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39 – RIBELLIONE: LA DISOBBEDIENZA CIVILE

 

 

«E comunque non ha senso fare la rivoluzione. La democrazia ha dato a tutti una casa, un lavoro, strutture sanitarie dove curarsi, soldi da spendere come pare e piace…» rilevò il pubblico ministero.

«In effetti le persone preferiscono stordirsi con ciò che offre piuttosto che guardare in faccia la realtà. Ma ogni tanto qualcuno si sveglia e la sua irruenza è entusiasmante. In questi casi, più che di rivoluzione dobbiamo parlare di ribellione» dissi. «La rivoluzione origina da una necessità collettiva, come può essere reagire alla miseria. L’assalto alla Bastiglia avvenne perché il popolo aveva fame, non per abbattere la monarchia o per eliminare l’aristocrazia. Ma ogni rivoluzionario sarà sempre un reazionario perché impone nuovi idoli. La ribellione, invece, è uno stato d’animo che consiste nella resistenza a un’ingiustizia. Dalla violazione dell’armonia naturale segue una reazione spontanea, almeno inizialmente non premeditata e organizzata, difensiva o reattiva. Per questo il ribelle è sempre pronto ad agire: viola leggi che ritiene inique, scappa dalla famiglia oppressiva, incrocia le braccia davanti al sistema che lo sfrutta e così via fino al suicidio, il più potente e radicale atto di libertà individuale.»

«Aspetti!» Pottutto mi fermò. «Questa non l’ho capita!»

«Non c’è niente da capire».

«Non sarà favorevole al suicidio

«Non credo sia il momento di…»

«Le hanno mai detto che la vita è sacra?»

«Mi perdoni, ma sbaglia aggettivo. La vita non è sacra, è mia. È l’unica cosa di cui sono proprietario per natura. E di come ne dispongo non devo dare conto a nessuno!»

«Dimentica che siamo un esempio per i giovani… per gli altri!».

Sospirai. «Bell’esempio che siete, allora!». Sorrisi. «Nessuno deve imitare nessuno: la personalità si forgia con l’esperienza. L’emulazione non è ispirazione, ma conformismo. E il conformismo è tirannia». Aggiunsi: «L’esaltazione della vita in sé per sé è l’ennesima idea fissa da cui liberarsi per essere padroni di se stessi. Il corpo è uno strumento, mentre la volontà nasce, cresce, si dissolve nell’eterno divenire. Il puro non teme la morte perché non teme la propria natura.»

«E se le dico che la vita è un dono?»

«Un dono di chi? Di Dio? Dei genitori? Dello Stato? Donare significa dare senza niente in cambio. Qui invece tutti pretendono!»

«Eretico!» ragliò Manganello.

«È della Sacra Inquisizione?»

«Sevizia è molto più raffinato!».

Evitai di proseguire su quel crinale e tornai alla ribellione: «Quale reazione etica a un atto o a una condotta ingiusta, essa è il momento in cui il pensiero diventa azione. La ribellione ci porta a non lasciarci più organizzare, ma a organizzarci come vogliamo diceva Stirner. L’iniziato-refrattario si trova improvvisamente solo, fragile, ma è vivo e reattivo. Decidete di non servire più e sarete liberi sanciva Etienne De La Boétie per sottendere come la scelta fosse individuale. E consiste nel decidere di distruggere l’autorità in un antagonismo incessante fra potere e libertà, parafrasando Foucault.»

«Questo Focolle è un altro dei suoi amici?» chiese Manganello.

«È un filosofo.»

«Anche lui? Ma qualcuno che lavori?»

«L’autonomia si conquista con una reazione che assume i connotati della resistenza. Dal latino resistentia: fermare respingendo qualcuno o qualcosa. Essa può essere attiva, cioè di contrasto, o passiva, come opposizione e non collaborazione. Sempre è disobbedienza: rifiuto e reagisco non accettando, non collaborando, non obbedendo al dominio. Disobbedienza che Bernard Shaw definiva la più rara e coraggiosa delle virtù

«Molto didascalico!»

«La forma classica è la disobbedienza civile. Consiste in una protesta, di solito non violenta, in reazione a un atto, fatto, decreto ingiusto. Lo Stato mi dice di pagare le tasse? Io non le pago perché non voglio contribuire al suo malaffare. Lo Stato mi ordina di fare la guerra? Io divento disertore perché uccidere è contro natura. Lo Stato mi impone il consumismo per favorire banche e capitale? Io sviluppo un’economia sostanziale con persone che la pensano come me. E così via. Thoreau sosteneva che essa nasce da una domanda: come deve comportarsi un uomo oggi nei confronti di questo governo? Si riferiva a quello degli Stati Uniti che imponeva i tributi per sostenere le guerre o la schiavitù, ma l’interrogativo vale sempre e per tutto. E rispondeva asserendo che il cittadino non può obbedire quando ciò gli reca disonore: tutti gli uomini riconoscono il diritto alla rivoluzione, cioè il diritto a rifiutare l’obbedienza, e di opporre resistenza a un governo, nel caso in cui la sua tirannia o la sua inefficienza siano gravi e intollerabili. Quindi ogni volta in cui il Potere è ingiusto è giusto non obbedire

«Ma lo Stato non sta certo a guardare!»

«Infatti, se nego l’autorità dello Stato, entro breve esso si prenderà e distruggerà tutti i miei beni tormentando in tal modo me e i miei figli all’infinito, asserisce ancora il filosofo americano. Tuttavia, aggiunge: mi costa meno, in ogni senso, incorrere nella pena precisa per la disobbedienza allo Stato, di quanto mi costerebbe obbedire. In questo caso mi sentirei come se valessi di meno. Ecco perché: desidero semplicemente rifiutare obbedienza allo Stato, ritirarmi e starne completamente alla larga.»

«Perché è emigrato all’estero?».

Sollevai uno sguardo sfatto: «Significa che è più dignitoso disobbedire che essere complice. Ma significa anche che la disobbedienza non si realizza con lo scontro frontale col Potere, ma vivendone alla larga. Agendo come se non esistesse. Ignorandolo.»

«Mi pare che il suo amico trascuri un’evidenza e cioè che lo Stato deve fare lo Stato e i cittadini devono fare i cittadini!»

«Ma i cittadini sono individui. Possono decidere per se stessi senza dover obbedire a leggi che li danneggiano, fatte da uomini che disprezzano, per un’autorità che non riconoscono!»

«Chiacchiere!». Il PM sbottò. «Sa meglio di me che le persone sono bastarde. Qualcuno dovrà pur impedire la loro bastarditudine!»

«Bastarditudine?» farfugliai. «La bastarditudine, come la chiama lei, si fonda sull’ideologia del dominio in cui il più forte domina il più debole per conseguire un interesse. Per questo l’anarchia nega la proprietà e la conseguente accumulazione. Esse sono l’antefatto di ogni male e soltanto un uomo libero dalla materialità può essere se stesso senza bisogno di sopraffare il prossimo e il mondo. Ribadisco: il cambiamento è culturale prima ancora che pratico!»

«Pensavo più ai serial killer!»

«La disubbidienza deve essere etica, mai utilitaristica. Chi non rompe le catene si rende complice dell’ingiustizia1. Non basta quindi ribellarsi all’iniquità, bisogna negare la causa. Se mi oppongo al capitalismo senza rifiutare l’ideologia del profitto i miei sforzi verranno dissolti dall’omologazione collettiva e inevitabilmente tornerò a essere un suo ingranaggio. Allo stesso modo, se violo la norma ma non rifiuto lo Stato, cioè non creo un sistema alternativo a esso, dopo aver trasgredito una volta dovrò farlo ancora e ancora e così all’infinito. È inutile tagliare le teste dell’Idra quando so che si rigenerano! La disobbedienza nelle sue infinite forme deve pertanto essere accompagnata da una vita fuori di esso, come diceva Tolstoj.»

«Dopraho, se arrivasse al punto magari…!»

«Ci sono!» dissi. «L’obiettivo è sviluppare nuove federazioni libere con caratteristiche diverse da quelle degli antichi Stati fondati sulla coercizione, che gradualmente esautorino il Potere. E la comunità anarchica, garanzia di orizzontalità, comunione e solidarietà, è l’unico strumento che consente di astenersi dall’opera del governo2 senza aggredire e combattere, ma reagendo con un’alternativa concreta che eroda risorse, strutture, potenzialità alla sua tirannia. A quel punto esso sarà un castello di carta e basterà un soffio perché si…»

«Ha finito?». Pottutto mi interruppe.

«No!» gli risposi.

 

NOTE

 

– 1 H. D. Thoureau, Disubbidienza civile, ivi.

– 2 Lev Tolstoj, Il rifiuto di obbedire, ivi.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Immagine: Edvard Munch, Amore e psiche, 1097

33- LA PROPRIETÀ È IL PRESUPPOSTO DEL DOMINIO

«Adesso voglio un nome!» ululò Pottutto, manipolando vigorosamente la pallina di pongo.

«Funziona?» sviai.

«Cosa?»

«La pallina. Funziona davvero o lo fa soltanto per…?»

«Certo che… vuole provarla?»

«Era solo così, per curiosità!»

«Tanto non gliela davo!». Appoggiò l’orologio sul tavolo: «Ha cinque minuti. Dopo di che, se non mi dà un nome, qui si chiude!»

«E Sevizia?» borbottò Manganello deluso.

Ne approfittai: «Nella società del dominio, il più forte comanda, il più debole obbedisce. Anche in natura sono presenti organizzazioni asimmetriche e rapporti di supremazia, mai però l’autorità si manifesta attraverso condotte sfruttatrici, annientatrici, funzionali a un meschino scopo privato. Quando il capobranco sottomette il più debole agisce nell’interesse del gruppo, non per un fine egoistico.»

«E allora cos’è che favorisce l’instaurarsi della gerarchia?»

«Finalmente una bella domanda!»

«Grazie!»

«Dopo tre ore che sto qui…!» sottolineai. «La risposta è una: il tornaconto personale. Il profitto, cioè l’utile economico, è causa di ogni male umano. È un morbo che infetta le menti inducendole a giustificare gli atti più vili, repellenti, scellerati, devastanti perpetrati nei confronti di chiunque e di qualunque cosa ne ostacoli il perseguimento. Profitto che consiste nell’accumulare beni non necessari, che producono altri beni non necessari, l’insieme dei quali forgia l’autorità. E tanto maggiore è l’autorità, tanto il potere si trasforma in arbitrio. Arbitrio che esiste da quando l’uomo ha smesso di vivere in simbiosi con l’ambiente, non accontentandosi più di soddisfare i bisogni primari ed è legittimato dalla legge, positiva o divina che sia, nell’interesse dei Grandi Affari1 e indottrinato come principio supremo con l’etica del lavoro, della competizione, dell’affarismo, del consumo compulsivo e di tutta la propaganda che riduce l’esistenza a una triste finzione.»

«Esagerato!». Pottutto si spazientì.

«E se il profitto è causa del dominio, qual è il presupposto del profitto?» chiesi.

«Il dominio!» tuonò il maresciallo.

«Ha detto che quella è la causa!», lo corresse il magistrato.

«La proprietà è il presupposto del profitto» proferii. «Senza proprietà, cioè senza la disponibilità di beni che lo generano, esso non esisterebbe. Ma come è nata la proprietà?»

«E basta con le domande. Mica siamo a Lascia o Raddoppia.2»

«È semplice: secondo Rousseau – cito lui non perché le sue valutazioni siano antropologicamente le più approfondite ma perché fornisce un’immagine immediata e comprensibile a tutti – è bastato che qualcuno avendo attorniato di siepi un terreno, pensò di dire: questo è mio e che trovò persone tanto semplici per crederlo. A quel punto colui che possedeva, non contento di imperare nel suo territorio, temendo aggressioni esterne perché la potestà come si conquista con la forza, con la forza si può perdere, creò un potere supremo che garantisse ai proprietari l’eterna concordia: lo Stato3. Le rivoluzioni industriali ne hanno accresciuto l’autorevolezza, le guerre mondiali l’hanno cristallizzata. Dalla seconda metà del Novecento lo sviluppo tecnologico l’ha moltiplicata nelle infinite espressioni del dominio tecno-scientifico, lasciando al Leviatano l’esclusività di essere il braccio armato a protezione del sistema. Abbiamo cominciato col dominare la terra attraverso l’agricoltura, in cui abbiamo reso la natura un qualcosa da sfruttare, abbiamo proseguito dominando gli animali con l’allevamento, abbiamo strutturato una società patriarcale fino al dominio di tutti contro tutti attraverso la schiavitù, il lavoro salariato, la massificazione. Ormai siamo gli anonimi ingranaggi di una Megamacchina mangiatutto, di cui il capitalismo è solo l’ultima fase della civilizzazione4, seppur con altre parole conferma John Zerdan.»

«Arrivi al dunque!»

«Attraverso la proprietà l’uomo compensa l’inquietudine provocata dalla propria natura mortale: in essa si identifica e grazie a essa si sente eterno. Dimenticando però ciò che è, ovverosia un animale con un quoziente intellettivo appena superiore agli altri. Con la conseguenza che la sua ingordigia, il suo bisogno di onnipotenza, si materializza nel capitalismo, oggi tecnocrazia, o se preferite scientocrazia, il più nocivo assetto sociale emerso nel corso della storia

«A me piace il capitalismo!». Manganello gongolò.

«Non avevo dubbi!» replicai.

«Penso che stia enfatizzando!» miagolò invece Pottutto. «Il ricco è sempre esistito e ha sempre fatto quello che gli è parso!»

«Ẻ quello che ho detto. Perché sacralizzando la proprietà, egli possiede l’autorità e i mezzi per esercitare la sua supremazia. Dal padre padrone al capo ufficio che sfrutta i collaboratori, al latifondista che sfrutta la manovalanza, all’imprenditore che sfrutta l’operaio, al governo che sfrutta il popolo, il potere origina sempre da un’autorità innanzi tutto economica. Chi è saggio la pratica nel rispetto della dignità reciproca, chi è sfrontato e arrogante si chiama tiranno. E se una volta annientava i dissidenti, oggi ottiene il consenso mediante gli infiniti mezzi di manipolazione emotiva come l’illusione del benessere, l’induzione all’obbedienza consumistica, la devozione allo scibile e quant’altro conformi alla sua necessità elidendo la capacità critica personale. Il paradosso infatti è che con il capitalismo l’oppresso si illude di non soffrire più il giogo perché ne è partecipe. Orgogliosamente mantiene e sviluppa ricchezza di cui non godrà mai, estorto dalle banche, ingannato dalle multinazionali, alimentando la tecnoburocrazia5, vivendo nella nevrotica normalità di professioni detestate, di relazioni opprimenti, di competizione e di avidità, di conformismo mentale e comportamentale…»

«E che è, l’Armageddon?» mi dileggiò Pottutto. «A me questo sembra solo libero mercato!»

«Il problema non è il mercato ma la servitù volontaria. L’apatia è connivenza. Le persone si scandalizzano quando i fiumi esondano, si commuovono quando vedono in tv un bambino che raccogliere coltan, si disperano quando ettari di boschi bruciano, eppure nessuno rinuncia ai propri capricci. Vivono in un sogno surreale e non vogliono svegliarsi per scoprire cosa hanno contribuito a provocare!»

«Parla dei disastri naturali? Ma se oggi l’industria fornisce una miriade di soluzioni ecosostenibili?»

«Tipo?»

«Le auto elettriche.»

«Certo, certo!» replicai caustico. «Di cosa sono fatte le batterie?»

«Non saprei. Sono un PM, non un batterista!»

«E come si smaltiscono?»

«Nemmeno uno smaltitore!»

«La verità è che l’economia ecosostenibile è un altro imbroglio con cui fregare i sempliciotti. Ha ragione Enrico Manicardi quando afferma che: si parla di tecnologia verde, tecnologia ecologica, di tecnologia a basso impatto ambientale. Ma la tecnologia non può mai essere verde, né ecologica, né a basso impatto ambientale: per avere oggetti tecnologici, infatti, bisogna produrli, e per produrli si debbono sventrare montagne, depredare fiumi, disboscare foreste, inquinare l’ambiente. Inoltre, ci vogliono fabbriche e miniere per realizzarli, perché gli oggetti tecnologici sono composti da silicio, terre rare, coltan, alluminio… conseguentemente, ci vogliono persone che vi lavorino. E siccome nessuna persona al mondo troverebbe piacevole lavorare 16-18 ore al giorno, tutti i giorni, nelle profondità buie e insalubri di una miniera, per poter consentire agli altri di avere un bel telefonino o un sistema cruise control nell’automobile, ne consegue che per avere oggetti tecnologici occorre costringere migliaia di persone a fare quello che nessuno vorrebbe fare.6 Altro che eco-sostenibilità!»

«Non mi sono mai comprato un telefonino in vita mia!» mugugnò Manganello.

«Ci credo, usa quelli confiscati!» sghignazzò Pottutto. «Ho capito il concetto!», rivolto a me. «Ma siamo a quattro minuti e non vedo la fine.»

«Quindi ne manca ancora uno!» replicai. «Il dominio ha ormai incorporato tutte le patologie sociali: patriarcato, sfruttamento, statualità, egoismo, militarismo, crescita illimitata che hanno afflitto la civiltà e inquinato tutte le sue conquiste7. Dobbiamo reagire! La radice è l’uomo, qui e non altrove, adesso e non più tardi8. Questo deve essere il punto da cui ricominciare. Che sia la guerriglia e insurrezione di Hakim Bey9, o la costruzione di comunità alternative, non è possibile rimanere inerti. Come diceva Debord: per distruggere definitivamente la società dello spettacolo occorrono uomini che mettano in azione una forza pratica10: noi anarchici la chiamiamo la lotta

«Le mancano pochi secondi!»

«Se vogliamo un mondo nuovo e diverso, un mondo in cui l’individuo non sia un rapace pubblico, se non ha timore, essendo potente; o avaro e insidioso e ipocrita se è impotente11, il primo passo è eliminare la proprietà, causa suprema di ogni devianza umana.»

«Mi ha fatto venire l’ansia!» sbottò il PM.

«Allora cambio argomento!» dissi.

«Ottimo! E di cosa ci parla?»

«Ma della proprietà, naturalmente!»

La penna che Pottutto teneva in bocca cadde sul tavolo.

 

NOTE

 

– 1 Espressione di Carlos Minghella, Piccolo Manuale di Guerriglia Urbana, Amazon, 1969.

– 2 Lascia o Raddoppia?, quiz televisivo condotto da Mike Bongiorno andato in onda dal 1955 al 1959.

– 3 Jean Jacques Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti della ineguaglianza fra gli uomini, 1755.

– 4 John Zerdan, Enrico Manicardi, Nostra nemica civiltà, ivi.

– 5 Espressione coniata da Amedeo Bertolo.

– 6 Enrico Manicardi, Nostra nemica civiltà, ivi.

– 7 Murray Bookchin, Per una società ecologica, Eleuthera, 1976

– 8 Dwight Macdonald, The Root is man, 1953.

– 9 Hakim Bey, Millennium, 1997.

– 10 Guy Debord, 1931, fra i fondatori dell’Internazionale Situazionista.

– 11 Tommaso Campanella, La città del sole, 1602.

Editing a cura di Costanza Ghezzi.

Immagine: A. Modigliani, Nudo sdraiato, 1917.

 

 

31 – LA POLIZIA

 

«Se il governo impone la volontà del Potere attraverso la legge, le forze dell’ordine e i magistrati ne garantiscono l’attuazione. Sui magistrati non ho molto da dire». Guardai Pottutto. «Sono burocrati e ho grande fiducia nella burocrazia, forse l’ultima speranza perché lo Stato imploda!». Poi guardai Manganello: «Il compito della polizia, invece, è di proteggere il sistema mantenendo l’ordine e la disciplina grazie alla capacità persuasiva dei lustrini e dei manganelli. Potrei dire che sono bravi tutti a farlo con la violenza, ma… Sto parlando di voi!» richiamai l’attenzione del maresciallo.

«Mi dia pure del lei!» replicò uno sguardo sfatto.

Con un’occhiata il pubblico ministero mi invitò a ignorarlo.

«A proposito delle forze dell’ordine… conoscete la Canzone di Maggio?»

«Chi è questo Maggio?». Manganello con tono inquisitorio.

«La canzone è di Fabrizio De André e s’intitola Canzone di Maggio.»

«Mica la canterà?»

«La leggiamo insieme». Indicai al PM la pila di fogli. Può trovarla nell’articolo del 1.11.23».

Gli diede una scorsa annoiata: «Sembra una poesia!»

«Come tutte le sue opere!»

Lessi:

 

Anche se il nostro maggio

Ha fatto a meno del vostro coraggio

Se la paura di guardare

Vi ha fatto chinare il mento

Se il fuoco ha risparmiato

Le vostre Millecento

Anche se voi vi credete assolti

Siete lo stesso coinvolti

 

E se vi siete detti

Non sta succedendo niente

Le fabbriche riapriranno

Arresteranno qualche studente

Convinti che fosse un gioco

A cui avremmo giocato poco

Provate pure a credervi assolti

Siete lo stesso coinvolti

 

Anche se avete chiuso

Le vostre porte sul nostro muso

La notte che le pantere

Ci mordevano il sedere

Lasciandoci in buonafede

Massacrare sui marciapiedi

Anche se ora ve ne fregate

Voi quella notte, voi c’eravate

 

E se nei vostri quartieri

Tutto è rimasto come ieri

Senza le barricate

Senza feriti, senza granate

Se avete preso per buone

Le verità della televisione

Anche se allora vi siete assolti

Siete lo stesso coinvolti

 

E se credete ora

Che tutto sia come prima

Perché avete votato ancora

La sicurezza, la disciplina

Convinti di allontanare

La paura di cambiare

Verremo ancora alle vostre porte

E grideremo ancora più forte

Per quanto voi vi crediate assolti

Siete per sempre coinvolti

Per quanto voi vi crediate assolti

Siete per sempre coinvolti. 1»

 

Appoggiai il foglio alla pila. «Beh, che ve ne pare?» chiesi.

«Un po’ lunghetta!» gorgogliò Manganello.

«Bella la rima maggio-coraggio all’inizio!» disse contrito Pottutto.

«Vi è piaciuta o no?»

«Anche Le Mille Bolle Blu di Mina, però, se non è cantata sembra una str…!2» il PM non concluse.

«La Canzone di Maggio esprime un sentimento di rabbia mista a malinconia verso tutti coloro che chinano il mento consentendo al Potere di consolidarsi. Al tempo stesso Faber non rinuncia alla speranza: voi non potete fermare il vento, dice. La sua poetica è una continua dialettica fra consapevolezza amara e slanci fiduciosi…»

«Sì, ma che c’azzecca con quello che stavamo dicendo?»

«Le canzoni di De André rappresentano la colonna sonora delle speranze represse dalla violenza dell’Autorità. Violenza con cui aggredisce i manifestanti, violenza con cui tace i ribelli, violenza con cui protegge i più forti.» E ancora rivolto a Manganello: «Non ve ne faccio una colpa. Ce l’avete nel sangue di temere la libertà degli altri. La reprimete perché ogni pensiero che essa conquista, ogni spazio in cui si diffonde, ogni cambiamento che essa agogna, è una sottrazione della vostra autorevolezza» dissi. «Ricordo d’aver letto da qualche parte, mi sembra nel libro Educazione Siberiana di Lilin3, un concetto che condivido. E cioè che vi distinguete dal resto delle persone perché siete gli unici a vivere orgogliosamente come servitori. Simultaneamente, però, questo vi impedisce di capire cosa sia la libertà e odiate chi la professa. Ciò vi crea ansia, frustrazione, stordimento, gelosia…»

«Ora vado a chiamare l’agente Sevizia, gliela faccio venire io l’ansia!» grugnì Manganello.

«Lasci perdere!» lo fermò Pottutto.

«Non mi faccio prendere in giro da un anarchico!»

«Mi perdoni maresciallo, ma queste cose le ho dette da cittadino!» precisai.

«E noi pubblici ministeri, invece, come siamo?» Pottutto protese il collo.

«Voi pubblici ministeri?»

«Noi pubblici ministeri, sì!»

«Uguali» dissi. «Senza divisa, però!»

«Vada a chiamare il suo collega!» ordinò il PM a Manganello.

«Suvvia, non fate i permalosi!» li fermai. E cercai nella pila di fogli quello che mi interessava: «La polizia detiene il monopolio della violenza, perché ridefinisce le norme della propria azione e, appellandosi alla sicurezza, accresce la propria pretesa sulla vita dei singoli. La sua sovranità violenta è tanto inafferrabile quanto spettrale». Saltai qualche riga: «Proprio perciò le sue violenze non sono anomalie, ma rivelano piuttosto il fondo oscuro di questa istituzione. Sono come istantanee che la colgono mentre acquista spazio, acquisisce poteri sui corpi, esamina e sperimenta una nuova legalità, ridefinisce i limiti del potere. Un monopolio della violenza interpretativa che ridefinisce le norme della propria azione e, appellandosi alla sicurezza, accresce la propria pretesa sulla vita dei singoli4… Non credo ci sia bisogno di ulteriori spiegazioni!»

«Ottimo» disse Manganello. «Allora non le dia!»

«Solo un pensierino della buona notte: diceva Malatesta che governo significa diritto di fare la legge e imporla a tutti con la forza. Senza forza di polizia non c’è la forza… Rifletteteci sotto le coperte!»

«Capito Manganello?». Il PM al maresciallo. «Poi domani mi fa sapere!»

«Dotto’» questi si gonfiò come un palloncino. «Ma io la notte dormo!»

 

NOTE

 

– 1 Fabrizio De André, Canzone del maggio, 1973.

– 2 Mina, Le mille bolle blu, 1961.

– 3 Nicolai Lilin, Educazione siberiana, Einaudi, 2013.

– 4 Donatella Di Cesare, Il tempo della rivolta, Bollati Boringhieri, 2020.

Editing a cura di Costanza Ghezzi

Disegno di Salvator Rosa, Teschio che urla, 1640

 

 

 

N 13 – Riappropriarsi dell’umanesimo

«Okay, lo ammetto. Un po’ ridacchiavo!». E soprattutto non smettevo di farlo. Perché dopo aver immaginato il magistrato citare Proudhon, ho visto il procuratore capo…»

«Ma chi, il dottor Persecuzio?». Pottutto pigolò terrorizzato.

«Dov’è?». Manganello scattò in piedi e guardandosi intorno: «Quando l’ha visto?»

«Non l’ho visto. L’ho immaginato!»

«Perché?». Il PM in apnea. «Manganello, Dopraho sta impazzendo!»

«Non sono pazzo!»

«Infatti ho detto sta. Conosce l’italiano? Sta impazzendo: voce del verbo stare impazzendo!»

«Se non vi calmate, me ne vado!» gridai.

Fu sufficiente perché l’uno ritrovasse il suo equilibrio psicofisico manipolando la pallina di pongo e l’altro ricominciasse a disegnare sul foglio.

«E che faceva?»

«Persecuzio? Ma niente… la rimbrottava da dietro la scrivania, poi cominciava a rimpicciolirsi e rimpicciolirsi e rimpicciolirsi fino a diventare una specie di lillipuziano che lei schiacciava con la punta della scarpa. Al che lei si voltava, stringeva la mano a Serge Latouche e Michael Foucault, entrambi vestiti da paggetti, e se ne andava.»

«Allora mi prende in giro?» sbuffò il magistrato.

«Assolutamente!»

«Manganello, secondo lei mi sta prendendo in giro?».

Il commissario si arrotolò dietro l’orecchio un lembo di doppio mento: «Non saprei» disse. «Però l’agente scelto Sevizia lo farei venire lo stesso!»

«E cosa c’entra Persecuzio coi suoi amici Latorre e… Focollo?»

«Latouche e Foucault» lo corressi. «Ma niente… gliel’ho detto, la mente va per associazioni, connessioni, molto per i fatti suoi… Sa che Latouche è uno dei maggiori filosofi della decrescita?». Provai a cambiare discorso.

«Decrescita?… come Messi?1»

«Non proprio!» dissi scoraggiato. «La decrescita più che un difetto ormonale è un’economia che si limita a soddisfare i reali bisogni delle persone. E dell’anarchia dice che il suo obiettivo consiste nel condizionare le decisioni pubbliche, non nel prendere il potere. Fa l’esempio zapatista, un movimento politico e non elettivo…2 E Foucault, invece…». Mi fermai perché, sempre per quel discorso di associazioni, connessioni e così via, per un attimo desiderai esporre ai miei interlocutori la relazione fra le sue governamentalità miste e le teorie post-anarchiche di Todd May, Lewis Call, Saul Newman e tanti altri. Solo per un attimo. Quello dopo realizzai che non le avrebbero comprese neanche se avessi presentato delle mappe concettuali.

«Che è successo?» domandò il PM sorpreso dal mio improvviso incupimento.

Come se fossi stato catapultato davanti al Benefattore dello Stato Unico di Zamjatin3 e avessi dovuto spiegargli chi sono gli umani: «Vi ho detto che non condivido l’approccio collaborazionista del post-anarchismo?»

«No, eh? Sapesse noi!»

«Lo conosce?»

«Assolutamente. Ma già dal nome…!»

«Per farla breve: i pensatori post-anarchici sostengono che la società sia un reticolo di modelli che induce all’acquiescenza. L’unica possibilità di reagire al dominio è che l’azione del singolo crei una breccia di libertà che poi diventi principio condiviso che cambia il mondo.»

«E questa cosa non le piace?»

«Non è che non mi piace, trovo che insistere sulla suggestione dell’azione individuale che demolisce i muri sia alquanto retorica. I muri saltano in aria o si abbattono a picconate o franano da soli o, più sagacemente, si aggirano. Riconosco al post-anarchismo il merito di aver invalidato e abbandonato ogni fideismo nella legge morale per concentrarsi sul reale, cioè su condotte non dogmatiche ma funzionali a un determinato contesto: quello che Onfray chiama nominalismo4. Riconosco altresì che concetti come l’anarchia della quotidianità di Paul Goodman, gli atti di quotidiana resistenza di Scott, le rivoluzioni silenziose di Colin Ward offrono spunti interessanti alla coscienza e alla crescita del movimento anarchico. Dubito però, anzi sono certo, che la soluzione contro il dominio consista nello sviluppare monadi isolate prive di animus rivoluzionario.»

«Si appunti la parola monadi. Deve essere un termine in codice!» bisbigliò Pottutto a Manganello.

«Le monadi sono…». Lasciai perdere. «Quando leggo autori post anarchici, ho come la sensazione che abbiano interiorizzato l’irreversibilità. Il che, peraltro, è più che possibile dal momento che il capitalismo ha cristallizzato la cultura. Sperare che l’azione individuale cambi la realtà è illusorio quanto l’attesa del Gran Giorno. Senza considerare che la condotta isolata, anche quando parte da propositi meritori, spesso viene ingabbiata nel solipsismo, nella misantropia, nell’alienazione.»

«Non mi piacciono tutte queste parole straniere!» bisbigliò Manganello al PM.

«Gliel’ho detto maresciallo: sta parlando in codice per metterci alla prova.»

«Dice?»

«Dico, dico. Sorrida come se capisse!». Poi mi invitò a concludere.

«Concludendo, l’azione individuale è il punto di partenza, ma occorre superare il settarismo, riappropriarsi dell’umanesimo berneriano attraverso cui trasformare la consapevolezza di sé in condivisione sostanziale. Credo sia indispensabile tornare a parlare di umanità!».

Pottutto fece un’espressione da esticazzi!

Manganello scoppiò una risata tutta sputacchi e carne danzante.

«Forse è meglio se approfondisco l’argomento!»

«Anche no. Grazie!».

 

NOTE

1 – Lionel Messi, campione argentino da bambino affetto dalla Sindrome di Asperger, una malattia   ormonale che blocca la crescita.

2 – Serge Latouche, Stato e rivoluzione, in Aavv, L’anarchismo oggi un pensiero necessario, 2014.

3 – E. I. Zamjatin, Noi, Fanucci editore, 1921.

4 – Michel Onfray, Il post-anarchismo spiegato a mia nonna, edizioni Elèuthera, 2011.

Editing a cura di COstanza Ghezzi

Immagine: la Primavera di Botticelli 1480

 

12- L’anarchia non è un partito e non vuole governare

Il pubblico ministero guardò gli appunti sul libretto.

«Mi sono perso» disse. «Com’è che siamo passati a parlare della legge?»

«Mi aveva domandato quale fosse la nostra idea di giustizia e ho escluso che sia la legge e Dio.»

«Allora, vediamo di concludere!»

«Subito!» dissi. «Noi anarchici siamo convinti che qualunque condotta sia giusta se realizza la volontà personale in armonia con la volontà degli altri. Per questo vogliamo una società libera, egualitaria, orizzontale, in cui non sia possibile il dominio dell’uomo sull’uomo, della società sull’uomo, delle istituzioni sull’uomo.»

«E che c’entra lo Stato?»

«C’entra per due motivi: in primo luogo perché rappresenta la sublimazione della coercizione arbitraria. In secondo luogo, perché è la longa mano del Potere, cioè il mezzo attraverso il quale esso definisce e impone regole di condotta e convoglia la volontà collettiva in maniera da soddisfare gli interessi propri e di chi lo sostiene.»

«Quindi vorreste una società senza Stato per colpa di due leggiucole?» chiese Pottutto col tono di un vecchio amico. «Che esagerazione! Se il sistema non vi piace, create un partito e governate!»

«Ma chi, noi?»

«Di voi stiamo parlando!» disse Pottutto.

«Proprio di voi stiamo parlando!» gli fece eco il maresciallo. «Perché non governate se siete tanto bravi?».

Il PM lo guardò irritato: «lasci perdere le provocazioni maresciallo, che quando ci avete provato è sempre andata a schifio!»

«Non vorrei sembrare presuntuoso, ma l’anarchia non ha mai detto che vuole governare!» dissi.

«Ah, no? E che vuol fare, casino e basta?»

«Fate casino e basta, eh!» ripeté Manganello.

«Non siamo e non saremo mai un partito e non vogliamo o vorremo governare. Ho appena detto che ambiamo a una società senza dominio e lei mi invita a creare il nostro?».

Pottutto si incassò nelle spalle: «Potreste fare come quelli… come si chiamano quelli che anni fa volevano difendere le balene? Mi aiuti, Manganello!»

«Non so, dottore. Ho un po’ di confusione in testa!». Il doppio mento del maresciallo vibrò minacciosamente. «Balene, balene, balene…» ripeté. «Per caso voleva dire Pinocchio?»

«Che c’entra Pinocchio?»

«Quand’è stato mangiato dalla balena!»

«Gli ecologisti?» lo aiutai.

«Gli ecologisti, esatto!». Il PM batté le mani. «Se ne venivano fuori ora con le balene, ora gli orsi polari, ora con il nucleare… che poi, quante volte sarà scoppiato Chernobyl?». Allargò le braccia. «Dopo di che sono diventati un partito e…»

«E che fine hanno fatto?» chiesi. «Louise Michel affermava che: “Al potere gli uomini possono solo commettere delitti su delitti, senza distinzione di colore: basta che siano deboli ed egoisti. E anche se fossero devoti e forti, finirebbero comunque schiacciati”1. Questa è l’inevitabile realtà. Anche le persone più pure e idealiste, una volta entrate nei ranghi, vengono annientate!»

«È tutto un magna-magna!»

«E voi magnate?». Osservai prima l’uno poi l’altro. «Magnate, magnate!». Sorrisi. «Tolstoj rincarava la dose: chi si “unisce ai ranghi del governo” alla fine “diventa uno strumento nelle sue mani”.2»

«Il vecchio barbuto Tolstoj!». Pottutto sospirò ispirato.

«Ha letto i suoi libri?»

«Ci mancherebbe! Però ricordo la foto nel sussidiario… O era Socrate? O Marx? Sono tutti barbuti quei fanatici!».

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«Noi anarchici siamo contro i partiti e siamo contro ogni forma di governo. I partiti sono associazioni verticistiche di potere, dotati di organizzazione rigida e gerarchica. Di fatto l’antitesi della spontaneità di cui ci nutriamo. Quanto al governo, non avrebbe senso guidare il popolo dal momento che siamo i primi a non voler essere governati. Le persone non hanno bisogno di tutori, di custodi, di garanti, di responsabili, di politici che dicano cosa fare o, peggio ancora, che agiscano al posto loro. Sarebbe una contraddizione rispetto all’etica dell’autonomia. Se cedessimo alle tentazioni commetteremmo lo stesso errore di Andrea Costa, quando nel 1882 abbandonò l’Internazionalismo facendosi eleggere nel collegio di Ravenna. Voleva fare il riformista, mentre per molti fu solo un traditore.»

«Colgo dell’astio nelle sue parole!» rilevò il PM.

«Ma no!» mi difesi. «Forse!» cedetti. «Che non si confonda, però, la nostra avversione alle istituzioni col rifiuto aprioristico della politica. Aborriamo coloro che “cadono fatalmente al di sotto del livello generale”, credendosi “essi stessi superiori alla gente comune”, come Reclus definiva i galantuomini al governo, ma non la gestione della cosa pubblica. Essa è vitale e in quanto tale desiderabile. La concepiamo, però, non come un’imposizione verticistica, bensì come naturale sviluppo di relazioni attraverso cui ogni individuo partecipa personalmente e consapevolmente alla condivisione del bene comune. Oggi la politica “è il governo dello Stato”, diceva Bookchin…»

«Chi?»

«Buk-chin!» sillabai.

«È cinese?» domandò Manganello.

«Americano!» precisai.

«Ma di origine cinese?» insistette.

«Per il filosofo il governo “è professionismo” e “monopolio del potere da parte dei ricchi, non potere dei molti”. Dice anche che i politici, pur giurando di agire nell’interesse del popolo, “sono e diventano eletti formando in tal senso una precisa élite gerarchica” che “vuole obbedienza, non impegno”». Indicai la pila di fogli. «Lo trovate nelle pagine in cui spiego la sua teoria del municipalismo libertario e dell’ecologia sociale. Descrive esattamente il governo contro cui lottiamo. Perché, e riprendo ancora le sue parole, il senso di responsabilità verso la comunità nasce “da un’educazione politica formatasi nel corso di una partecipazione, non di un’obbedienza istituzionalizzata”3. Auspichiamo, infatti, un coinvolgimento diretto, orizzontale, che parta dal basso. Sbaglia chi ci definisce apolitici. Siamo antipolitici, ma nel senso che lottiamo contro la politica del dominio, della plutocrazia, della soggezione e dello sfruttamento. Perché una società funziona se edificata conoscendo il terreno, scavando solide fondamenta, con mura compatte e un tetto resistente alle intemperie. E soprattutto, se chi vi abiterà partecipa alla costruzione con entusiasmo. Immaginate che meraviglia sarebbe una casa costruita con le nostre mani, in cui lei, pubblico ministero…»

«Chi io?»

«Sì, lei!». Sorrisi. «In cui lei è orgoglioso del parquet che ha posto con tanta perizia». Guardai Manganello: «E lei maresciallo, non si commuove a pensare a quella mensola che ha messo con tanto amore?».

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«E se per gli anarchici è inconcepibile un partito, figuriamoci governare un popolo!»

«Suvvia, non faccia l’ipocrita. A chi non piace il potere? Lusso, donne, soldi, droga… soprattutto droga!»

«Non so di cosa parla!».

Il pubblico ministero guardò il maresciallo che, capito fosse arrivato il suo momento, puntò il dito: «E quegli otto chili di pasticche che abbiamo trovato nel bagagliaio della sua auto?»

«Che esagerazione!». Senza scompormi. «Non ho mai fumato neanche una canna. Ce l’ha messe lei?».

Si contrasse come un riccio: «Non ancora!» bisbigliò.

«L’obiettivo dell’anarchia non sarà mai la presa del potere. Governare significa dirigere l’andamento politico ed economico di uno Stato. Il che è impossibile visto che ne vogliamo la dissoluzione. Dice Errico Malatesta: “Per comprendere come una società possa vivere senza governo, basta osservare un po’ a fondo nella stessa società attuale, e si vedrà che in realtà la più gran parte, la parte essenziale della vita sociale, si compie anche oggi al di fuori dell’intervento governativo, e come il governo non interviene che per sfruttare le masse, per difendere i privilegiati, e per il resto viene a sanzionare, ben inutilmente, tutto quello che s’è fatto senza di lui e, spesso malgrado e contro di lui”. Poi prosegue con argomentazioni sempre dello stesso tenore e conclude…», girai la pagina, «”Sono appunto quelle cose in cui il governo non ha ingerenza, che camminano meglio e si accomodano, per volontà di tutti, in modo che tutti ci trovino utile e piacere”4». Restituii il foglio. «È più chiaro adesso cosa intendo quando dico che l’anarchia rifiuta il governo perché lo considera inutile?».

Pottutto fermò Manganello: «Lasci perdere, maresciallo. È sicuramente una domanda a trabocchetto!»

«Noi anarchici non vogliamo governare, né essere governati. Non vogliamo governare perché l’essere umano, possiede una dimensione etica naturale che gli consente di decidere personalmente cosa è giusto e cosa è sbagliato. Per fare ciò, però, occorre eliminare gli ostacoli artificiali che gli impediscono di essere libero: economia, Stato, religione, morale, tradizioni e così via. E il solo modo per conseguire questo obiettivo è creare un sistema di valori fondato sul piacere della condivisione attraverso il quale giungere al bene di tutti.»

«Essere governati?» mi sollecitò Pottutto.

«Rispondo nell’unico modo possibile e cioè citando Proudhon: “Essere governato significa essere guardato a vista, ispezionato, spiato, diretto, legiferato, regolamentato, incasellato, catechizzato, controllato, stimato, valutato, censurato, comandato, da parte di esseri che non hanno né il titolo, né la scienza, né la virtù. Essere governato vuol dire essere, a ogni azione, a ogni transazione, a ogni movimento, quotato, riformato, raddrizzato, corretto, tassato, addestrato, taglieggiato, sfruttato, monopolizzato, concusso, spremuto, mistificato, derubato”5».

Non mi aspettavo che Pottutto esclamasse un mamma mia! così tormentato. «Ha descritto esattamente il mio rapporto col dottor Persecuzio!».

Al solo udire quel nome Manganello sbiancò. Per la prima volta la segretaria si girò di un ventidue gradi. La Sfinge sulla porta ebbe un leggero tremolio della palpebra.

«Sarebbe?»

«Il procuratore capo!» bisbigliò a testa bassa.

Sogghignai immaginando che gli gridava: “Chiunque osi mettermi le mani addosso è un usurpatore o un tiranno e io lo proclamo mio nemico”6 e balbettava «E lei… e lei è… e lei è il mio…». Senza riuscire a concludere la frase.

«Perché ridacchia?»

«No, non ridacchio!»

«Ma certo che ridacchia. Vero Manganello che ridacchia?»

«Casomai ridacchiavo!» precisai. «Perché ora non sto ridacchiando!»

«Chiamo l’agente scelto Sevizia per farlo smettere di ridacchiare?» proferì il maresciallo condiscendente.

«Suvvia Manganello, un ridacchiamento non ha mai fatto male a nessuno!». Poi guardò me: «Ma se lo rifà…».

NOTE

1 – Louise Michel, Presa di possesso, 1890.

2 – Lev Tolstoj, Il rifiuto di obbedire, raccolta di riflessioni, 2019.

3 – Murrai Bookchin, Democrazia diretta, 2001.

4 – Errico Malatesta, L’Anarchia, 1891.

5 – Pierre Josepf Proudhon, L’idea Generale di Rivoluzione nel XIX secolo, Edizioni Centro Editoriale Toscano.

6 – Massima di P. J. Proudhon.

 

Editing a cura di Costanza Ghezzi: www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com

Immagine: Otto Dix, Trittico della guerra, 1928

 

 

 

7- Trilussa

A proposito di socialismo, mi venne in mente una poesia di Trilussa.

«Vogliamo farci una risata?» proposi al pubblico ministero.

«Ci dice tutti i nomi degli anarchici che hanno collaborato con lei?»

«Molto meglio!»

«Ha deciso di iscriversi al concorso per allievi ufficiali?»

Il pubblico ministero sfogliò le pagine del blog fino ad arrivare a quella che avevo indicato.

Mi bastarono due versi per capire che manco la filastrocca del pulcino aveva mai letto.

«Dia a me!» lo esortai.

«Provo io?». Manganello si propose.

«No!» rispose un coro che comprendeva oltre al sottoscritto e il pubblico ministero, anche la segretaria e, seppur con un sibilo informe, la Sfinge davanti alla porta.

«Mi raccomando, silenzio finché non ho finito!» li istruii. Cominciai:

«Un Gatto, che faceva er socialista

solo a lo scopo d’arivà in un posto,

se stava lavoranno u pollo arrosto

nella cucina d’un capitalista.

 

Quanno da un finestrino su per aria

S’affacciò un antro Gatto: Amico mio,

persa – je disse – che ce so pur’io

ch’appartengo a la classe proletari!

 

Io che conosco bene l’idee tue

So certo che quer pollo che te magni,

se vengo giù, sarà diviso in due:

mezzo a te, mezzo a me… Semo compagni!

 

-No, no: – rispose er Gatto senza core

Io nun divido gnente cò nessuno:

fo er socialista quanno sto a diggiuno,

ma quanno magno so conservatore!1».

 

Terminata la lettura seguì qualche secondo in cui il pubblico ministero e il maresciallo non batterono ciglio. Fu la segretaria la prima a strozzare un abbozzo di risata. Bastò perché Pottutto gorgogliasse un: «Ah!» vibrato, a cui seguì l’eh, eh! di Manganello che lo fissava per capire se e quanto osare.

«Carina!» disse il primo sospettoso. «Socialista quando ha fame… conservatore quando mangia…»

«È geniale!» replicai deluso da quella reazione asfittica. «Carina è una felpa con un bel disegno. Carina è la giraffa di peluche che si vince al Luna Park. Carina può essere Elisabetta Canalis!»

«No, quella è bona!». Il maresciallo sciolse gli istinti.

«Manganello!». Pottutto lo riprese. E parlandogli con la mano davanti alla bocca: «Chi è Elisabetta Canalis?»

«Non la conosce?»

«Dovrei?».

Il maresciallo smanettò il cellulare e gli mostrò una foto in cui la soubrette era avvolta da pizzi e trasparenze.

«Simpatica!» il PM frinì. «Simpatica e intelligente!»

«Suvvia, dottore!» Manganello gli fece gomitino. «Si lasci andare. Altro che simpatica, questa è proprio bona!».

 

NOTE

1, Trilussa, Er compagno scompagno.

 

Dipinto: Enrico Robusti, Rane fritte, 2002.

Editing a cura di Costanza Ghezzi – www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com

 

DUE PAROLE VELOCI SU “UNDERGROUND ANARCHICO”

Underground Anarchico è un blog a puntate in cui parlo di anarchia. Lo faccio immaginando di trovarmi nella stanza degli interrogatori davanti ai simpatici pubblico ministero dottor Pottutto e al fido scudiero il maresciallo Manganello. Ovviamente si tratta di fantasia: nella realtà lo sarebbero molto meno.

I capitoli sono brevi e ciascuno di essi tratta un argomento. Verranno pubblicati ogni primo del mese.

Ho scelto il dialogo sia per dare risalto alla spontaneità della narrazione piuttosto che alla sistematicità del ragionamento, sia perché l’anarchia è un “sentimento” che non ha bisogno di sistemi per essere compreso. Che poi compreso da chi? Gli anarchici sanno cosa sono. Sono gli altri, i farisei e i sempliciotti, che ne parlano senza cognizione. Posso dire, quindi, che il blog sia rivolto prevalentemente a loro. Per questo ho cercato di essere il più semplice, a tratti banale, possibile.

Il linguaggio è immediato e diretto. Ho voluto spogliare il testo da ogni orpello e artificio narrativo per dare risalto allo scambio di battute, fondamentale per fare emergere la personalità dei personaggi ed esaltare, seppur in maniera sintetica, i concetti e la passione anarchica.

Numerose sono le citazioni. Anche se non le amo particolarmente, su questo la penso come Shopenhauer, lo scopo degli articoli è divulgativo, quindi non potevo non dare voce ai padri dell’anarchia che l’hanno spiegata in maniera molto più efficace di quanto sarei in grado di fare personalmente.

Invito chiunque a contribuire. Accetto pareri, consigli, anche collaborazioni. Chi volesse può scrivere alla mail: raimondomariadopraho@gmail.com

Dedico Underground Anarchico alle vittime di Stato, per le quali non ci sarà mai giustizia.

Adesso vi saluto perché non ho da dire altro.

Anzi no, quasi dimenticavo: come non ringraziare la mia editor Costanza Ghezzi? Perché vogliamo parlare dell’ideatore e consulente editoriale del blog Raimondo Preti?

4- Differenza fra anarchia e anarchismo

 

Prima di dare una definizione di anarchia, mi sembrò opportuno spiegare la differenza fra il termine anarchia e anarchismo.

«Adesso ci mettiamo a fare della semantica?»

«La filosofia è sempre una questione semantica!». Replicai con Heidegger.

«Le chiedo solo di essere il più breve possibile!»

Promisi di fare del mio meglio.

«Cos’è l’anarchia?» riflettei a voce alta. «L’anarchia è tante cose… Per me, direi, è un sentimento. Un sentimento di avversione verso qualunque forma di autorità, di oppressione, sopruso, ingiustizia. Ma non tipo: vedo un extracomunitario picchiato dal caporale, mi dispiace per lui ma tiro dritto. Più come: vedo un extracomunitario picchiato dal caporale e il giorno dopo gli faccio trovare i chiodi nel punto in cui parcheggia il furgone ogni mattina

«Manganello aggiunga: danneggiamento a proprietà privata!». Il pubblico ministero si eccitò.

«C’è già!» confermò il maresciallo.

«Allora scriva… manovre speculative su merci!». E a me: «Le piace?»

«Non so cosa sia, ma suona benissimo!» mi congratulai. Ripresi a parlare: «Come direbbe Malatesta: “la molla motrice” della scelta anarchica “è l’amore degli uomini, il fatto di soffrire delle sofferenze altrui”, cioè “il desiderio che tutti gli altri abbiano eguale libertà” e “giustizia”1. Questa è l’anarchia. La mia anarchia!»

«Tutto qui?» chiese Pottutto con un’espressione piuttosto delusa.

«Mi avete chiesto di essere sintetico!»

«Prosegua!»

«Volentieri!». Presi fiato e ripartii: «Il sentimento di disprezzo verso il dominio è comune a tutti gli anarchici. Da questo seme è poi cresciuto un albero con innumerevoli ramificazioni. L’anarchia offre, infatti, una molteplicità di soluzioni a volte anche contrastanti fra loro. Partendo da una comune critica del reale, esse sviluppano una molteplicità di valori-scopi, da cui derivano altrettante tattiche. Gli anarchismi, appunto. Si pensi all’antitesi fra anarco-comunismo e anarco-capitalismo. L’elemento comune di tutti questi anarchismi, però, è e rimane l’antiautoritarismo, cioè l’attitudine a negare, reagire e lottare contro ogni forma di dominio politico, economico, sociale, religioso, morale per costruire una società in cui ognuno sia libero di realizzare se stesso. Come direbbe Emile Armand, uno dei padri dell’anarchismo individualista: vogliamo vivere “senza essere né servi né padroni di nessuno”». Conclusi: «L’anarchia è quindi un sentimento, un’aspirazione, l’anarchismo è la sua attuazione. Pensiero e azione!»

«Pensiero e azione? Questa l’ho già sentita…» gorgogliò Pottutto. «La Giovine Italia? Mazzini, il grande patriota!2»

«Proprio lui!» convenni. «Quel gran patriota su cui pendevano due condanne a morte per terrorismo!»

«Altri tempi quelli!». Pottutto Sospirò.

Note

*1 Errico Malatesta, La Base morale dell’anarchismo, 1922.

*2 Pensiero e Azione è una rivista edita da Giuseppe Mazzini fra il 1858 e il 1860. La Giovine Italia è un’associazione politica insurrezionale fondata da Mazzini nel 1831.

Immagine: Eduard Munch, Vampire, 1893.

Editing a cura di Costanza Ghezzi, Thàlia Servizi Editoriali, www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com

 

2- Autorità e potere

«Prima di cominciare, vorrei informarvi di un piccolissimo dettaglio» proferii senza enfasi.

Il pubblico ministero mi invitò a proseguire con un gesto fiacco della mano.

Schiarii la voce. Il cuore batteva forte perché era una vita che sognavo di dire quello che stavo per dire. Tante volte ero stato sul punto di farlo: scontri di piazza, posti di blocco, occupazioni, reati vari, ma mai la soddisfazione di un pestaggio, di un arresto, di un banale fermo, di un mediocre controllo delle generalità per poter affermare: «dichiaro di non riconoscere l’autorità dello Stato. Sono quindi vostro prigioniero politico!».

A parte gli occhiali del pubblico ministero scivolati dalla gobba del naso fin sulla punta, non un movimento dei muscoli facciali, non un respiro, una scintilla in quegli occhietti di triglia che guarda dalla cesta. Forse solo le occhiaie segnalarono il colpo, tinteggiandosi di un cupo color catrame, prima erano marrone castagno, sicuramente più in tono con il grigio tortora della sua pelle. Il commissario, invece, rimase com’era, con la mano incastrata nel doppio mento, un occhio aperto uno chiuso, bocca allentata da cui scivolava la pallina rosa di chewing gum. La segretaria finse di cercare qualcosa nella borsetta. L’agente davanti alla porta Sfinge era, Sfinge rimase.

Non che mi aspettassi folle in subbuglio, dichiarazioni di guerra gridate dal balcone di Palazzo Venezia o l’ingresso di Mastro Titta1, una maggiore partecipazione, però, direi proprio di sì!

Ricordo d’aver pensato: wow, tutto qui? E adesso che faccio?

Improvvisamente il tempo ripartì: «Splendido!» Il pubblico ministero ricominciò a impastare la pallina di pongo. «Quindi, se non ho capito male, noi potremmo anche andare via!». Si rivolse beffardamente al commissario.

Manganello implose in un asfittico: «E dove andiamo?»

«Ma dove vuole andare, Manganello!». Guardò me: «Verbalizziamo quello che ci ha detto, o basta che lo teniamo a mente?». Guardò il compare: «Lei cosa consiglia?». Tornò a me: «Che si fa in questi casi?»

«Non so» esitai. «In teoria, se non riconosco l’autorità della legge, non ho violato alcuna legge. Per cui potrei anche andarmene…». E poiché nessuno replicava: «Me ne vado?».

Il volto di Pottutto avvinazzò a chiazze: «Mi faccia capire: se non riconosce l’autorità dello Stato, suppongo non riconosca neanche la mia…»

«Beh, direi proprio di no!»

«Non sia così drastico, Dopraho. Ci pensi bene. Ho studiato fino a trentasei anni per essere qui. Potrei offendermi!».

Meditai sollevando lo sguardo: «Ci ho pensato. No!»

«Quella del commissario?»

«Assolutamente!»

«E perché mai?»

«Vuole che glielo spieghi?». Per un attimo mi sembrò di tornare all’esame di diritto penale, quando il professore chiese la differenza fra dolo specifico e dolo generico e io avrei voluto ripetergli tutto il Mantovani a memoria.

«Vede dottore» farfugliai. «Se me lo consente, partirei dal principio…»

«Adamo ed Eva?»

«No, la differenza fra autorità e potere… Diciamo così: c’è l’autorità e c’è il potere. L’autorità è un attributo, assegnato dalle tradizioni, dagli usi, dalla morale o dalla legge, che conferisce capacità a una persona, a un ente, a qualunque cosa di agire. In una parola: autorevolezza. Autorità, da augere, cioè innalzare, elevare. Se esercitata implica un’influenza, diretta o indiretta, assoluta o parziale, un’obbedienza passiva, che non esige spiegazioni.»

«Tipo la mia?» chiese Pottutto tronfio.

«Tipo la sua!» asserii. «E sa che ogni volta in cui mi trovo davanti a persone del suo calibro, penso sempre a Chomsky quando si chiede se l’anarchismo può accettare un’autorità eretta su fondamenta razionali?»

«Che domanda intelligente!» esclamò Pottutto, lisciandosi la barba. «E che risposta si è dato?»

«Certo che sì! Purché l’autorità non si trasformi in dominio. Un genitore, ad esempio. Lo assecondo, lo rispetto, da lui imparo. La mia ragione accetta la sua autorità. Ma il mio volere, che non è fatto di solo raziocinio e fortunatamente prende con le molle il buon senso, di fronte al suo ordine di non mangiare la Nutella…»

«Anch’io la sera ne mangio sempre una cucchiaiata di nascosto da mia moglie!» intervenne Manganello senza che nessuno l’avesse interpellato.

«Anche due!» rinforzò Pottutto con inflessione deridente. «Perché di nascosto?» aggiunse.

«Perché lei, più che l’autorità, c’ha il sadismo dentro!».

Ripresi a parlare: «Chi ha autorità possiede anche il potere, cioè la capacità di fare, di compiere le azioni che da essa derivano e che la esplicano. Prendiamo lei. Possiede sicuramente un’autorità, conferita dall’ordinamento e dilatata dalla devozione pubblica, che le attribuisce il potere di interrogarmi, incarcerarmi, in teoria anche farmi torturare. Mi segue?»

«Come no?» assentì. «Che diceva del torturare?»

«Dicevo che lei è una persona di potere…»

«Così mi lusinga!»

«Davvero!». Aggiunsi: «E non è da tutti! Robert Paul Wolff affermava che, se un ladro mi punta una pistola per derubarmi, io gli consegno i soldi perché riconosco in lui un potere – aggiungo intimidatorio – che mi induce a obbedire. Difficile, però, che possa riconoscergli l’autorità2». Sorrisi: «Anche se mi guarderei bene dal riferirglielo!»

«Eh, già!» convenne Manganello.

Proseguii: «In teoria il potere può essere convenzionale o arbitrario. Convenzionale quando viene esercitato legittimamente. Arbitrario quando è abusivo. Di fatto, però, può capitare, anzi spesso capita, che la norma o la morale o le tradizioni autorizzino pratiche ingiuste, oggettivamente ingiuste, semplicemente perché è utile al sistema, cioè alla loro conservazione. L’esempio classico è la schiavitù di cui parla Henry David Thoreau in Disobbedienza Civile3

«Non conosco. Quindi?»

«Quindi il potere diventa dominio ogni volta in cui si manifesta come arbitrio, cioè come esercizio di una potestà incontrastata. Presente quando Alberto Sordi, ne Il Marchese del Grillo, dice ai galantuomini: “Perché io so io e voi non siete un cazzo”4?».

Manganello frinì una risata trattenuta: «Troppo divertente Alberto Sordi!»

«Manganello, non sia banale!». Il PM lo riprese: «Vuole mettere Gian Maria Volonté?»

«E perché, la mimica di Nino Manfredi?» partecipai.

«Siamo mica qui per parlare di cinema?». Pottutto alzò la voce. «In base al suo ragionamento, io posserrei… possiderei… possetterei… avrei sia autorità, che potere, che dominio…». Sogghignò poi al fido scudiero: «Gliel’ho detto che possiamo fare quello che vogliamo!»

«Ecco perché quando portiamo i ragazzi nei sotterranei e poi diciamo che sono caduti dalle scale nessuno dice niente!» esclamò il commissario.

«Perché quando gli mettete la droga nella tasche?». Pottutto ammiccò un occhiolino.

«E quando lei falsifica i verbali?». Manganello replicò a tono.

«Manganello, non vorrà svelare tutti i nostri segreti!». Il PM s’irrigidì. Poi tornò a me: «Scommetto un mese del suo internamento che c’è un “ma”!»

«E’ una fortuna avere davanti un PM così sagace!» lo adulai.

«Dica dica, sono proprio curioso!».

«Poiché il confine fra l’auctoritas, cioè il potere di fare, e la potestas, cioè il potere su qualcosa, è molto labile, è facile si generino abusi, prevaricazioni, servitù, violenze. Per questo gli anarchici desiderano un mondo senza autorità, cioè potere, quindi dominio, coercizione, oppressione. E cosa rappresenta più di altri questo arbitrio?».

Pottutto fece labbrino. Manganello finse di rileggere gli appunti.

«Vi do un indizio: Stirner lo chiamava fantasma

«Stine? Conosce anche lei Stine?». Il commissario sobbalzò sulla poltrona.

«Chi è Stiner?». Il pubblico ministero domandò a Manganello.

«Stine, l’albanese arrestato ieri per violenza sessuale!». E con occhietti dolci: «A proposito, dopo che gli ho strappato i molari, ha confessato!»

«Stirner, con la erre!» precisai. «È un filosofo dell’ottocento autore del libro l’Unico e la sua proprietà. Un testo fondamentale per l’anarchismo5».

I due replicarono con la faccia inequivocabile dell’ignoranza.

«Stirner definiva lo Stato un fantasma… Certo, dal XIX secolo la società è molto cambiata. Dopo la Seconda guerra mondiale, ad esempio, il post-modernismo, Foucault in particolare, ha dimostrato che il potere non è solo statale, ma si manifesta in tutte le relazioni quotidiane, come l’educazione, la sanità, il governo, che operano fra loro realizzando governamentalità molteplici6. Ciò nonostante, l’abuso istituzionalizzato rappresenta, oggi più di prima, la sublimazione delle quotidiane prevaricazioni, legittimandole. Per questo l’anarchico era e sarà sempre un nemico dell’autorità pubblica. Mi spiace dottore, ma per gli anarchici non esiste alcuna sovranità al di sopra della propria!».

«Questo è un bel problema!» Pottutto bofonchiò, poi riprese a manipolare la pallina di pongo.

 

NOTE

*1 Mastro Titta, all’anagrafe Giovanni Battista Bugatti (1779-1869), famoso boia dello Stato Pontificio.

*2 Robert Paul Wolff, In difesa dell’anarchia, 1999.

*3 Hanry David Thoureau, Disobbedienza civile, 1848

*4 Il Marchese del Grillo, film con Alberto Sordi, 1981.

*5 Max Stirner, L’unico e la Proprietà, 1844.

*6 Michel Foucault, L’etica della cura di sé come pratica della libertà, intervista del 20.1.1984, in M Foucault, Antologia.

 

 

IMMAGINE: Pablo Picasso, Guernica, 1937

A cura di Costanza Ghezzi- Thàlia Servizi Editoriali, www.costanzaghezzi.com, costanzaghezzi@gmail.com