinconico degli uomini. Non può esistere la mera malinconia per colui che vive nel mezzo della Natura. Concetto che ripete anche più avanti: l’indescrivibile innocenza e beneficenza della Natura concedono sempre una tale salute e una tale allegria e mentre godo l’amicizia delle stagioni, confido che nulla possa rendermi la vita un peso. La natura dona un’amicizia infinita e indescrivibile ma, simultaneamente, affranca dai vantaggi immaginati dalla vicinanza umana consentendo all’individuo di percepire la realtà delle cose essendo se stesso. Immergendosi in essa, infatti, egli può non solo soddisfare i bisogni essenziali rinunciando al lusso, quello che noi moderni chiamiamo ipocritamente benessere, ma soprattutto realizzare la conoscenza del sé, fondamentale per godere l’estasi della fusione con l’universale1».

«Detesto questi filosofismi!»

«La capisco. Pensare è faticoso!»

«Come si permette?». Pottutto avvampò.

«Dicevo in generale!»

Si ricompose: «Mi è venuto un dubbio sulla comunità…»

«Prego, dica pure!»

«Non le ho chiesto il permesso!» replicò piccato. «Cosa accadrebbe se un membro si appropriasse di un bene che appartiene a un altro gruppo?»

«Certo che il crimine ce l’ha proprio qui!». Puntai il dito alla tempia. «Non può accadere! Come nessuno ha bisogno di rubare un bene della comunità perché è suo, allo stesso modo non ha bisogno di appropriarsi di quello di un’altra perché ha scelto di non disporne. I bisogni sono assolti dal gruppo di appartenenza e l’assenza di competizione elide quei volgari quanto degradanti sentimenti di invidia e avidità che deturpano lo spirito e deteriora le relazioni: una volta abolita la proprietà privata, spariscono di conseguenza anche le leggi e i reati. Il comandamento non rubare è stato trasformato in lavora per vivere felice!2»  

Pottutto accese la sigaretta. «Ne vuole una?» chiese.

Sollevai le spalle assertivamente.

Indicò con lo sguardo il portacenere come a dire che avrei potuto scegliere il mozzicone che mi piaceva di più.

«Magari dopo!»

«E se invece le comunità riconoscessero la proprietà?». Il magistrato sollevò il sopracciglio.

«Già, se la riconoscessero?». Il maresciallo gli andò dietro. E come se avesse perso qualche passaggio: «Perché si sono incontrate?».

Lo ignorai: «Se una comunità accettasse la proprietà, accetterebbe di vivere secondo le regole del dominio, dando luogo a una società che non è anarchica. Potrebbe farlo perché il volontarismo e il pluralismo sono principi sacrosanti. Ma, lo ripeto, non sarebbe anarchica. E temo che, tolleranza a parte… prenda noi tre. Pensi un po’ cosa accadrebbe se andassimo a cena insieme?».

Per un attimo temetti che Pottutto si mangiasse la pallina.

«Mi parla di abolizione dello Stato, però ci sono gli accordi. Mi dice che vuole eliminare la proprietà, però va bene la comproprietà. Ho la sensazione che, come dire… che cambi tutto per non cambiare niente!» rilevò.

«Eh no. Cambia tutto per cambiare tutto!» sobbalzai. «Le dico solo tre cose random: la prima è che niente è più uguale quando le regole vengono stabilite dal basso e non c’è autorità che le imponga o ne controlli l’osservanza. Si chiama libertà. Libertà vera. Reale. Ancora più evidente mi sembra la portata rivoluzionaria della comproprietà. Condividere i beni in maniera orizzontale elimina ogni forma di sfruttamento e garantisce la compartecipazione, senza la quale non c’è autogestione. Questa è invece eguaglianza. Infine, il continuo confronto, la possibilità di trasformarsi consensualmente o di sciogliersi, di cambiare in ogni momento scopi e metodi, di rinnovarsi grazie alla negoziazione permanente, rendono il cambiamento inscritto direttamente nella sua costituzione interna e nel suo modo di esistere, con il risultato che essa non può continuare a essere ciò che è se non muta3 dice Tomas Ibágñez parlando della comunità anarchica. In quale sistema sociopolitico questa evoluzione armonica è consentita?»

«In quale?» chiese il maresciallo.

«Manganello, gli risponda l’anarchia così andiamo avanti!» il pubblico ministero lo sollecitò. E a me: «Abbiamo finito con la proprietà?»

Sovvenni: «Quasi dimenticavo il pluralismo. L’eguaglianza nella diversità è libertà senza catene. Quelle catene che vi rendono così tristi, solitari, abbandonati, depressi…!»

«Ora le facciamo anche pena?»

«Perché, è così evidente?».

 

NOTE

 

– 1 Henry David Thoreau, Walden, ivi.

– 5 William Morris, Notizie da nessun luogo, 1890.

– 6 Tomas Ibáñes, L’anarchia nel mondo contemporaneo, 2022.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi.

Immagine: Jago, Pietà.

34- LA PROPRIETÀ. CAMBIARE IL RAPPORTO CON LE COSE: COMPROPRIETÀ – Seconda parte.

«La proprietà è la facoltà di disporre e godere di un bene pienamente ed esclusivamente: la zappa è mia e la uso come voglio. I giuristi hanno poi aggiunto: nel rispetto della legge e senza pregiudicare i diritti altrui. Quindi la zappa è sempre mia, ma non posso dissodare la terra che non mi appartiene e non posso tirarla in testa a chi mi pare. Questa la definizione.»

«Dopraho, ho fatto giurisprudenza. So cos’è la proprietà!»

«Ottimo! Differenza fra proprietà e possesso?»

Scena muta.

«Allora cambiamo domanda: quand’è che sono proprietario di una cosa?»

Pottutto si perse nel paesaggio agreste che Manganello stava disegnando.

«Quando la realizzo, tipo mi costruisco la zappa, oppure quando me ne impossesso, tipo la compro. Nel momento in cui entra nella mia disponibilità diventa un mezzo che utilizzo per conseguire un fine, cioè uno strumento funzionale a una mia utilità. Senza la zappa non potrei tagliare i rami e se non taglio i rami non posso scaldarmi, ad esempio. Attraverso la proprietà, pertanto, soddisfo un bisogno pratico ma anche, oggi direi soprattutto vista la narcotizzazione consumistica, mentale.»

«Sul prossimo argomento mi faccia una cortesia…» intervenne Pottutto.

«Dica!»

«Evitiamo il cappello che…»

«Ma è la parte più divertente!»

«Lei si diverte?» chiese a Manganello.

«Eccome no. Sono tre ore che rido!»

«Detto che la proprietà è un mezzo per un fine e che i fini si reiterano all’infinito, occorre che qualcuno provveda al suo mantenimento, al suo sviluppo, alla sua difesa, eccetera. E poiché del proprietario si può dire tutto ma non che non sia generoso, lascia siano altri a lavorare. Si crea così un dominio degli uomini sugli uomini che, aggiunto a quello sulla natura, provoca la catastrofe umana e ambientale che stiamo vivendo. Non esistono soluzioni intermedie: l’abolizione della proprietà è l’unico modo per fermare questo delirio di onnipotenza

«In che senso?»

«La proprietà non deve esistere. Abolita. Cancellata. Tanti saluti e arrivederci!»

«Ma se la abolite, i bisogni…?»

«Occorre distinguere fra bisogni primari e non. Mangiare, vestirsi, svagarsi, stare con gli altri, eccetera sono bisogni essenziali che l’anarchia non nega a nessuno, anzi favorisce in quanto funzionali al perfezionamento della personalità. Perché ciò sia possibile deve però cambiare il rapporto con le cose, il valore che attribuiamo loro: utile è ciò che consente di vivere in armonia col mondo, superfluo è ciò che crea schiavitù fisica e mentale.»

«E chi stabilisce se una cosa sia superflua o no?»

«Gliel’ho appena spiegato!» replicai irritato. «L’uomo si perfeziona e si compie quando vive spontaneamente in armonia con se stesso, con gli altri, con l’ambiente. Il resto è dannosa banalità. Per questo l’anarchia che voglio propone un’esistenza semplice in cui si privilegi la relazione personale e la connessione con la natura. Un progetto spirituale prima ancora che materiale, in cui l’estasi si ottiene per sottrazione, non aggiungendo. Bisogna essere nudi per essere se stessi! Come diceva Proudhon: è sufficiente possedere quel tanto che basta per essere liberi perché una volta soddisfatti i bisogni elementari si ha il tempo di coltivare la propria mente e la propria sensibilità1»

«Su questo avrei qualche dubbio!»

«Conosce qualche ricco che è felice?»

«La sua è tutta invidia!»

«Mai provato questo sentimento!»

«Neanche un pochino?»

Arrossii: «In effetti, una volta. Quando dal traghetto ho visto i delfini piroettare fra le onde… Non mi ci faccia pensare che mi commuovo ancora!»

Il pubblico ministero si grattò nervosamente la barba liberando una mosca rattrappitasi nei riccioli.

«Ma se abolite la proprietà, a chi appartengono le cose?» chiese.

«Sono di tutti e di nessuno.»

«L’avevo detto che sono comunisti!» esultò Manganello.

«Nella società anarchica, a parte i prodotti di esclusivo uso personale, i beni appartengono a tutti e tutti li producono, li gestiscono e ne dispongono in base agli accordi. Si chiama comproprietà. Quelli in eccedenza vengono distribuiti equamente, quelli accessori vengono spartiti fra i membri attraverso il dono o la permuta. Non c’è un’entità superiore che decreta dall’alto. La scelta è volontaria. Esclusivamente personale. Per questo non siamo comunisti!»

Mi restituirono due facce da cane a cui è stata tolta la ciotola.

«Non c’è bisogno di delegare chicchessia. Si concorda cosa, quanto, come produrre per se stessi e per gli altri. Che siano mezzi di trasporto, elettrodomestici, abitazioni, terreni o quant’altro, tutto è comunione!»

«Non riuscirete mai a eliminare la proprietà!» rugliò il pubblico ministero.

«Intanto cominciamo dalla nostra, senza la quale anche la vostra perde di valore!»

«E vorreste cambiare le cose così, di punto in bianco?». Si protese verso di me: «Mi perdoni. Glielo chiedo perché… sa ho appena comprato casa!» sussurrò in maniera che Manganello non udisse.

«Assolutamente no! Come diceva Goodman: i cambiamenti possono essere a spizzichi e non drammatici, ma devono essere essenziali2. Per questo creiamo comunità clandestine che erodano lentamente il sistema» dissi candidamente.

«Ma senza proprietà…?»

«Mi dica un solo motivo per cui è utile?» lo incalzai.

Seguirono secondi di silenzio assoluto, sguardi fuggevoli, contrazioni muscolari. «Se io sono proprietario di un bene posso trarne un’utilità immediata, senza mediazione di cose o persone…» biascicò Pottutto.

«E posso fare di essa quello che voglio!» seguii. «Ma a parte ricordare le definizioni di diritto assoluto e il diritto soggettivo studiate sul Trabucchi…?»

«Edizioni Simone3».

«Non importa!» lo tolsi dall’imbarazzo. «Il punto focale è che la proprietà favorisce il più forte e impedisce la realizzazione delle potenzialità individuali sfruttando e corrompendo con l’illusione della materialità. Conviviamo con essa dal momento in cui veniamo al mondo. Esattamente come la schiavitù. Per questo deve essere abolita. Ma non attraverso l’espropriazione suggerita da Bakunin, o la presa di possesso di Louise Michel, tanto per fare dei nomi, che genererebbero nuove autorità verticistiche, bensì attraverso la comproprietà in cui tutti siano attori e non fruitori, parimenti partecipi e responsabili.»

«Adesso voglio un nome. Me l’aveva promesso!»

«Uno a caso?»

«Mi accontenterò del primo che le viene in mente!»

«Adele!»

«Adele?». Pottutto scattò sugli attenti. «Chi è questa Adele?»

«E che ne so. È il primo nome che mi è venuto in mente!».

 

NOTE

– 1 P. J. Proudhon, La guerra e la pace, 1861.

– 2 Il Manuale di diritto privato di Torrente-Shlesinger è forse il testo più usato nelle Università. Quello delle Edizioni Simone è meno tecnico e più facile. Gli studenti dicono di studiare sul primo, ma non è vero. Intorno alla cinquantesima pagina chiedono ai genitori di comprare il secondo!

– 3 Paul Goodman, Individui e comunità, 1995.

Editing a cura di Costanza Ghezzi.

In foto: Gustave Dorè, Amore riflette sulla morte, 1875

30 – LA LEGGE

 

«Qual è lo strumento attraverso cui lo Stato impone la sua volontà?»

«Lo chiede a noi?» domandò Manganello.

«Ma la legge, naturalmente!» dissi. «E cos’è la legge?»

«La norma!» rispose deciso Pottutto.

«Sono sinonimi!»

«La legge è legge!» gorgogliò Manganello.

«In due parole: la legge è un atto deliberato da un’autorità, elettiva o meno, che disciplina il comportamento degli uomini». Pausa. «Già così è più che sufficiente perché nessuno si debba sentire obbligato a rispettarla!».

Pottutto si contrasse come se gli fosse entrato un tafano nell’occhio.

«Esistono diversi tipi di legge: c’è la legge divina, rispettando la quale si va in Paradiso, la legge morale la cui osservanza consente la conservazione sociale, la legge della natura preesistente al diritto positivo e che disciplina le cose del mondo, la legge quale prerogativa di re e potenti, come diceva George Sorel1, di cui stiamo parlando e… e poi c’è Dredd, la legge sono io!2» chiosai per sdrammatizzare. «Un tempo le leggi erano stabilite dal monarca, dal potestà, dal signore, figure autoritarie che imponevano insindacabilmente la loro volontà. Nella società mercantile fondata sull’ipocrisia, il dominio non può essere sbattuto in faccia ai sudditi, per cui ci pensa il governo legittimato dalla farsa delle elezioni.»

«Vorrà dire il Parlamento!» mi corresse Pottutto.

«Perché il Parlamento fa ancora le leggi?»

«Così dice la Costituzione!»

«Dice. Non poteva certo immaginare che si verificasse un’emergenza la settimana!» ironizzai. «Imponendo un determinato comportamento pena la sanzione, la legge spoglia l’individuo della sua identità. Gli impedisce di decidere che tipo di persona essere e a quale mondo appartenere. Realizza quindi un’usurpazione di sovranità».

Poiché mi fissavano vuoti, cambiai tono: «Ma supponiamo che una persona si rassegni a obbedire a una volontà eteronoma per il quieto vivere e per non perdere la miseria che possiede. Se ha un minimo di dignità, quantomeno pretenderà che l’ordine derivi da un’autorità fornita di doti morali, umane, professionali, eccetera. Non dico che i politici dovrebbero essere come i guardiani descritti da Platone ne La Repubblica, ma nemmeno che primeggino per la loro avidità, ignoranza, arroganza, ambiguità, volgarità, turpitudine, immoralità… potrei proseguire all’infinito con altri gioiosi attributi! E invece, anche gli uomini migliori e più intelligenti, privi di egoismo, generosi e puri, una volta seduti in quei dannati scanni, sempre e inevitabilmente saranno corrotti dall’esercizio del potere

«Citazione?» domandò Pottutto.

«Bakunin. Ogni tanto ci vuole per colorare il concetto!» mi burlai. E aggiunsi: «Di fatto i politici sono materiale di rifiuto emesso dagli esseri viventi…»

«In che senso?»

«Sono merda!»

«Dopraho!». Pottutto schizzò sulla sedia.

«Preferisce l’espressione: deiezione del genere umano?». Corressi il tiro. «Il loro obiettivo esclusivo è conquistare e mantenere il potere. E per impadronirsene e godere dei suoi privilegi sono capaci delle più infime aberrazioni. Quindi io dovrei obbedire a questi malfattori? Certo che no. Non si può obbedire a chi si disprezza! La penso come Thoreau quando asseriva che mi costa meno, in ogni senso, incorrere nella pena prevista per la disobbedienza allo Stato di quanto mi costerebbe l’obbedienza3. Il rispetto viene dal merito, e loro non meritano il mio rispetto

«Ma la legge è la volontà dello Stato: è a lui che obbedisce!»

«Certo, certo… Oggi è lo Stato, ieri il monarca, l’altro ieri Dio e domani magari ci imporranno di venerare una ciabatta!» replicai caustico. «Detto che le sue regole possono valere, al massimo, per gli incurabili dementi, come Octave Mirbeau chiamava gli elettori, che collaborano al perpetuarsi della tirannia, in attesa della sua dissoluzione, di fronte alla legge due sono le condotte: o osservare le norme utili ai propri scopi e negare le altre…»

«Così è troppo comodo!» mi interruppe il magistrato.

«Non ho capito: lui può sfruttare me e io non posso sfruttare lui?» rilevai. «Oppure rispettarle solo quando sono giuste per non diventare complici dell’ingiustizia.»

«E stabilisce lei se sono giuste o meno?». Il PM replicò con sarcasmo.

«Ottima osservazione!» dissi. «Infatti le nego tutte. Indistintamente. Vivo come se non esistessero! Perché è giusto o non è giusto ciò che è o non è naturale. E non c’è niente di naturale quando si è obbligati a osservare un ordine che non si è contribuito a creare e che, peraltro, va contro il proprio interesse!». Aggiunsi: «Non è vero che le leggi sono le condizioni con le quali uomini indipendenti e isolati si uniscono in società, stanchi di vivere in un continuo stato di guerra e di godere una libertà resa inutile dall’incertezza di conservarla, come diceva Beccaria. E vero invece che la legge ha utilizzato i sentimenti sociali dell’uomo per instillargli, con dei precetti morali che accettava, degli ordini utili alla minoranza degli sfruttatori, contro i quali recalcitrava. Essa ha pervertito il senso di giustizia, invece di svilupparlo4. È un sopruso, una violenza, una coartazione attraverso cui annientare la personalità. E illudersi che sia funzionale al bene comune è da sempliciotti buoni solo a fare danno a se stessi e agli altri.»

«L’uomo onesto rispetta sempre la legge!».

Manganello applaudì: «Bravo, non avrei potuto dirlo meglio!»

«Quindi se sono leale con gli altri, corretto, sincero, solidale, riconosco i loro diritti naturali non perché obbedisco a essa ma perché mi comporto da uomo, sono un disonesto?»

«Ahia!». Pottutto si morse un labbro.

«E poi chi stabilisce che io sia onesto se rispetto la legge?»

«Ma la legge, naturalmente!»

«La legge?»

«Anzi no, lo Stato!»

«Lo Stato?» lo incalzai. «Si rende conto di quello che sta dicendo? Si deve obbedire alla legge perché si deve. Ci avete presi per dei ritardati?»

«Si calmi Dopraho, così le viene un infarto!»

«E come posso calmarmi?»

«Ci penso io!». Pottutto ravanò nella tasca della giacca e tirò fuori una boccettina di valeriana.

«No grazie. Preferirei una canna!» lo traumatizzai. Però ripresi a parlare con tono più pacato: «Stato e legge non sono una necessità. Quando gli individui si associano per realizzare scopi condivisi in cui il bene personale si fonde con quello collettivo perché svincolato dal profitto, raggiungono spontaneamente l’armonia attraverso la sintesi delle singole volontà. Non serve altro! Senza dominio gli uomini si uniscono, si organizzano, si associano, si rimboccano le maniche per affrontare e risolvere le incognite e le difficoltà quotidiane attraverso una sinergia faccia a faccia, non competitiva, egualitaria, autonoma e responsabile. Come sempre accade quando lo Stato è assente. Pensate ai giorni che seguono una calamità naturale o una tragedia, oppure a quanto avvenne dopo l’Armistizio dell’8 settembre del 1943?»

«Nel 1943 mica ero nato!»

«Ha detto pensate!». Pottutto redarguì il maresciallo.

«Non c’era governo e non c’erano istituzioni eppure le persone tiravano avanti, i servizi funzionavano, le relazioni si solidificavano e tutti si aiutavano per garantirsi il cibo, i vestiti, le necessità primarie. Laddove non c’è accumulazione, l’obiettivo è sempre godere della vita in una società di liberi fra uguali

«E questa non è utopia?»

«Questo è essere padroni di se stessi. Ma mi ascolta o sta qui solo perché le hanno detto di starci?»

 

NOTE

 

– 1  citato in Hermann Amborn, Il diritto anarchico dei popoli senza stato, ivi.

– 2  Dredd, La legge sono io, film del 1995.

– 3  H. D. Thoreau, Disobbedienza Civile, 1849.

– 4  P. Kropotkin, La morale anarchica, ivi.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Disegno di Albrecht Durer, Giovane Lepre, 1502