46 – COMUNITÀ: PARTECIPAZIONE DIRETTA
46 – COMUNITÀ: PARTECIPAZIONE DIRETTA – segue
«Presupposto fondamentale dell’autogestione è la partecipazione diretta: condivisione delle decisioni ed equa contribuzione alle attività comuni.»
«Il bene comune!» assentì Pottutto.
«Il bene che i membri del gruppo approvano e vogliono conseguire» assentii a mia volta. «E visto che non è lucrativo, le relazioni non sono gerarchiche, come invece avviene nella società del dominio. Nessuno prevale sull’altro e tutti collaborano per attuare i reciproci interessi, aspirazioni, potenzialità.»
«Ma che potenzialità possono avere se non c’è un guadagno?» mi interrogò il PM.
«Perché una persona si realizza solo se lavora per spendere denaro?»
«Quello fanno gli uomini!»
«Perché quello è stato insegnato. Perché quello hanno imparato a fare. Perché l’educazione, la morale, la legge, l’opinione pubblica sono paraocchi che oscurano la personalità.»
«Ma se il cavallo si spaventa io cado a terra!» brontolò Manganello.
«Ma noi non siamo il cavaliere, siamo il cavallo!» replicai. «Non credo che la morte dia molte altre possibilità . Per questo abbiamo il dovere di rendere la nostra esistenza un’opera d’arte. Ciò è plausibile soltanto se riusciamo ad emergere dall’abisso annichilente della materialità e ci immergiamo nella bellezza estatica dell’unità indifferenziata di cui facciamo parte. E, come diceva Benedetto Croce, l’arte non ha niente a che vedere con l’utile».
Pottutto osservava la pallina di pongo passare da una mano all’altra.
Manganello si scorticava un brufolo vicino alla narice.
Ripresi a parlare: «Affinché la logica del dominio non prevalga sulle buone intenzioni, occorre che le volontà si accordino. Lo stesso Proudhon asseriva che i reciproci interessi possono conciliarsi attraverso un sistema di contratti stipulati fra cittadini con i quali organizzare la società dal basso piuttosto che dall’alto21. Accordi in cui sia garantito che non vi è Stato, da una parte o dall’altra, né ingannatore né ingannato né frodatore né frodato: in altre parole che ciascuno, durante il contratto, ha agito secondo il proprio determinismo e si è mostrato nella sua veste. Solo così possono svilupparsi rapporti di reciprocità fondati sulla solidarietà volontaria, socialità volontaria, reciprocità volontaria, garanzia volontaria22. L’eguale libertà è la base della convivenza anarchica e trova la sua massima espressione nella partecipazione diretta consensuale.»
«Quel tutti decidono tutto che diceva prima?»
«Quello!» ribadii. «La partecipazione diretta è un metodo che consente di arricchire l’individuo di quella razionalità, di quel senso di mutualità e giustizia, di quella vera libertà che assicura un cittadino capace e creativo. Consiste nella possibilità di ogni membro della comunità di decidere personalmente. Decide personalmente al momento della costituzione e dell’ingresso nel gruppo, decide personalmente gli obiettivi e i mezzi, decide personalmente le regole. Chiunque è attore di se stesso e protagonista della vita comune. Perché si è liberi quando si può scegliere il proprio destino, di cui si è responsabili per le scelte fatte. La determinazione condivisa, creando interdipendenza all’interno di una comunità solidale, è pertanto etica civica, come la chiamava Bookchin23, in cui la propria personalità si realizza attraverso la responsabilità verso la comunità».
Al mio perentorio: «Ma non basta!», Pottutto sobbalzò: «Potrebbe evitare questo tono, che mi mette ansia?»
Mi scusai.
«Ma ciò non è sufficiente» dissi più moderatamente. «Perché la partecipazione sia completa occorre che la deliberazione non sia maggioritaria. Ne ho già parlato: la maggioranza è sempre supremazia di qualcuno su qualcun altro, che deve adattarsi pena la sanzione o l’isolamento. La socialità, invece, si esalta quando non è competizione, ma armonia. Non è una gara in cui vince il più forte, ma condivisione di un progetto. Per questo la pronuncia deve essere unanime.»
«Si devono mettere tutti d’accordo?»
«Senza il consenso unitario non si decide» dissi. «Ciò può richiedere più tempo, discussioni più approfondite, anche confronti serrati, ma la sintesi deve essere condivisa e tutti devono sentirsi vincitori.»
«Non c’è bisogno le dica che è impossibile!»
«Anche l’anarchia sembra impossibile eppure, se la temete, significa che è già una possibilità. Sperimentare è nella nostra natura, sbagliare in quella umana. Una volta che si è consapevoli di questo, ogni fallimento è un successo.»
«Ma che sta dicendo?» miagolò il maresciallo al pubblico ministero.
«Fa il filosofo!», questi sussurrò.
«Non lo capisco!»
«Quello fanno i filosofi!»
«Se poi si avvera ciò che dicono, tutti a citarli però!», li sferzai. «E se non si raggiunge l’unanimità, la questione viene abbandonata o rivalutata in un secondo momento, senza fretta. Detto ciò, essa non è una regola assoluta. Ogni comunità è libera di gestirsi come vuole.»
«Ha già fatto marcia indietro!» sghignazzò Manganello.
«Se i filosofi fossero coraggiosi non parlerebbero!»
«Vi ho sentito!» dissi.
Mi alzai.
«Dove va?»
«Ad agire!». Mi avviai verso la porta: «Mi scusi agente, devo passare!» parlai alla Sfinge, che Sfinge era e Sfinge rimase.
«Si rimetta a sedere!»
«Ma è vivo questo?» domandai.
«Torni a sedere, le ho detto!» tuonò il PM.
Obbedii solo perché mi premeva concludere il concetto.
Un po’ anche perché Manganello stava chiamando Sevizia.
Ma non lo diedi a vedere.
«Può capitare che alcune comunità anarchiche decidano a maggioranza o con un sistema misto: magari ricorrendovi se non raggiungono l’unanimità dopo un certo numero di votazioni. Questo si chiama pluralismo. Presupposto indispensabile è però che sia espressamente accettato da tutti e che all’oppositore sia concesso di non rispettare la deliberazione purché non crei situazioni di privilegio o sfruttamento.»
«Tipo un anarchico dell’anarchia?»
«Ovvio che l’inosservanza deve limitarsi alla singola decisione, altrimenti sarebbe più sensato cambiasse comunità» specificai. «In ogni caso, far prevalere la volontà di qualcuno su qualcun altro in un consesso antiautoritario di sviluppo armonico del bene comune mi sembra una contraddizione. L’esperienza delle comuni, delle colonie, degli eco-villaggi, delle taz, di tutti i modelli di organizzazione non gerarchica ha infatti dimostrato che quando l’interesse personale coincide con quello del gruppo, la convergenza si realizza spontaneamente».
Dopo un ghigno riluttante: «Riflettevo su una cosa…» biascicò Pottutto grattandosi il mento.
«Già, riflettiamo!». Manganello si svegliò. E al PM: «Su cosa riflettiamo?»
«Mi parla di unanimità… Ma l’unanimità non è sinonimo di quell’omologazione che lei tanto disprezza?» concluse con un’espressione identica a quella ritratta nella Autosmorfia di Giacomo Balla24.
«Anche qui mi ripeto» dissi avvilito. «L’omologazione si ha quando la minoranza è obbligata a adattarsi alla volontà della maggioranza. Se invece gli individui discutono una questione e poi la approvano consensualmente, non si uniformano, scelgono» risposi. Subito aggiunsi: «La comunità non potrà mai essere reazionaria perché opera confrontandosi continuamente con le altre sia direttamente, sia attraverso la Confederazione, la cui funzione è proprio quella di fornire stimoli che tengano conto delle mutevoli esigenze sociali, condizioni economiche, pratiche quotidiane. Non è mai isolata, mai regressiva o conservatrice o oscurantista.»
«Sembra tutto così facile!» gorgogliò Manganello.
«Lo è!»
«Non credo!»
«Neanch’io. Per realizzare la propria personalità, bisogna possederne una!».
NOTE
– 21 P.J. Proudhon, Confessioni di un rivoluzionario, 1867.
– 22 E. Armand, L’iniziazione, ivi.
– 23 Murray Bookchin, Per una società ecologica, Eleuthera, 1976.
– 24 Giacomo Balla, Autosmorfia, olio su tela, 1900.
Editing a cura di Costanza Ghezzi
Immagine: H. Matisse, La conversazione, 1912