39 – RIBELLIONE: LA DISOBBEDIENZA CIVILE
«E comunque non ha senso fare la rivoluzione. La democrazia ha dato a tutti una casa, un lavoro, strutture sanitarie dove curarsi, soldi da spendere come pare e piace…» rilevò il pubblico ministero.
«In effetti le persone preferiscono stordirsi con ciò che offre piuttosto che guardare in faccia la realtà. Ma ogni tanto qualcuno si sveglia e la sua irruenza è entusiasmante. In questi casi, più che di rivoluzione dobbiamo parlare di ribellione» dissi. «La rivoluzione origina da una necessità collettiva, come può essere reagire alla miseria. L’assalto alla Bastiglia avvenne perché il popolo aveva fame, non per abbattere la monarchia o per eliminare l’aristocrazia. Ma ogni rivoluzionario sarà sempre un reazionario perché impone nuovi idoli. La ribellione, invece, è uno stato d’animo che consiste nella resistenza a un’ingiustizia. Dalla violazione dell’armonia naturale segue una reazione spontanea, almeno inizialmente non premeditata e organizzata, difensiva o reattiva. Per questo il ribelle è sempre pronto ad agire: viola leggi che ritiene inique, scappa dalla famiglia oppressiva, incrocia le braccia davanti al sistema che lo sfrutta e così via fino al suicidio, il più potente e radicale atto di libertà individuale.»
«Aspetti!» Pottutto mi fermò. «Questa non l’ho capita!»
«Non c’è niente da capire».
«Non sarà favorevole al suicidio?»
«Non credo sia il momento di…»
«Le hanno mai detto che la vita è sacra?»
«Mi perdoni, ma sbaglia aggettivo. La vita non è sacra, è mia. È l’unica cosa di cui sono proprietario per natura. E di come ne dispongo non devo dare conto a nessuno!»
«Dimentica che siamo un esempio per i giovani… per gli altri!».
Sospirai. «Bell’esempio che siete, allora!». Sorrisi. «Nessuno deve imitare nessuno: la personalità si forgia con l’esperienza. L’emulazione non è ispirazione, ma conformismo. E il conformismo è tirannia». Aggiunsi: «L’esaltazione della vita in sé per sé è l’ennesima idea fissa da cui liberarsi per essere padroni di se stessi. Il corpo è uno strumento, mentre la volontà nasce, cresce, si dissolve nell’eterno divenire. Il puro non teme la morte perché non teme la propria natura.»
«E se le dico che la vita è un dono?»
«Un dono di chi? Di Dio? Dei genitori? Dello Stato? Donare significa dare senza niente in cambio. Qui invece tutti pretendono!»
«Eretico!» ragliò Manganello.
«È della Sacra Inquisizione?»
«Sevizia è molto più raffinato!».
Evitai di proseguire su quel crinale e tornai alla ribellione: «Quale reazione etica a un atto o a una condotta ingiusta, essa è il momento in cui il pensiero diventa azione. La ribellione ci porta a non lasciarci più organizzare, ma a organizzarci come vogliamo diceva Stirner. L’iniziato-refrattario si trova improvvisamente solo, fragile, ma è vivo e reattivo. Decidete di non servire più e sarete liberi sanciva Etienne De La Boétie per sottendere come la scelta fosse individuale. E consiste nel decidere di distruggere l’autorità in un antagonismo incessante fra potere e libertà, parafrasando Foucault.»
«Questo Focolle è un altro dei suoi amici?» chiese Manganello.
«È un filosofo.»
«Anche lui? Ma qualcuno che lavori?»
«L’autonomia si conquista con una reazione che assume i connotati della resistenza. Dal latino resistentia: fermare respingendo qualcuno o qualcosa. Essa può essere attiva, cioè di contrasto, o passiva, come opposizione e non collaborazione. Sempre è disobbedienza: rifiuto e reagisco non accettando, non collaborando, non obbedendo al dominio. Disobbedienza che Bernard Shaw definiva la più rara e coraggiosa delle virtù.»
«Molto didascalico!»
«La forma classica è la disobbedienza civile. Consiste in una protesta, di solito non violenta, in reazione a un atto, fatto, decreto ingiusto. Lo Stato mi dice di pagare le tasse? Io non le pago perché non voglio contribuire al suo malaffare. Lo Stato mi ordina di fare la guerra? Io divento disertore perché uccidere è contro natura. Lo Stato mi impone il consumismo per favorire banche e capitale? Io sviluppo un’economia sostanziale con persone che la pensano come me. E così via. Thoreau sosteneva che essa nasce da una domanda: come deve comportarsi un uomo oggi nei confronti di questo governo? Si riferiva a quello degli Stati Uniti che imponeva i tributi per sostenere le guerre o la schiavitù, ma l’interrogativo vale sempre e per tutto. E rispondeva asserendo che il cittadino non può obbedire quando ciò gli reca disonore: tutti gli uomini riconoscono il diritto alla rivoluzione, cioè il diritto a rifiutare l’obbedienza, e di opporre resistenza a un governo, nel caso in cui la sua tirannia o la sua inefficienza siano gravi e intollerabili. Quindi ogni volta in cui il Potere è ingiusto è giusto non obbedire.»
«Ma lo Stato non sta certo a guardare!»
«Infatti, se nego l’autorità dello Stato, entro breve esso si prenderà e distruggerà tutti i miei beni tormentando in tal modo me e i miei figli all’infinito, asserisce ancora il filosofo americano. Tuttavia, aggiunge: mi costa meno, in ogni senso, incorrere nella pena precisa per la disobbedienza allo Stato, di quanto mi costerebbe obbedire. In questo caso mi sentirei come se valessi di meno. Ecco perché: desidero semplicemente rifiutare obbedienza allo Stato, ritirarmi e starne completamente alla larga.»
«Perché è emigrato all’estero?».
Sollevai uno sguardo sfatto: «Significa che è più dignitoso disobbedire che essere complice. Ma significa anche che la disobbedienza non si realizza con lo scontro frontale col Potere, ma vivendone alla larga. Agendo come se non esistesse. Ignorandolo.»
«Mi pare che il suo amico trascuri un’evidenza e cioè che lo Stato deve fare lo Stato e i cittadini devono fare i cittadini!»
«Ma i cittadini sono individui. Possono decidere per se stessi senza dover obbedire a leggi che li danneggiano, fatte da uomini che disprezzano, per un’autorità che non riconoscono!»
«Chiacchiere!». Il PM sbottò. «Sa meglio di me che le persone sono bastarde. Qualcuno dovrà pur impedire la loro bastarditudine!»
«Bastarditudine?» farfugliai. «La bastarditudine, come la chiama lei, si fonda sull’ideologia del dominio in cui il più forte domina il più debole per conseguire un interesse. Per questo l’anarchia nega la proprietà e la conseguente accumulazione. Esse sono l’antefatto di ogni male e soltanto un uomo libero dalla materialità può essere se stesso senza bisogno di sopraffare il prossimo e il mondo. Ribadisco: il cambiamento è culturale prima ancora che pratico!»
«Pensavo più ai serial killer!»
«La disubbidienza deve essere etica, mai utilitaristica. Chi non rompe le catene si rende complice dell’ingiustizia1. Non basta quindi ribellarsi all’iniquità, bisogna negare la causa. Se mi oppongo al capitalismo senza rifiutare l’ideologia del profitto i miei sforzi verranno dissolti dall’omologazione collettiva e inevitabilmente tornerò a essere un suo ingranaggio. Allo stesso modo, se violo la norma ma non rifiuto lo Stato, cioè non creo un sistema alternativo a esso, dopo aver trasgredito una volta dovrò farlo ancora e ancora e così all’infinito. È inutile tagliare le teste dell’Idra quando so che si rigenerano! La disobbedienza nelle sue infinite forme deve pertanto essere accompagnata da una vita fuori di esso, come diceva Tolstoj.»
«Dopraho, se arrivasse al punto magari…!»
«Ci sono!» dissi. «L’obiettivo è sviluppare nuove federazioni libere con caratteristiche diverse da quelle degli antichi Stati fondati sulla coercizione, che gradualmente esautorino il Potere. E la comunità anarchica, garanzia di orizzontalità, comunione e solidarietà, è l’unico strumento che consente di astenersi dall’opera del governo2 senza aggredire e combattere, ma reagendo con un’alternativa concreta che eroda risorse, strutture, potenzialità alla sua tirannia. A quel punto esso sarà un castello di carta e basterà un soffio perché si…»
«Ha finito?». Pottutto mi interruppe.
«No!» gli risposi.
NOTE
– 1 H. D. Thoureau, Disubbidienza civile, ivi.
– 2 Lev Tolstoj, Il rifiuto di obbedire, ivi.
Editing a cura di Costanza Ghezzi
Immagine: Edvard Munch, Amore e psiche, 1097